Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7112 del 03/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 03/03/2022, (ud. 08/02/2022, dep. 03/03/2022), n.7112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 421/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

DE VIZIA TRANSFER S.P.A., elettivamente domiciliata in Roma, via

Aterno, n. 9, presso lo studio dell’Avv. Claudio Pellicciari che,

con gli avv.ti Alessandro Tomassini e Sabina Ferraris, la

rappresentata e difende per procura speciale.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte n. 1097/01/19, depositata il 17/10/2019.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’08 febbraio

2022 D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, ex art. 23, comma 8-bis,

convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Dott.

Michele Cataldi;

dato atto che il Sostituto Procuratore Generale Dott. Troncone Fulvio

ha chiesto di rigettare il ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La De Vizia Transfer s.p.a. impugnò l’avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2011, con il quale l’Agenzia delle Entrate, per quanto qui ancora d’interesse, aveva (per un più agevole coordinamento con l’elencazione di cui alla sentenza impugnata si indicano i rilievi interessati con la stessa numerazione adottata da quest’ultima):

1) recuperato a tassazione, ai fini Ires, la quota di accantonamento del fondo svalutazione crediti, per la parte relativa ai crediti ceduti pro solvendo dalla contribuente, in quanto indeducibile D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 106, comma 1;

2) recuperato a tassazione, ai fini Ires ed Irap, la somma relativa all’Iva versata dalla contribuente nel 2011 a seguito di verifica fiscale e definizione in adesione di accertamenti relativi agli anni d’imposta 2003 e 2004, in quanto indeducibile D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 99;

3) con riferimento ai contratti di raccolta e smaltimento dei rifiuti, stipulati dalla contribuente con diversi Comuni, disconosciuto l’applicabilità alla contribuente dell’agevolazione consistente nella deduzione del costo del lavoro dipendente (c.d. cuneo fiscale) dalla base imponibile dell’Irap, in quanto beneficio non spettante alle imprese operanti in concessione ed a tariffa nei servizi pubblici.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Torino, con la sentenza n. 564/07/18, accolse integralmente il ricorso.

Avverso tale sentenza, per quanto qui ancora rileva, l’Ufficio ha proposto appello di fronte alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte che, con la sentenza n. 1097/01/19, depositata il 17/10/2019, lo ha respinto.

L’Ufficio ha quindi proposto ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della sentenza della CTR.

La contribuente si è costituita con controricorso.

Ambedue le parti hanno prodotto memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale l’Agenzia, con riferimento al rilievo 1), denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106, e la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la CTR erroneamente ritenuto deducibile, ai fini Ires, la quota di accantonamento del fondo svalutazione crediti, per la parte relativa ai crediti ceduti pro solvendo dalla contribuente, sebbene la posta fosse indeducibile D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 106, comma 1.

Il motivo è infondato.

Invero, come questa Corte ha già chiarito, “In tema di determinazione del reddito d’impresa, la deduzione degli accantonamenti iscritti nel fondo rischi su crediti, prevista dall’art. 71 (D.Lgs. 30 dicembre 1993, n. 344, art. 106 secondo la numerazione introdotta) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si applica ai crediti ceduti “pro solvendo” se, e nella misura in cui, essi, nonostante la cessione, determinino una situazione di rischio per il cedente.” (Cass. 30/06/2011, n. 14337, n. 14338 e n. 14339).

Ed è stato ulteriormente precisato che “in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, gli accantonamenti iscritti nel fondo di copertura di rischi su crediti sono deducibili, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 71, anche nell’ipotesi in cui il credito sia stato oggetto di cessione “pro solvendo”, come accade nello sconto bancario di titoli rappresentativi di crediti: se è vero, infatti, che in tal caso il cedente non è più titolare del credito, è altrettanto vero, però, che il trasferimento dello stesso in favore del cessionario è risolutivamente condizionato all’inadempimento del debitore ceduto, il quale comporta la retrocessione del credito (…) nessun rilievo, in proposito, assume il carattere solo eventuale della retrocessione, bastando il relativo rischio a dar rilevanza al momento economico dell’operazione, in ossequio alla “ratio” del citato art. 71, che esclude la deducibilità per i soli crediti coperti da garanzia assicurativa, in quanto assicurati contro il rischio dell’insolvenza, e non anche per quelli per i quali tale rischio rimane a carico esclusivo del cedente (Cass., 23 ottobre 2006, n. 22785).” (Cass. 12-08-2021, n. 22763, in motivazione).

