Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7088 del 03/03/2022

Cassazione civile sez. I, 03/03/2022, (ud. 24/11/2021, dep. 03/03/2022), n.7088

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27172/2016 R.G. proposto da:

SACATI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.

C.G., rappresentata e difesa dagli Avv. Valerio Barone, ed Ennio

Luponio, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in

Roma, piazzale Don Giovanni Minzoni, n. 9;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NAPOLI, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso

dall’Avv. Fabio Maria Ferrari, con domicilio eletto in Roma, via

Denza, n. 50/a, presso lo studio dell’Avv. Nicola Laurenti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3089/16,

depositata il 3 agosto 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 novembre

2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Comune di Napoli convenne in giudizio la SACATI S.r.l., per sentirla condannare alla restituzione della somma di Euro 5.683.816,78, pagata in esecuzione della sentenza del 26 settembre 1988, n. 8528, con cui il Tribunale di Napoli lo aveva condannato al risarcimento dei danni cagionati dall’occupazione e dall’irreversibile trasformazione di un complesso industriale di proprietà della convenuta.

Premesso che in esecuzione della predetta sentenza il Pretore di Napoli, con ordinanza del 17 dicembre 1991, aveva assegnato alla società convenuta la somma di Euro 5.447.002,07 ed al procuratore distrattario la somma di Euro 2.316,31, sostenne che con sentenza del 22 febbraio 1992, n. 403, confermata sul punto dalla Corte di Cassazione con sentenza del 25 luglio 1995, n. 8081, la Corte d’appello di Napoli aveva riformato la sentenza del Tribunale, escludendo la trasformazione irreversibile dell’immobile.

Si costituì la SACATI, ed eccepì la prescrizione del diritto alla restituzione, sostenendo che la decorrenza relativo termine doveva essere ancorata alla pubblicazione della sentenza di appello, dal momento che il giudizio di cassazione si era estinto per mancata riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio, con il conseguente venir meno dell’effetto interruttivo permanente previsto dall’art. 2945 c.c., comma 2.

1.1. Con sentenza del 2 novembre 2011, il Tribunale di Napoli rigettò la domanda.

2. L’impugnazione proposta dal Comune è stata accolta dalla Corte d’appello di Napoli, che con sentenza del 3 agosto 2016 ha condannato la SACATI alla restituzione pagamento della somma di Euro 5.683.816,78, oltre interessi o, se di maggior misura, rivalutazione monetaria.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che il termine di prescrizione non fosse ancora scaduto, dovendo essere fatto decorrere dalla data di deposito della sentenza di cassazione, che, determinando il passaggio in giudicato di quella di appello, aveva comportato il definitivo consolidamento del diritto alla restituzione della somma pagata in esecuzione della sentenza di primo grado poi riformata. Premesso che la restituzione non costituisce una condictio indebiti” trovando la sua fonte non già nel diritto sostanziale azionato in giudizio, ma nell’esito del processo, e sorgendo quindi dalla riforma della sentenza impugnata, e precisato che essa può essere domandata sia in un separato giudizio che in appello, non configurandosi come una domanda nuova e potendo essere disposta anche d’ufficio, ha affermato che la relativa facoltà può essere esercitata fin dalla riforma, ma la prescrizione può decorrere soltanto dal passaggio in giudicato della relativa pronuncia, dal momento che fino a quel momento possono essere emesse soltanto pronunce restitutorie rebus sic stantibus. Rilevato inoltre che il precedente giudizio si era svolto in epoca anteriore dell’entrata in vigore della L. 26 novembre 1990, n. 353, che ha modificato l’art. 336 c.p.c., prevedendo l’immediata operatività della pronuncia di riforma, ha osservato che a quell’epoca la possibilità di ottenere la restituzione era subordinata al passaggio in giudicato di tale pronuncia, concludendo pertanto che la decorrenza del termine di prescrizione doveva essere ancorata alla data di deposito della sentenza di cassazione, che, rigettando il ricorso, aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza di appello.

