Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7131 del 12/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 7131 Anno 2016
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: VENUTI PIETRO

SENTENZA

sul ricorso 5045-2011 proposto da:
DI

GIACOMO

GIOVANNI

C.F.

DGLGNN79A04H703V,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIPRO 77,
presso lo studio dell’avvocato GERARDO RUSSILLO, che
la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2016
482

POSTE ITALIANE S.P.A. C.E. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAllINI 134, presso lo
studio

dell’avvocato

FIORILLO

LUIGI,

che

la

Data pubblicazione: 12/04/2016

rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8184/2009 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 16/02/2010 R.G.N. 6144/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
04/02/2016

dal Consigliere Dott. PIETRO

VENUTI;
udito l’Avvocato RUSSILLO GERARDO;
udito l’Avvocato BONFRATE FRANCESCA per delega verbale
Avvocato FIORILLO LUIGI;
udito il

P.M.

in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udienza del

R.G. n. 5045/11
Ud. 4 febbr. 2016

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

febbraio 2010, ha confermato la decisione di primo grado che aveva
respinto la domanda proposta da Giovanni Di Giacomo nei confronti di
Poste Italiane s.p.a., volta ad ottenere la declaratoria di nullità del
termine apposto al contratto, la riassunzione ed il risarcimento del
danno, ritenendo risolto il contratto per mutuo consenso.
La Corte anzidetta, premesso che il contratto era stato stipulato
dal 29 marzo 2000 al 30 giugno 2000 per “esigenze eccezionali
conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti
occupazionali in corso ed in ragione della graduale introduzione di
nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in
attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio
delle risorse umane”, ha osservato che il giudice di primo grado aveva

accolto l’eccezione di risoluzione consensuale del rapporto proposta da
Poste, in considerazione del lungo tempo decorso per la proposizione
dell’azione giudiziale (quasi sei anni dalla conclusione del rapporto),
della mancanza di contestazioni e riserve durante tale periodo,
dell’accettazione del trattamento di fine rapporto, della limitata durata
del contratto, della probabile esistenza di altre attività lavorative, della
esigenza di certezza del rapporto di lavoro.
A fronte di tali argomentazioni, ha aggiunto la Corte,
l’appellante aveva fondato i motivi di gravame su una eccezione di
nullità del termine non formulata in primo grado, e quindi nuova,
relativa alla violazione del limite temporale del 30 aprile 1998,
rilevando solo genericamente che l’eccezione di risoluzione consensuale
del rapporto era infondata, senza formulare specifiche censure avverso
le considerazioni di fatto e di diritto poste dal giudice di primo grado a
sostegno della decisione.
Tutto ciò rendeva inammissibile il gravame.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 16

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Contro questa sentenza ricorre per cassazione il lavoratore sulla
base di tre motivi. Resiste la società con controricorso. iy t Mtt:

blzw-444,:v •

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.

Con il primo motivo, denunciando omessa pronuncia,

violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché di contratti e
accordi collettivi, il ricorrente sostiene che erroneamente la Corte di

