Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7105 del 03/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 03/03/2022, (ud. 24/02/2022, dep. 03/03/2022), n.7105

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1363/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato e

presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n.

12;

– ricorrente –

contro

Costruzioni Immobiliari s.r.l., in persona del legale rappresentante

pro tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente tra loro,

dall’Avv. Mario Garavoglia, dall’Avv. Claudio Lucisano e dall’Avv.

Maria Sonia Vulcano, giusta procura speciale a margine del

controricorso, elettivamente domiciliata presso lo studio di questi

ultimi, in Roma, via Crescenzio, n. 91;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 707/26/2014, depositata il 22 maggio 2014.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 24 febbraio

2022 dal consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello presentato dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Torino (n. 142/2/2011) che aveva accolto il ricorso proposto dalla Costruzioni Immobiliari s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dall’Agenzia delle entrate, per l’anno 2005, ai fini Ires, Iva ed Irap, con il metodo analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), per l’erronea contabilizzazione delle rimanenze con riferimento a due cantieri, siti nei comuni di (OMISSIS) e (OMISSIS), oltre che per omessa indicazione di ricavi, dovuti al raffronto tra i prezzi dichiarati negli atti ed il costo del venduto, in alcuni casi inferiore al prezzo di vendita, con applicazione ai prezzi di cessione di quelli individuati da varie pubblicazioni. Il giudice d’appello rilevava che l’impresa aveva spiegato “anche oralmente” che aveva adoperato nella valutazione delle rimanenze il criterio del riparto costi delle tabelle millesimali, aggiungendo che si trattava di criteri “discutibili”, ma che, tuttavia, erano stati ritenuti validi e compatibili dalla Commissione provinciale “con ampia e motivata spiegazione”, con rimandi alla normativa civilistica, ex art. 2426 c.c., punto 9, sia alla normativa tributaria, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 92. Inoltre, “pure la parziale modifica dell’accertamento a seguito dell’esercizio della autotutela su 4 degli 11 immobili”, faceva sorgere dubbi sulla “bontà originaria dell’accertamento “, anzi “getta(va) un’ombra sulla qualità di esso”.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resiste con controricorso la società.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Anzitutto, deve essere rigettata l’eccezione sollevata dalla società controricorrente sulla mancanza di autosufficienza del ricorso per cassazione articolato dall’Agenzia delle entrate, in quanto asseritamente costruito senza la chiara indicazione dei fatti di causa e dello svolgimento delle precedenti fasi processuali, con la tecnica dell’assemblaggio.

In realtà, l’Agenzia delle entrate ha riportato con chiarezza i fatti di causa, come pure lo svolgimento delle precedenti fasi processuali, utilizzando, in parte, il contenuto trascritto degli atti, ma munendo il ricorso, in ogni occasione, di precisi richiami e momenti di “raccordo”, consentendo a questa Corte una piana lettura degli atti e la piena comprensione dei fatti di causa.

Ne’ rileva che il primo motivo di ricorso per cassazione formulato dall’Agenzia delle entrate non sia accompagnato dall’indicazione precisa del numero dell’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto la ricorrente ha dedotto la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, facendo evidentemente riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

1.1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “nullità della sentenza impugnata per inosservanza (violazione e falsa applicazione) del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36”.

Per la ricorrente, la società, con riferimento alle unità immobiliare sita in (OMISSIS), non aveva indicato la valutazione di costi specifici di ciascuna singola unità, ma solo la valutazione del preteso costo di costruzione dell’intero fabbricato, mentre per le unità site in (OMISSIS) la valutazione delle singole unità, compiuta nel dettaglio delle rimanenze, non era avvenuta in base a costi specifici, ma in base a coefficienti del tutto arbitrari, “che non avevano nulla a che spartire con le tabelle millesimali”. Il giudice d’appello, non ha considerato la deduzione dell’Agenzia relativa alla erronea contabilizzazione delle rimanenze relative alle unità immobiliare site in (OMISSIS), ma si è limitato ad affermare, con riferimento agli immobili siti in (OMISSIS), che la società aveva spiegato anche oralmente di avere utilizzato nella valutazione delle rimanenze il criterio del riparto costi come da tabelle millesimali. Inoltre, pur condividendo la decisione della Commissione provinciale, il giudice d’appello non spiega in alcun modo le ragioni di tale adesione, limitandosi ad affermare che le critiche mosse dall’Ufficio alla sentenza di primo grado, in alcun modo riportate, non scalfivano la decisione della Commissione provinciale. Si tratta, insomma, di una motivazione del tutto apparente.