3. Avverso la predetta sentenza la SACATI ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2934,2935 e 2946 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto da un lato che il diritto alla restituzione possa essere esercitato fin dalla riforma della sentenza di condanna, dall’altro che il termine di prescrizione decorra soltanto dal passaggio in giudicato della stessa. Premesso infatti che l’insorgenza del diritto comporta la possibilità di farlo valere, e quindi la decorrenza della prescrizione, che può essere sospesa o interrotta soltanto da cause tassativamente previste, e non anche da impedimenti meramente processuali, sostiene che, a seguito della pubblicazione della sentenza di appello, il Comune avrebbe potuto azionare immediatamente il diritto alla restituzione, oppure proporre un’autonoma domanda, o ancora impugnare la sentenza di appello, che aveva omesso di statuire in ordine alla restituzione, non assumendo alcun rilievo, ai fini della prescrizione, l’impossibilità di far valere il diritto in via esecutiva.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 2934,2935 e 2946 c.c., dell’art. 336 c.p.c. e della L. n. 353 del 1990, art. 90 censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile l’art. 336 c.p.c., comma 2, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 353 del 1990, art. 48 senza considerare che, ai sensi della disciplina transitoria dettata dalla medesima legge, le predette modifiche si applicavano anche ai giudizi pendenti alla data del 1 gennaio 1993. Rilevato che il giudizio in cui era stata pronunciata la condanna al pagamento si era concluso soltanto a seguito della sentenza di cassazione, afferma che, a tutto voler concedere, la prescrizione avrebbe dovuto essere fatta decorrere, anziché dalla data di pubblicazione della sentenza di appello, da quella del 1 gennaio 1993, in cui la stessa aveva cominciato a spiegare piena efficacia.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2935 c.c., dell’art. 24 Cost. e dell’art. 336 c.p.c., sostenendo che, anche a voler ritenere applicabile il testo vigente dell’art. 336 cit., il termine di prescrizione avrebbe dovuto essere fatto decorrere dalla data in cui il diritto poteva essere fatto valere, non assumendo alcun rilievo la necessità di attendere il passaggio in giudicato della sentenza di riforma per potervi dare esecuzione. Premesso che soltanto una specifica norma di legge motivata da ragioni eccezionali può distinguere il momento in cui sorge il diritto da quello in cui può essere azionato in giudizio, afferma che dallo art. 336 cit., comma 2 non si desume alcun limite all’azionabilità immediata del diritto alla restituzione, il quale può essere fatto valere sia nel giudizio di appello che in un separato giudizio.

4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, in via gradata, la violazione dell’art. 2909 c.c., osservando che l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui il diritto alla restituzione è esercitabile soltanto dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, si pone in contrasto con il giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto che il medesimo diritto potesse essere fatto valere immediatamente.

5. Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c., chiedendo, in caso di accoglimento del ricorso, la condanna del Comune al pagamento delle spese del giudizio di appello e di quello di legittimità.

6. I primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, non meritano accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha affermato che il termine di prescrizione del diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza riformata decorre in ogni caso dal passaggio in giudicato della sentenza di riforma, essendo configurabili, prima di tale momento, soltanto pronunce restitutorie emesse rebus sic stantibus, in relazione all’esito momentaneo del giudizio.

A fondamento di tale affermazione, la Corte d’appello ha infatti richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconosce l’ammissibilità della domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado, anche se proposta nel giudizio di appello, escludendone la contrarietà al divieto di cui all’art. 345 c.p.c., in considerazione delle caratteristiche della stessa, non riconducibile allo schema della condictio indebiti, e di ragioni di economia processuale collegate alla esigenza di ripristino della situazione patrimoniale anteriore alla sentenza di primo grado, la cui caducazione, facendo venire meno il titolo del pagamento, lo rende indebito sin dall’origine, in tal modo determinando il sorgere dell’obbligazione e della pretesa restitutoria, che non potrebbe altrimenti essere esercitata se non a seguito e per effetto della sentenza di appello (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. III, 11/06/2008, n. 15461; 17/03/2005, n. 5787; 13/07/ 2004, n. 12905). Tale richiamo, così come quello al principio secondo cui la restituzione può essere disposta anche d’ufficio dal giudice, in considerazione dell’accessorietà della relativa pronuncia al decisum della controversia (cfr. Cass., Sez. III, 30/10/2020, n. 24171; Cass., Sez. I, 29/10/2020, n. 23972; Cass., Sez. III, 11/06/2008, n. 15461), non può ritenersi tuttavia pertinente, dal momento che, in quanto configurabile come una mera facoltà della parte, che può essere esercitata in via alternativa rispetto all’instaurazione di un autonomo giudizio in data successiva alla riforma della sentenza di primo grado, la proponibilità della domanda di restituzione anche nel giudizio di appello non solo non dice nulla in ordine al dies a quo del relativo termine di prescrizione, ma anzi, consentendo di anticipare la proposizione della domanda rispetto alla predetta riforma, potrebbe costituire un utile argomento a favore della decorrenza del termine dalla pubblicazione della sentenza di secondo grado, anziché dal suo passaggio in giudicato. La stessa sentenza impugnata richiama d’altronde altri precedenti di legittimità, nei quali si esclude chiaramente da un lato che la proposizione della domanda di restituzione nell’ambito del giudizio d’appello costituisca un obbligo per la parte e dall’altro che la pronuncia d’ufficio costituisca un dovere per il giudice, affermandosi che, in assenza di tale pronuncia, la domanda può sempre essere riproposta in un successivo giudizio, senza che la mancata impugnazione della sentenza di appello determini la formazione di un giudicato al riguardo (cfr. Cass., Sez. VI, 21/11/2019, n. 30495; Cass., Sez. lav., 24/05/2019, n. 14253; Cass., Sez. III, 11/06/2008, n. 15461), precisandosi comunque che, sebbene la domanda di restituzione possa essere proposta anticipatamente rispetto alla riforma, l’esecuzione della relativa condanna, anche se pronunciata contestualmente all’accoglimento dell’appello, resta subordinata al passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado (cfr. Cass., Sez. III, 11/06/2008, n. 15461; 5/11/2001, n. 13635; Cass., Sez. II, 1/02/1995, n. 1143).