contratto non fosse stata formulata in primo grado.
Era stato infatti dedotto in primo grado che, in base agli accordi
sindacali, non potevano essere stipulati dopo la data del 30 aprile 1998
contratti a termine, atteso che le parti sindacali, in forza delle delega
di cui all’art. 23 della legge n. 56 del 1987, avevano convenuto di
riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, conseguente
alla trasformazione giuridica dell’ente, sino alla data suddetta.
2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando omessa
pronuncia e violazione degli artt. 1372 e 2697 cod. civ., rileva che con i
motivi di gravame era stata censurata specificamente la sentenza di
primo grado con riguardo alla ritenuta risoluzione consensuale del
rapporto. Era stato infatti dedotto che, ai fini di tale risoluzione, era
necessaria una volontà chiara e certa di voler porre definitivamente
termine al rapporto e che tale prova doveva essere fornita dal datore di
lavoro. Nella specie, Poste si era limitata ad evidenziare il mero decorso
del tempo.
3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che la Corte di
merito ha omesso di pronunciarsi circa la prospettata violazione degli
artt. 1 e 2 della legge n. 230 del 1962 e dell’art. 23 della legge n. 56
del 1987. Inoltre, non ha considerato che la società sia nel giudizio di
primo grado che di secondo grado, non ha fornito alcuna prova circa il
mancato superamento della percentuale prevista dalla contrattazione
collettiva per le assunzioni a tempo determinato.
4. Premesso che quest’ultimo motivo è inammissibile, atteso che
la questione con esso dedotta non risulta essere stata affrontata dalla
sentenza impugnata ed il ricorrente non deduce di averla proposta in
appello né, tanto meno, ne specifica i termini, osserva il Collegio che il
secondo motivo è infondato, con assorbimento del primo.

merito ha ritenuto che l’eccezione di nullità del termine apposto al

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Questa Corte ha ripetutamente affermato che nel giudizio
instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto
dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai
scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per
mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di

nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime
di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. L’onere di
provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi siffatta volontà grava
sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso
del rapporto (cfr. Cass. n. 16932/11; Cass. n. 5887/11; Cass. n.
23319/10; Cass. n. 23057/10: Cass. n. 16424/10; Cass. n. 2279/10).
E’ stato altresì precisato che, ai fini della valutazione del
comportamento concludente della parte, non è di per sé sufficiente la
mera inerzia o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto (Cass. n.
20390/07; Cass. n. 26935/08; Cass. n. 2279/10).
La citata giurisprudenza ha infine affermato che la valutazione del
significato e della portata del complesso dei suddetti elementi compete
al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di
legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
Nella specie la Corte di merito ha dato atto che il giudice di primo
grado, con “ampie argomentazioni”, sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine (circa sei
anni), del comportamento tenuto dalle parti e di altre circostanze
significative, fosse emersa la comune volontà delle parti medesime di
considerare definitivamente cessato il rapporto lavorativo.
Ha aggiunto che tali argomentazioni erano state censurate
genericamente dall’appellante, senza cioè che fossero state formulate
specifiche censure in ordine al decisum.
Ed in effetti, dal motivo di appello trascritto in ricorso dal Di
Giacomo, risulta che le argomentazioni del giudice di primo grado sono
state censurate esclusivamente con l’affermazione che “per la
configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso è necessario

tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine

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accertare che sia presente tra le parti una volontà chiara e certa di
volere d’accordo fra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto
lavorativo” e che tale prova deve essere fornita da chi fa valere in
giudizio la risoluzione consensuale, mentre la società si era limitata ad
evidenziare il mero decorso del tempo.
Al riguardo, questa Corte ha più volte affermato che la specificità

sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte
ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime ragion per cui
alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte
argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo
giudice (Cass. 31 maggio 2006 n. 12984; Cass. 19 settembre 2006 n.
20261; Cass. sez. un. 9 novembre 2011 n. 23299).
La conferma della non specificità del gravame trova peraltro
riscontro nello stesso ricorso per cassazione, in cui il ricorrente ha
ritenuto di dovere “integrare” le censure svolte in sede appello “con
ulteriori argomentazioni alla luce della giurisprudenza intervenuta
successivamente al deposito del ricorso de quo”.
Correttamente dunque la Corte di merito ha ritenuto
inammissibile il motivo di gravame, non contenendo esso “la
indicazione delle ragioni concrete per cui si lamenta la erroneità della
sentenza con un supporto argomentativo idoneo a contrastare la
motivazione della decisione impugnata”.
La sentenza impugnata deve pertanto essere confermata.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio, che liquida in C 100,00 per esborsi ed C
3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge.
Così deciso in Roma il 4 febbraio 2016.

dei motivi di appello esige che alle argomentazioni svolte nella

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