Pertanto non è fondata la censura della ricorrente incidentale nella parte in cui si fonda sulla constatazione che il credito ceduto, anche se pro solvendo, non è più un credito del cedente. Ne’ è fondata la stessa censura, nella parte in cui assume la violazione dell’onere probatorio gravante sulla contribuente, poiché che la CTR non avrebbe valutato se la contribuente avesse dato o meno la prova del rischio di inadempimento del credito in questione.

Infatti, come già rilevato, “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018). Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata rende invece conto di tale verifica, rilevando in fatto (con valutazione non sindacata in questa sede, né sindacabile, atteso il limite della c.d. doppia conforme di cui all’art. 348-ter c.p.c., comma 5) che risultava il rischio dell’inesigibilità del credito, evento successivamente materializzatosi.

2. Con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia, con riferimento al rilievo 2), denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 99, e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 60, per avere la CTR ritenuto erroneamente inapplicabile, al fine di negare la deducibilità, ai fini Ires ed Irap, della somma relativa all’Iva versata dalla contribuente nel 2011, a seguito di verifica fiscale e definizione in adesione di accertamenti relativi agli anni d’imposta 2003 e 2004, il predetto art. 60, il cui ultimo comma, nella versione vigente nell’anno d’imposta (2011) accertato, disponeva che “Il contribuente non ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta pagata in conseguenza dell’accertamento o della rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi.”.

Il motivo è infondato.

Invero, come rilevato dai giudici di ambedue i gradi di merito, solo successivamente all’anno d’imposta sub iudice, con il D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 93, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, con effetto dal 24 gennaio 2012 il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, u. c., è stato così modificato: “Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione.”.

Pertanto, non essendo possibile nel 2011 rivalersi, ratione temporis, dell’Iva in questione, non ostava alla sua deduzione, ai fini Ires ed Irap, il succitato art. 99, il cui comma 1, stabilisce che “Le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento”.

Peraltro la stessa Agenzia, nella Circolare 17 dicembre 2013, n. 35, espressamente afferma, senza eccezioni, a proposito della rivalsa, che “Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 60, comma 7, così come modificato dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 93, si applica agli accertamenti divenuti definitivi successivamente alla sua entrata in vigore (24 gennaio 2012).”.

A fronte dell’evidenza dei testi normativi applicabili ratione temporis, non sono quindi rilevanti le ulteriori considerazioni della ricorrente, fondate su una pretesa distinzione tra rivalsa effettuata e prevista e sulle sue conseguenze.

La conclusione della CTR, resa sulla base di tale ricostruzione normativa, è dunque corretta.

3. Con il terzo motivo di ricorso l’Agenzia, con riferimento al rilievo 3), denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la falsa applicazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2) e 4), e del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, artt. 58, 61, 64, 65, per avere la CTR erroneamente ritenuto rilevante, ai fini della deducibilità dell’Irap, che i contratti tra la contribuente e le pubbliche amministrazioni locali, in materia di servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, fossero qualificabili come di appalto o di concessione; e, comunque, per avere erroneamente accertato che si trattasse di contratti di appalto, quando il trasferimento, da parte dei Comuni, dell’esercizio della loro privativa legale del servizio ad un’impresa avrebbe dato piuttosto luogo ad una concessione traslativa ed a tariffa.

Il motivo è infondato.

Nel caso di specie si discute dell’applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), così come modificato dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, il quale esclude dal beneficio fiscale della deduzione, ai fini Irap, di alcune poste relative al costo del lavoro, le “imprese operanti in concessione e a tariffa nei settori dell’energia, dell’acqua, dei trasporti, delle infrastrutture, delle poste, delle telecomunicazioni, della raccolta e depurazione delle acque di scarico e della raccolta e smaltimento rifiuti”.

La Commissione Europea, con la decisione C(2007) n. 4133, del 12 ottobre 2007, ha ritenuto di non sollevare obiezioni relativamente alla misura di cui del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2, 3 e 4, in ragione della neutralità dell’esclusione rispetto ai servizi operanti in concessione ed a tariffa.