6.1. La questione dev’essere invece risolta avendo riguardo a quanto disposto dall’art. 336 c.p.c., comma 2, in ordine all’effetto espansivo esterno della sentenza di riforma o di cassazione, e tenendo conto, in particolare, delle modificazioni che tale disposizione ha subito nel tempo.

Nel suo testo originario, la norma in esame prevedeva infatti che la riforma estendesse i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla sentenza riformata soltanto se disposta “con sentenza passata in giudicato”, in tal modo escludendo la possibilità di ricollegare la caducazione degli stessi alla mera pubblicazione della pronuncia di riforma. Proprio in virtù di tale precisazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato ripetutamente, anche in epoca recente, che il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di condanna successivamente riformata soggiace, ai sensi degli artt. 2033 e 2946 c.c., al termine di prescrizione decennale, che inizia a decorrere dal giorno in cui è divenuto definitivo, con la riforma della predetta sentenza, l’accertamento dell’indebito (cfr. Cass., Sez. Un., 9/ 05/1991, n. 5186; Cass., Sez. III, 15/02/2018, n. 3706; Cass., Sez. III, 5/ 11/2001, n. 13635).

La disciplina è mutata per effetto della L. n. 353 del 1990, art. 48 che ha modificato l’art. 336, comma 2 cit., sopprimendo il riferimento al passaggio in giudicato, ed autorizzando quindi a ritenere che la sentenza di riforma spieghi la sua efficacia espansiva fin dal momento della pubblicazione, determinando ipso facto la caducazione dei provvedimenti e degli atti dipendenti dalla sentenza riformata, ivi compresi quelli di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, divenuti ormai privi di titolo giustificativo, con la conseguente insorgenza dell’obbligo di restituire le somme pagate o di ripristinare la situazione preesistente (cfr. Cass., Sez. III, 30/04/2009, n. 10124; 2/12/2001, n. 16170; Cass., Sez. I, 6/12/2006, n. 26171). Sulla base di tali considerazioni, è stato affermato, in riferimento alla prescrizione dell’azione restitutoria, che il relativo termine di prescrizione comincia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dalla data di pubblicazione della sentenza di riforma, precisandosi tuttavia che, ove la domanda sia proposta in sede di gravame, la prescrizione resta interrotta con effetti permanenti fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado, ai sensi dell’art. 2943 c.c., comma 2, e art. 2945 c.c., comma 2, a condizione però che la predetta richiesta sia stata espressamente formulata nell’atto di appello o nel corso del giudizio: l’effetto interruttivo non opera infatti automaticamente, dal momento che il diritto alla restituzione non ha alcuna correlazione con lo specifico rapporto controverso, trovando la sua fonte in un fatto nascente dal processo, ovverosia nell’avvenuta esecuzione di un titolo giudiziale poi riformato, che potrebbe del tutto mancare o comunque sopravvenire al momento dell’impugnazione, con la conseguenza che tale fatto dev’essere autonomamente portato alla cognizione del giudice di appello (cfr. Cass., Sez. VI, 25/10/2018, n. 27131).