2. Con il secondo motivo di impugnazione l’Agenzia deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, e dell’art. 2697 c.c., oltre agli artt. 2727-2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Anche a voler considerare condivisibile l’affermazione del giudice d’appello, per la quale la valutazione delle rimanenze era avvenuta in base alle tabelle millesimali di condominio, tuttavia tale valutazione deve essere fatta a costi specifici. La ripartizione dei costi di costruzione, in base alle tabelle millesimali, non consente di affermare la valutazione delle unità immobiliari a costi specifici; le tabelle millesimali, infatti, hanno la funzione di ripartire i costi di gestione, ma non quelli di costruzione, in base a vari criteri; le tabelle millesimali, dunque, non assicurano, salvo diversa postazione, una suddivisione dei costi di costruzione in modo che a ciascuna unità immobiliare siano imputati solo i costi di costruzioni specifici alla stessa. In ogni caso, le tabelle millesimali risultano dal valore finale dell’unità immobiliare, che non rispecchia il costo di costruzione.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e 2727-2729 c.c., e in combinato disposto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello ha erroneamente affermato che le correzioni effettuate dall’Agenzia in via di autotutela ad un accertamento, comportano l’invalidità dell’intero accertamento.

4. Il primo motivo di impugnazione è fondato, con assorbimento dei restanti.

4.1. Anzitutto, deve essere rigettata l’eccezione di giudicato sollevata dalla società nel controricorso, con riferimento ad altra pronuncia della Commissione tributaria regionale del Piemonte che ha rigettato l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale che aveva accolto il ricorso della contribuente per l’anno 2004. Per la controricorrente tale sentenza comporterebbe l’annullamento anche dell’avviso di accertamento relativo all’anno 2005, in quanto anche l’avviso relativo all’anno 2004 si fondava sulla erronea contabilizzazione delle rimanenze da parte della società contribuente.

In realtà, deve trovare applicazione l’orientamento giurisprudenziale di legittimità per cui, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo. Tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente. In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato appare d’altronde coerente non solo con l’oggetto del giudizio tributario, che attraverso l’impugnazione dell’atto mira all’accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria (salvo che il giudizio non si risolva nell’annullamento dell’atto per vizi formali o per vizio di motivazione), ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l’efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale norma agendi cui devono conformarsi tanto l’Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell’individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d’imposta (Cass., sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass., sez. 5, 8 aprile 2015, n. 6953).

Inoltre, va precisato che, affinché una lite possa dirsi coperta dall’efficacia di giudicato di una precedente sentenza resa tra le stesse parti, è necessario che il giudizio introdotto per secondo investa il medesimo rapporto giuridico che ha già formato oggetto del primo; in difetto di tale presupposto, non rileva la circostanza che la seconda lite richieda accertamenti di fatto già compiuti nel corso della prima, in quanto l’efficacia oggettiva del giudicato non può mai investire singole questioni di fatto o di diritto (Cass., sez. 5, 30 dicembre 2009, n. 28042).

Pertanto, la circostanza che anche per l’anno 2004 l’Agenzia delle entrate abbia contestato l’erronea contabilizzazione delle rimanenze, con una decisione del giudice d’appello, non impugnata, favorevole alla società contribuente, non costituisce un elemento costitutivo della fattispecie che si estende ad una pluralità di periodi di imposta, con carattere tendenzialmente permanente. La contabilizzazione delle rimanenze potrebbe variare di anno in anno, potendo la società anche scegliere un sistema di contabilizzazione delle rimanenze diverso da quello previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, commi 1, 2 e 3, (“Lifo a scatti”).

Inoltre, per questa Corte le controversie in materia di IVA sono soggette a norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall’art. 2909 c.c., e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove gli stessi impediscano – secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 3 settembre 2009, in causa C-2/08 – la realizzazione del principio di contrasto dell’abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato di imposta (Cass., sez. 5, 5 ottobre 2012, n. 16996).

