Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 710 del 19/01/2010

Cassazione civile sez. III, 19/01/2010, (ud. 01/12/2009, dep. 19/01/2010), n.710

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11330/2005 proposto da:

FONTE SPA (OMISSIS), in persona dell’Amministratore Unico G.

G. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G PUCCINI 9, presso

lo studio dell’avvocato CARLEVARIS CARLO, che lo rappresenta e

difende con delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

INPDAP (OMISSIS), in persona del Presidente e legale

rappresentante pro tempore Ing. S.M. elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA SANTA CROCE IN GERUSALEMME 55, presso lo

studio dell’avvocato MESSINA Piera, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARINUZZI DARIO con delega in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5113/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

Sezione Prima Civile, emessa il 09/11/2004; depositata il 29/11/2004;

R.G.N. 9261/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

01/12/2009 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito l’Avvocato CARLO CARLEVARIS;

udito l’Avvocato DARIO MARINUZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 9/29 novembre 2004 la Corte di appello di Roma confermava la decisione del locale Tribunale del 19 giugno 2002, la quale aveva rigettato la domanda della s.p.a. FONTE, diretta ad ottenere la dichiarazione di estinzione della fideiussione bancaria rilasciata in favore dell’INPDAP, nello stesso tempo condannando la società attrice al pagamento della somma complessiva di circa un miliardo in favore dell’INPDAP. I giudici di appello rilevavano che, al momento della vendita di alcuni immobili all’INADEL (ora INPDAP), la Cielo s.p.a. (ora FONTE s.p.a.) aveva inteso garantire all’Istituto un reddito annuo del 6,5% del prezzo di acquisto delle unità.

Pertanto, la dante causa/venditrice – secondo quanto risultava chiaro dal tenore delle parole utilizzate (art. 5, lett. g) – si era impegnata non solo alla stipula dei contratti di locazione dei negozi, in astratto idonei a garantire all’acquirente il reddito annuo concordato, ma anche a “garantire in concreto il raggiungimento di tale reddito attraverso la effettiva corresponsione dei canoni, assumendosi, appunto, l’alea relativa”.

Quanto alla domanda, svolta in via subordinata, intesa ad ottenere la dichiarazione di decadenza dell’Istituto da qualsiasi garanzia reddituale – per avere l’INADEL revocato l’autorizzazione ad incassare i canoni, senza neppure offrire alla pretesa garante, soc. FONTE, i mezzi per intervenire, era appena il caso di osservare che effettivamente la sentenza di appello non si era pronunciata sul punto.

Ma, in ogni caso, sottolineava la Corte territoriale, il contratto intercorso tra le parti non prevedeva affatto che la “eventuale revoca del mandato alla società venditrice di incassare i canoni di locazione comport(asse) “ipso jure” la decadenza dell’obbligo di garanzia posto a carico di questa ultima”.

Per altro verso, segnalavano i giudici di appello, la gestione diretta dei canoni di locazione da parte dell’Ente acquirente si era risolta in una mera attività contabile di rilevazione delle singole partite debitorie e creditorie, all’esito delle quali da parte dell’Istituto si era verificato se le somme incassate fossero – o meno – inferiori a quelle garantite (in modo da porre in essere la attivazione dei meccanismi di salvaguardia pattuiti).

Per ciò che riguardava, infine, la contestazione della quantificazione operata dal primo giudice, la Corte di appello osservava che il prospetto prodotto dalla FONTE indicava in effetti un importo inferiore, ma non chiariva affatto l’iter logico e contabile sulla base del quale la suddetta somma era stata quantificata. Donde la inammissibilità della censura.

Avverso tale decisione la FONTE ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria. Resiste l’INPDAP con controricorso

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ., e segg. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello, la lettura dell’accordo intercorso tra le parti non era affatto chiaro, prestandosi a diverse interpretazioni. Doveva quindi soccorrere il criterio logico.