3.1. Premesso che, ai fini dell’esclusione del beneficio, debbono concorrere ambedue i presupposti di legge della “concessione” e della “tariffa”, in ordine al primo questa Corte ha già avuto occasione di precisare che “In tema di IRAP, poiché le imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”), caratterizzate dall’operare in regime di concessione e a tariffa, sono escluse dal godimento degli sgravi sul costo del lavoro (cd. cuneo fiscale) previsti dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), a fini agevolativi di riduzione della base imponibile rileva il regime in cui opera il contribuente, tenuto conto che nella concessione il corrispettivo è costituito dal diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto con assunzione del rischio a carico del concessionario, mentre nel contratto di appalto esso consiste in un contributo economico erogato dalla stazione appaltante.” (Cass. 11/08/2020, n. 16889; nello stesso cfr. Cass. n. 24977 del 2021).

A sostegno di tale arresto è stato argomentato che, come rilevato già da questa Corte (Cass. 06/05/2015, n. 9139), anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato 09/09/2011, n. 5068) ha ritenuto che “….le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato”.

Quindi, la concessione, ovvero l’autorizzazione a gestire o sfruttare un’opera o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario del rischio operativo di natura economica di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati ed i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi. Invero, “la qualificazione come concessione di servizio pubblico deriva dalla circostanza che il corrispettivo non è a carico dell’Amministrazione e che l’erogazione del servizio, accompagnata dalla corresponsione di un canone, è compensata dalla concessione del diritto di sfruttare economicamente, ed in esclusiva, il servizio” (Cons. Stato 12/05/2016, n. 1927).

Pertanto, si ravvisa una concessione se, in base al titolo, l’operatore assume i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un canone o di una tariffa; mentre si configura un contratto di appalto se l’onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sull’Amministrazione. E’ stato poi sottolineato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza comunitaria, secondo la quale si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi (Corte Giust. CE, 15 ottobre 2009, in C- 196/08); mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giust. CE, 10 settembre 2009, C-206/08, per la quale, nel caso di un contratto avente ad oggetto servizi, il fatto che la controparte contrattuale non sia direttamente remunerata dall’amministrazione aggiudicatrice, ma abbia il diritto di riscuotere un corrispettivo presso terzi, è sufficiente per qualificare quel contratto come “concessione di servizi” ai sensi della Dir. n. 2004/17/CE, art. 1, n. 3, lett. b), se il rischio di gestione nel quale incorre l’amministrazione aggiudicatrice, per quanto considerevolmente ridotto in conseguenza della configurazione giuspubblicistica dell’organizzazione del servizio, è assunto integralmente o in misura significativa dalla controparte contrattuale). Infine, è stato rilevato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che è concorde, sul punto, anche la Dir. comunitaria 2014/23/CE (“direttiva concessioni”), art. 2, par. 1, lett. a) e b), che ha definito “concessione di servizi” il contratto, a titolo oneroso, stipulato per iscritto, in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo.

Ed anche secondo il D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 3, comma 1, lett. vv) (codice dei contratti pubblici) è “”concessione di servizi” un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera II) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi;”.

Dunque, la distinzione tra concessione ed appalto si rinviene nel fatto che, nel contratto di concessione, il corrispettivo derivante dall’erogazione del servizio è proprio il diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto, diversamente da quanto accade nell’appalto, nel quale il corrispettivo che deriva dall’esecuzione di lavori o dalla gestione di servizi è l’erogazione di un contributo economico che viene pattuito con la stazione appaltante e dalla stessa viene erogato.

In questo senso si sono pronunciate recentemente anche le Sezioni Unite di questa Corte che, sia pure nel contesto del riparto della giurisdizione, hanno chiarito che “In tema di affidamento di servizi da parte della P.A. ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi.”. (Cass., Sez. Un., 28/05/2020, n. 10080).

3.2. Ricordato che, come rilevato anche nella citata Decisione della Commissione Europea, ai fini dell’esclusione dell’agevolazione il requisito della concessione deve concorrere con quello della “tariffa”, l’interpretazione corretta di tale ultimo elemento è stata chiarita recentemente da questa Corte, alla luce soprattutto della valutazione espressa dalla Commissione Europea: “In tema di IRAP, il vantaggio fiscale della riduzione della base imponibile dichiarata, in applicazione delle deduzioni introdotte dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 266 (cd. riduzione del cuneo fiscale prevista dalla legge finanziaria 2007), che ha modificato il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2 e 4, non si applica alle imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”) in forza di una concessione traslativa e a tariffa remunerativa, ossia capace di generare un profitto, essendo tale interpretazione del concetto di tariffa coerente con la “ratio” giustificatrice del cd. cuneo fiscale.” (Cass. 12/12/2019, n. 32633).