5. I fatti di causa possono essere così sintetizzati; la società Costruzioni Immobiliari ha utilizzato per due cantieri, il primo sito nel Comune di (OMISSIS) (edificio denominato “(OMISSIS)”) ed il secondo sito nel Comune di (OMISSIS), con due diversi criteri di computo delle rimanenze di magazzino. In entrambi i casi, nelle scritture era mancante la distinzione analitica per immobile ceduto e “fatturato” dei costi di costruzione dei singoli cespiti. Negli immobili del Comune di (OMISSIS) si è fatto riferimento al costo del venduto dell’intero fabbricato; negli immobili siti in (OMISSIS) sono stati utilizzati coefficienti “non meglio precisati” (fabbricato “(OMISSIS)”). Su 11 immobili venduti in 4 casi il valore del bene risultante dall’atto di compravendita è risultato inferiore ai costi sostenuti per la sua realizzazione (clienti C., con una differenza negativa di Euro 7063,00; V. s.a.s., con una differenza negativa di Euro 3137,00; B., con una differenza negativa di Euro 4655,00; G., con una differenza negativa di Euro 2157,00). In un caso, poi, il margine di guadagno è stato di appena Euro 959,00 (cliente Ga.). L’Agenzia delle entrate, una volta ritenuta l’antieconomicità delle operazioni sopraindicate, ha proceduto al controllo della congruità dei ricavi contabilizzati, calcolando il valore normale dei beni, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, con riferimento alla media fra varie pubblicazioni (Fiaip 2005; Camera di Commercio di (OMISSIS) 2005; valori Omi); i valori medi risultanti sono stati di Euro 1.008,00 per il Comune di (OMISSIS) ed Euro 936,25 per il Comune di (OMISSIS). Successivamente, dopo la sentenza della Commissione provinciale, l’Agenzia delle entrate ha provveduto ad annullare, in via di autotutela, quattro avvisi di accertamento, due riguardanti gli immobili siti in (OMISSIS) ( V., con maggiori ricavi per Euro 618.904; L., con la maggiori ricavi per Euro 101.440,00) e due riguardanti immobili siti in (OMISSIS) (clienti M., con la maggiori ricavi per Euro 78.100,00 e F., con la maggiori ricavi per Euro 58.800). Erano stati utilizzati, infatti, prezzi risultanti per “tipi diversi” di immobile. Si trattava, infatti, di capannoni industriali e non di negozi o uffici. In sede di autotutela erano stati anche ridotti gli importi relativi ai clienti Ga. e V., in quanto erano solo in parte provate le affermazioni della società sulla vendita completamente a grezzo di tali immobili.

6. Costituisce, comunque, dato certo quello per cui la società ha utilizzato per l’indicazione delle rimanenze, non il criterio del “costo specifico” dei beni, ma due criteri diversi in relazione a due cantieri diversi, nella medesima annualità del 2005; nel primo caso attraverso il riferimento al costo complessivo dell’intero fabbricato, e nel secondo caso utilizzando coefficienti peculiari.

7. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, prevede che le variazioni delle rimanenze debbano essere calcolate o con il criterio del “costo specifico” oppure per categorie “omogenee”, con il criterio del “tifo a scatti” (last in first out), di cui all’art. 92 citato, ai commi 2 e 3.

Si legge, infatti, nella norma che “le variazioni delle rimanenze finali dei beni indicati all’art. 85, comma 1, lett. a) e b), rispetto alle esistenze iniziali, concorrono a formare il reddito dell’esercizio. A tal fine le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici o a norma dell’art. 93, sono assunte per un valore non inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie omogenee per natura e per valore e attribuendo a ciascun gruppo un valore non inferiore a quello determinato a norma delle disposizioni che seguono”.

Il criterio del costo specifico viene utilizzato, come specificato dalla dottrina, se le rimanenze sono costituite da un numero limitato di beni aventi rilevante valore unitario, sicché la valutazione può essere correttamente effettuata tenendo conto dei “costi specificamente riferibile” ai beni in rimanenza.

Se, invece si tratta di imprese che effettuano produzioni in serie con beni di largo consumo, il magazzino si forma in tempi diversi e si caratterizza per prezzi diversi; sicché è impossibile individuare i costi specificamente riferibili ai singoli beni. In tal caso i beni vanno raggruppati in categorie omogenee.