Da una lettura complessiva del contratto – osservano ancora i ricorrenti – risultava che la Cielo non aveva assunto alcun obbligo di garantire un reddito minimo annuo, ma solo quello di provvedere alla stipulazione dei contratti di locazione, allo scopo di assicurare un reddito.

In pratica, la Cielo non aveva assunto alcun rischio per il caso di morosità dei conduttori dei negozi.

Le censure sono inammissibili, non avendo la ricorrente riportato il testo integrale del contratto, del quale lamenta la erronea interpretazione.

Nè indica espressamente i canoni di ermeneutica contrattuale in ipotesi violati.

In tema di interpretazione dei contratti, l’art. 1362 cod. civ. impone all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole.

Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, i giudici di appello non si sono affatto fermati ad una interpretazione dell’accordo, ed esaminando la complessa operazione posta in essere dalle parti e gli accordi tra di essi intervenuti, hanno motivatamente ritenuto che la società Cielo avesse assunto un preciso obbligo, nei confronti dell’Istituto, garantendo la effettiva corresponsione dei canoni di locazione, nell’importo contrattualmente fissato all’atto della vendita.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 1457 c.c., dell’art. 1723 c.c. o dell’art. 1227 c.c. e dell’art. 2050 c.c. o dell’art. 1955 c.c., e segg. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

La società Cielo aveva dedotto specificamente, come motivo di appello, la intervenuta decadenza di INADEL dalla pretesa, eventuale, garanzia, a seguito della revoca del mandato in precedenza conferito, relativo all’incasso dei canoni di locazione.

La morosità dei conduttori si era subito manifestata per importi progressivamente aggravati e per lunghissimi periodi, dalla data della revoca del mandato (giugno 1992) fino al dicembre 1994.

La trascuratezza dell’ente proprietario era stata dedotta in appello.

I giudici di appello avevano – immotivatamente – escluso ogni decadenza.

La Corte aveva considerato il mandato ad incassare come conferito anche nell’interesse del mandatario, considerando la revoca quale inadempimento all’obbligazione dell’Istituto di mantenerlo (art. 1723 c.c., comma 2).

Tuttavia, senza adeguata motivazione, aveva ritenuto privo di effetto tale inadempimento, in mancanza di una clausola specifica che prevedesse in tale ipotesi la decadenza di ogni garanzia.

Anche ritenendo che la revoca non costituisse inadempimento alle obbligazioni assunte dall’Istituto, che si sarebbe in tal modo assunto la gestione diretta dell’incasso dei canoni (attività prettamente contabile), i giudici di appello avrebbero dovuto prendere in considerazione la trascuratezza di oltre due anni mezzo dimostrata dall’Istituto, nel perseguire i morosi attraverso qualsiasi tentativo di recupero.

I giudici di appello non avevano tenuto conto del fatto che la proprietà degli immobili si era comportata con estrema negligenza, nè considerato che la Cielo – con la revoca del mandato ad incassare – aveva praticamente perduto ogni possibilità di constatare il mancato pagamento dei canoni alla scadenza. E dunque anche quella di assumere ogni opportuna iniziativa per il recupero dei canoni insoluti.

L’aver lasciato i conduttori morosi per oltre due anni e mezzo a godere dei negozi, senza perseguire le morosità, ad avviso della ricorrente, costituiva circostanza tale da comportare la estinzione di una garanzia anche di tipo fideiussorio.

Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul punto della determinazione della condanna e la violazione dell’art. 115 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

I tabulati prodotti dall’INPDAP non erano stati contestati dalla difesa della FONTE, la quale aveva criticato, tuttavia, i criteri adottati dall’Istituto per definire le postazioni attive e passive, che avrebbero dovuto tener conto dei canoni relativi a tutti i negozi (e dunque non solo di quelli morosi, dei quali era stato fornito un resoconto).

Osserva il Collegio:

il secondo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.