Infatti la Commissione Europea ha riconosciuto la legittimità dell’esclusione del beneficio fiscale, nei confronti delle public utilities, prendendo atto che: (p. 33.) “le autorità italiane hanno giustificato l’esclusione sostenendo che essa ha lo scopo di evitare la potenziale sovracompensazione generata dalla misura in quanto l’attuale livello delle tariffe è stato determinato tenendo conto dell’onere IRAP prima della riforma, ossia senza le deduzioni dalla base imponibile introdotte dalla misura. In effetti i pubblici servizi interessati sono soltanto quelli operanti in settori nei quali si tiene già interamente conto dell’onere fiscale nella determinazione della tariffa. (p. 34.) Inoltre, per quanto riguarda il futuro, le autorità italiane si sono impegnate a far sì che l’esclusione non determini né vantaggi né svantaggi per i pubblici servizi in quanto i costi fiscali continueranno a essere presi in considerazione. Per questi motivi l’esclusione dei pubblici servizi operanti in concessione e a tariffa non determinerà un vantaggio o uno svantaggio selettivo.”. Proprio per la neutralità dell’esclusione del beneficio fiscale rispetto ai servizi pubblici operanti in concessione e a tariffa la Commissione Europea ha quindi negato che la misura costituisse aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune, ai sensi del trattato CE, art. 87, p. 1..

Infatti consentire, indiscriminatamente, a tutte le imprese operanti nel settore dei pubblici servizi di fruire delle deduzioni Irap darebbe luogo a un utile insperato, generando una “sovracompensazione” capace di frustrare l’obiettivo perseguito dall’autorità di regolamentazione con la fissazione delle tariffe; per converso, escludere dal beneficio fiscale le imprese del settore che applicano una tariffa non remunerativa, causerebbe uno svantaggio selettivo, ossia un pregiudizio economico del tutto ingiustificato (così Cass. 12/12/2019, n. 32633).

3.3. La relazione logica e funzionale tra i due presupposti, necessariamente concorrenti, dell’esclusione dal beneficio fiscale ne chiarisce la ratio di scongiurare il vantaggio che ne trarrebbe l’impresa che, in regime concessorio, riceva già il corrispettivo rappresentato dalla tariffa che le paga l’utenza. Ove tale tariffa (di regola fissata dalla pubblica amministrazione e non dipendente dal mercato) sia anche remuneratoria e compensativa del servizio prestato, sommare ad essa anche la deduzione de qua darebbe quindi luogo alla ridetta “sovracompensazione”.

Pertanto, nel contesto del regime concessorio, la tariffa pagata dall’utenza costituisce una componente necessaria della remunerazione dell’impresa, giacché non avrebbe altrimenti senso imporre la verifica della sua remuneratività. In questo senso, del resto, è esplicita la stessa prassi dell’Amministrazione finanziaria, quando rileva che è “concessione” “un’attività il cui corrispettivo è costituito da una tariffa: ossia da un prezzo fissato o regolamentato dalla pubblica amministrazione in misura tale da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione”.

Chiara, sul punto, è anche l’affermazione di questa Corte, secondo cui “la netta distinzione tra le due figure è stata recentemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito che, in tema di affidamento di servizi da parte della pubblica amministrazione ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi (in termini: Cass., Sez. Un., 28 maggio 2020, n. 10080)” (Cass. 15/09/2021, n. 24977, in motivazione).

In particolare, poi, proprio con riferimento ai contratti che hanno per oggetto la gestione dei rifiuti, questa Corte ha utilizzato il medesimo criterio, affermando che è ravvisabile, in base al diritto dell’Unione Europea, un appalto di pubblico servizio laddove il corrispettivo sia pagato direttamente dall’Amministrazione al prestatore del servizio stesso, il quale non ne sopporta il rischio, a differenza del concessionario di servizi, che trae la propria remunerazione dai proventi ricavati dagli utenti (Cass. 20/04/2017,n. 9965).

3.4. Date tali premesse, ha fatto buon governo di tali principi la CTR che ha riconosciuto la deducibilità dell’Irap, relativamente al c.d. cuneo fiscale, dopo aver ravvisato la sussistenza dell’appalto, e non della concessione, avendo accertato che la contribuente non aveva assunto il rischio d’impresa, traendo la sua remunerazione non da prestazioni tariffarie pagate dagli utenti, che non riscuote, ma dal corrispettivo onnicomprensivo versatole dai Comuni, completamente distinto da quanto riscosso dall’ente appaltante a titolo di tassa.

4. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

5. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2022

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