7.1. Nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, commi 2 e 3, si descrive il sistema del “tifo a scatti”, con riferimento al primo esercizio in cui si verificano le rimanenze (comma 2), ed agli esercizi successivi (comma 3).

Il D.P.R. n. 917 del 1906, art. 92, comma 2, prevede che “nel primo esercizio in cui si verificano, le rimanenze sono valutate attribuendo ad ogni unità il valore risultante dalla divisione del costo complessivo dei beni prodotti acquistati nell’esercizio stesso per la loro quantità”.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, comma 3, specifica che “negli esercizi successivi, se la quantità delle rimanenze è aumentata rispetto all’esercizio precedente, le maggiori quantità, valutate a norma del comma 2, costituiscono voci distinte per esercizi di formazione. Se la quantità è diminuita, la diminuzione si imputa agli incrementi formati nei precedenti esercizi, a partire dal più recente”.

7.2. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, comma 4, consente alle imprese di utilizzare per il computo delle rimanenze criteri diversi da quelli indicati nei commi precedenti (“per le imprese che valutano in bilancio le rimanenze finali con il metodo della media ponderata o del “primo entrato, primo uscito” o con varianti di quello di cui al comma 3, le rimanenze finali sono assunte per il valore che risulta dall’applicazione del metodo adottato”).

7.3. L’art. 2426 c.c., comma 1, n. 9, prevede che “le rimanenze, i titoli e le attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione, calcolato secondo il numero 1), ovvero al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore; tale minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se ne sono venuti meno i motivi”. Viene, dunque, fissato un limite massimo che non può essere mai superato, rappresentato dal “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato”.

8. Dalle disposizioni sopra indicate possono trarsi alcuni elementi fondamentali per il computo delle rimanenze. La valutazione delle rimanenze va effettuata a costi specifici se le stesse sono costituite da un numero limitato di beni aventi rilevante valore unitario; in caso contrario viene utilizzato il criterio della valutazione dei beni raggruppati in categorie omogenee per natura e per valore. Quanto alla individuazione del valore delle rimanenze raggruppate per categorie omogenee, del D.P.R. n. 917 del 1986, all’art. 92, i commi 2 e 3, indicano il criterio del LIFO a scatti. Pertanto, nel primo periodo di imposta il valore attribuibile a ciascuna unità in rimanenza è desumibile dalla divisione del costo complessivo, distinto per ogni categoria omogenea, dei beni prodotti o acquistati per la loro quantità; il costo medio ponderato così ottenuto, moltiplicato per la quantità in rimanenza, rappresenta il valore delle rimanenze quale costo da rinviare agli esercizi futuri. Se al termine degli esercizi successivi la quantità di giacenze è aumentata rispetto ai periodi precedenti, le maggiori quantità devono essere valutate con lo stesso criterio (costo medio ponderato) applicato al primo esercizio (comma 3 art. 92). Pertanto, in base ad una presunzione assoluta i beni acquistati o prodotti per ultimi sono i primi ad essere venduti o ad essere impiegati nella produzione (LIFO – cast in first out).

Il valore massimo delle rimanenze è quello segnato dal codice civile, e quindi dal “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato “. Tuttavia, nell’ambito tributario si lascia all’impresa la libertà di scelta in ordine all’adozione dei criteri di valutazione delle rimanenze, come emerge dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, comma 4. L’unica condizione è quella di non scendere al di sotto del limite minimo fiscale determinato con l’applicazione del Lifo a scatti.

Inoltre, l’art. 2426 c.c., comma 1, n. 10, stabilisce che “il costo dei beni fungibili può essere calcolato col metodo della media ponderata o con quelli: “primo entrato, primo uscito” o: “ultimo entrato, primo uscito”; se il valore così ottenuto differisce in misura apprezzabile dai costi correnti alla chiusura dell’esercizio, la differenza deve essere indicata, per categoria di beni, nella nota integrativa”.