I giudici di appello, interpretando la scrittura privata che regolava i rapporti tra INADEL e Cielo, hanno rilevato che con tale atto le parti avevano inteso concludere due distinti contratti, aventi ad oggetto, il primo, l’obbligazione di provvedere alla locazione dei negozi compravenduti, il secondo, l’alea di “assicurare comunque un reddito annuo non inferiore alla percentuale del 6,5% del prezzo di acquisto delle suddette porzioni”.

La tesi della Cielo, sostenuta sin dal giudizio di primo grado, secondo la quale nessun obbligo di garantire l’effettiva corresponsione dei canoni di locazione sarebbe stato a suo carico, è stata ritenuta del tutto infondata dalla Corte territoriale, così come dal primo giudice.

Entrambi, infatti, hanno ritenuto del tutto irrilevante la circostanza che l’INADEL, dopo due anni dall’acquisto, avesse revocato alla venditrice l’incarico di provvedere direttamente all’incasso dei canoni di locazione dai conduttori, curando direttamente tale operazioni, sottolineando che tale compito si esauriva in una “mera attività contabile di rilevazione delle singole partite creditorie e debitorie”.

Confermando la decisione del Tribunale, la Corte d’appello aveva osservato che la clausola contrattuale, contenuta nella polizza fideiussoria, prevedeva che l’importo complessivo garantito avrebbe dovuto essere progressivamente ridotto, non già in relazione agli eventuali contratti di locazione via via stipulati, bensì in relazione ai versamenti effettuati dalla stessa Cielo a titolo di canoni di locazione.

Tutto questo, sottolineava la Corte Territoriale, consentiva di ritenere che “la società appellante fosse tenuta non solo alla stipula di contratti di locazione (in astratto idonei a garantire all’acquirente il reddito annuo concordato), ma anche a garantire in concreto il raggiungimento di tale reddito attraverso la effettiva corresponsione dei canoni, assumendosi, appunto, l’alea relativa”.

In effetti, la Cielo aveva provveduto a stipulare i contratti di locazione, ma non aveva fatto fronte all’obbligo di garantire il reddito annuo da locazione, nel minimo previsto dal contratto (contratto che pure essa stessa aveva stipulato, provvedendo direttamente alla scelta dei vari conduttori, così assumendo a proprio carico anche l’alea del mancato pagamento dei canoni).

La società Cielo, con l’atto di appello, aveva rilevato che la decisione del Tribunale non aveva neppure considerato la domanda dalla stessa proposta in via subordinata, con la quale aveva chiesto di considerare l’Ente decaduto da ogni diritto alla garanzia reddituale, avendo lo stesso provveduto alla revoca della autorizzazione ad incassare i canoni, senza offrire , peraltro, alla (pretesa) garante alcun mezzo idoneo per intervenire ad eliminare o ridurre le situazioni di morosità.

La Corte territoriale ha riconosciuto che, effettivamente il giudice di primo grado, non si era espresso sul punto, ma ha aggiunto che nessuna clausola del contratto prevedeva che una revoca del mandato alla società venditrice, all’incasso dei canoni, potesse determinare la automatica decadenza dell’obbligo di garanzia posto a carico di questa ultima.

Con motivazione logica, che sfugge pertanto a qualsiasi censura, i giudici di appello hanno esaminato il contratto, giungendo alla conclusione che la revoca del mandato inizialmente conferito liberava la società dall’obbligo di reperire nuovi conduttori, ma non comportava affatto il venir meno della diversa e distinta responsabilità, di garantire – comunque – un reddito minimo annuo pari al 6,5% del prezzo di acquisto degli immobili.

Si tratta di argomentazioni del tutto logiche, che sfuggono a qualsiasi censura di violazione di legge o di vizi della motivazione.

Le censure relative agli errori contabili in cui sarebbero incorsi i giudici di appello, infine, paiono inammissibili, in quanto coinvolgono questioni di merito, incensurabili in questa sede di legittimità.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.

Sussistono giusti motivi, in relazione alle questioni trattate, per disporre la compensazione integrale delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2010

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