9. In dottrina, si è chiarito che anche se è possibile per le imprese scegliere liberalmente il metodo di computo delle rimanenze, tuttavia vi è l’obbligo di mantenere in bilancio l’invarianza dei criteri di valutazione da un esercizio ad un altro; una volta adottato un criterio di valutazione non è possibile adottarne uno diverso in un esercizio successivo se non in casi eccezionali che devono essere comunque motivati nella nota integrativa, fornendone comunicazione all’Ufficio finanziario competente. L’adozione di un criterio di valutazione diverso rispetto al Lifo a scatti fa sorgere l’obbligo per l’impresa di predisporre un apposito prospetto da cui si desume la sussistenza della condizione cui la scelta stessa è vincolata. Inoltre, nel caso in cui l’impresa valuti in bilancio le rimanenze con un criterio diverso da quelli ammessi dal codice civile, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, attribuisce rilevanza fiscale al valore di bilancio alle stesse attribuito solo se esso risulta superiore al valore ottenibile applicando il “Lifo a scatti”. In caso contrario, in sede di determinazione del reddito di impresa il valore fiscale delle rimanenze finali si assume per l’importo risultante dall’applicazione di quest’ultimo metodo. Il legislatore, quindi, ha individuato un “valore minimo” per attribuire rilevanza fiscale alla valutazione effettuata in bilancio, rappresentato: dallo stesso valore di bilancio, se derivante dall’applicazione di uno dei metodi convenzionali previsti dal codice civile; dal valore discendente dal “Lifo a scatti” negli altri casi.

10. Se questo è il panorama normativo di riferimento è evidente che la motivazione del giudice d’appello è del tutto inesistente; la Commissione regionale si è limitata ad affermare che “l’impresa edile contribuente ha spiegato anche oralmente in questo grado di giudizio che ha adoperato nella valutazione delle rimanenze il criterio del riparto costi delle tabelle millesimali, poi, allegate ai regolamenti di condominio degli edifici venduti”.

Pertanto, non si comprende in alcun modo se la valutazione delle rimanenze è stata effettuata con il criterio del “costo specifico” del bene, o per raggruppamento dei beni in categorie omogenee; né, in quest’ultima ipotesi, è possibile capire se sia stato utilizzato il metodo del “lifo a scatti”, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 92, commi 2 e 3, oppure il metodo “libero” di cui all’art. 92, comma 4, che, peraltro, non può consentire una valutazione delle rimanenze inferiore al “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato” ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 9; né si chiarisce se l’impresa, avendo utilizzato un criterio di computo delle rimanenze diverso da quelli sopra indicati, abbia dato atto di tale divergenza nella nota integrativa, oppure attraverso un apposito prospetto da cui desumere ogni dato rilevante per il computo delle rimanenze.

Proseguendo nella motivazione, il giudice d’appello si limita ad affermare che “si tratta, evidentemente di criteri “discutibili”, che, tuttavia, sono stati ritenuti validi e compatibili dai giudici di primo grado sia come criterio civilistico sia fiscale, con ampia e motivata spiegazione, giusto i rimandi alla normativa civilistica (art. 2426 c.c., punto 9), sia alla normativa tributaria (art. 92 Tuir)”.

Come si vede, la motivazione è del tutto apparente, in quanto si citano norme giuridiche, sia civili che fiscali, senza fornire alcuna spiegazione plausibile sui criteri di valutazione delle rimanenze utilizzati dalla società che, tra l’altro, per la stessa annualità, anno 2005, in relazione a due cantieri diversi, ha utilizzato tecniche di computo delle rimanenze del tutto differenti e di difficile comprensione.

Ne’, l’ulteriore frase inserita dal giudice d’appello in motivazione consente di comprendere il ragionamento logico-deduttivo seguito per giungere al rigetto dell’appello dell’Agenzia delle entrate (“pure la parziale modifica dell’accertamento a seguito dell’esercizio dell’autotutela su 4 degli 11 immobili, non convince affatto sulla bontà originaria dell’accertamento, anzi getta un’ombra sulla qualità di esso”). In realtà, i provvedimenti di annullamento in autotutela, per 4 degli 11 immobili, sono stati determinati dall’erronea considerazione della destinazione dei beni, ritenuta come uffici e negozi, in luogo di capannoni, senza intaccare minimamente le critiche sollevate dall’Agenzia delle entrate sui criteri di computo delle rimanenze da parte della società contribuente.

11. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2022

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