Alla stregua di tali precisazioni, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il termine di prescrizione dell’azione restitutoria decorre necessariamente dal passaggio in giudicato della sentenza di appello può ritenersi accettabile soltanto in riferimento ai giudizi instaurati in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 353 del 1990, ai quali si applica il testo originario dell’art. 336 c.p.c., comma 2, non risultando invece condivisibile con riguardo a quelli instaurati dopo la riforma, per i quali occorre distinguere a seconda che nel giudizio di appello sia stata o meno proposta la domanda di restituzione.

6.2. Ciò posto, occorre peraltro rilevare che nel caso di specie la parziale erroneità della predetta affermazione non ha spiegato alcuna incidenza sulla decisione, avendo la Corte d’appello rilevato che il giudizio in cui era stata pronunciata la sentenza di condanna al pagamento si era concluso in epoca anteriore all’entrata in vigore della riforma del codice di rito, con il conseguente assoggettamento della relativa sentenza al regime previsto dal testo originario dell’art. 336 c.p.c., che subordinava l’insorgenza del diritto alla restituzione al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.

E’ pur vero che l’applicabilità della predetta disposizione è stata erroneamente giustificata mediante il richiamo al principio tempus regit actum, in virtù della considerazione che la sentenza di appello era stata pronunciata in data anteriore all’entrata in vigore della riforma, senza tenere conto dell’articolata disciplina transitoria dettata dalla L. n. 353 del 1990, artt. 90 e 92. Non può tuttavia condividersi la tesi sostenuta dalla difesa della ricorrente, secondo cui, in quanto conclusosi soltanto a seguito della pronuncia della sentenza di cassazione, intervenuta il 25 luglio 1995, il giudizio in questione sarebbe rimasto assoggettato alla nuova disciplina, in virtù della quale la riforma della sentenza di primo grado avrebbe prodotto immediatamente i suoi effetti, con la conseguenza che il termine di prescrizione del diritto alla restituzione avrebbe cominciato a decorrere fin dalla data della pubblicazione della sentenza di appello.

In proposito, occorre rilevare che, nel suo testo originario, l’art. 90 cit. si limitava a prevedere, all’comma 8, che le disposizioni della legge di riforma si applicassero anche ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore, originariamente fissata dall’art. 92 per il 1 gennaio 1992, e differita al 1 gennaio 1993 dalla L. 21 novembre 1991, n. 374, art. 50. Nel frattempo, tuttavia, l’art. 92 era stato sostituito dalla L. 4 dicembre 1992, n. 477, art. 2, commi 3 e 4, il quale aveva confermato l’entrata in vigore della riforma al 1 gennaio 1993, ma aveva disposto che ai giudizi pendenti a quest’ultima data si applicassero, fino al 2 gennaio 1994, le disposizioni anteriormente vigenti. La data del 2 gennaio 1994 fu poi differita dapprima al 18 dicembre 1994 dal D.L. 7 ottobre 1994, n. 571, art. 67 e successivamente al 30 aprile 1995 dalla Legge di conversione 6 dicembre 1994, n. 673.

In quanto non ancora definito alla data del 1 gennaio 1993, in virtù della pendenza del ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, il giudizio in cui fu pronunciata la sentenza di condanna poi riformata rimase pertanto assoggettato alla disciplina previgente, ivi compresa quella prevista dal testo originario dell’art. 336 c.p.c., comma 2, fino al 30 aprile 1995, e tale assoggettamento fu confermato anche per il periodo successivo dal D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, art. 9 convertito con modificazioni dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534, il quale rimodulò la disciplina transitoria, modificando nuovamente la L. n. 353 del 1990, art. 90 la cui ultima versione prevede che ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 continuano ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti, fatta eccezione per una serie di disposizioni, tra cui l’art. 336 c.p.c., comma 2, che, nel testo modificato, trovano applicazione anche ai giudizi pendenti alla data del 1 gennaio 1993. Quest’ultima disposizione non risulta tuttavia applicabile alla fattispecie in esame, essendo entrata in vigore in data successiva a quella in cui, per effetto della sentenza di cassazione, che aveva confermato la sentenza di appello nella parte in cui aveva escluso l’obbligo del Comune di risarcire il danno derivante dalla perdita della proprietà dell’immobile occupato, la relativa statuizione era passata in giudicato, con la conseguente insorgenza a carico della SACATI dell’obbligo di restituire la somma riscossa in esecuzione della sentenza di primo grado, che non può ritenersi venuto meno per effetto della sopravvenienza delle nuove disposizioni, non aventi efficacia retroattiva, in quanto riferibili ai giudizi pendenti alla data del 1 dicembre 1993 che fossero ancora in corso alla data della loro entrata in vigore.

Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che il termine decennale di prescrizione dell’azione restitutoria dovesse essere fatto decorrere non già dalla data della pubblicazione della sentenza di appello, ma da quella del passaggio in giudicato della stessa, verificatosi soltanto a seguito della pubblicazione della sentenza di cassazione, ed ha pertanto rigettato l’eccezione di prescrizione proposta dalla società ricorrente, rilevando che alla data di proposizione della domanda di restituzione il predetto termine non era ancora scaduto, essendo stata la prescrizione interrotta con due atti di diffida tempestivamente inviati dal Comune alla SACATI.

L’idoneità di tali atti ad interrompere la prescrizione non potrebbe d’altronde essere esclusa neppure qualora si ritenesse che, in quanto entrato in vigore in epoca successiva alla conclusione del giudizio in cui era stata emessa la sentenza riformata, il testo vigente della L. n. 353 del 1990, art. 90 non possa trovare applicazione neppure nella parte in cui dichiara applicabili le disposizioni previgenti ai giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995: considerato infatti che la L. n. 353, art. 92 come modificato da ultimo dalla L. n. 673 del 1994, prevedeva l’applicabilità delle predette disposizioni fino al 30 aprile 1995, e tenuto conto dello iato temporale determinatosi tra quest’ultima data e quella di entrata in vigore del D.L. n. 432 del 1995, art. 9 il nuovo testo dell’art. 336 c.p.c., comma 2, dovrebbe ritenersi applicabile, nel caso in esame, non già dalla data di pubblicazione della sentenza di appello, ma dal 30 aprile 1995; a tale data la sentenza di riforma avrebbe acquistato efficacia immediata, indipendentemente dal suo passaggio in giudicato, determinando l’insorgenza del diritto del Comune alla restituzione delle somme pagate, e segnando altresì la decorrenza del relativo termine di prescrizione, che, in quanto tempestivamente interrotto con gli atti di diffida inviati il 12 gennaio ed il 7 aprile 2005, non potrebbe ritenersi scaduto alla data di proposizione della domanda giudiziale.

7. E’ parimenti infondato il quarto motivo, proposto in via subordinata per l’ipotesi di ritenuta infondatezza dei primi tre, con cui la ricorrente fa valere la preclusione derivante dal giudicato formatosi per effetto dell’acquiescenza prestata dal Comune alla sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto possibile l’esercizio immediato dell’azione di restituzione, in virtù dell’osservazione che il relativo diritto sorge direttamente dalla sentenza di riforma, la quale, facendo venir meno fin dall’origine il titolo delle attribuzioni effettuate in base alla sentenza riformata, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza.

E’ pur vero che, nel censurare le conclusioni cui era pervenuto il Tribunale, il Comune aveva dichiarato di concordare sulla premessa secondo cui l’effetto di restaurazione della situazione patrimoniale del soccombente, a seguito della riforma di una statuizione sfavorevole di primo grado, è causalmente ricollegabile alla decisione di accoglimento del gravame: tale affermazione dev’essere tuttavia inquadrata nella tesi complessivamente sostenuta nel motivo d’impugnazione, secondo cui la possibilità di proporre la domanda di restituzione anche prima del passaggio in giudicato della pronuncia di riforma non comporta che il relativo diritto sia immediatamente esigibile. In quanto volto a contestare l’idoneità della riforma a produrre l’immediata cessazione degli effetti della sentenza di primo grado, tale assunto, peraltro conforme al già ricordato orientamento della giurisprudenza di legittimità, risulta evidentemente incompatibile con la volontà di prestare adesione alla sentenza impugnata, escludendo pertanto la configurabilità di un’acquiescenza sia pure parziale alla stessa. Com’e’ noto, infatti, il giudicato si forma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto-norma-effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo anche ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (cfr. Cass., Sez. II, 17/04/2019, n. 10760; Cass., Sez. VI, 8/10/2018, n. 24783; 16/05/2017, n. 12202).

8. L’ultimo motivo non contiene infine una vera e propria censura alla sentenza impugnata, risolvendosi nella mera sollecitazione di un diverso regolamento delle spese processuali, cui questa Corte avrebbe dovuto provvedere anche d’ufficio in caso di accoglimento del ricorso, per effetto della caducazione della sentenza impugnata anche nella parte riguardante le statuizioni accessorie, e che resta invece precluso dall’intervenuta conferma della stessa.

9. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 22.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2022

 

 

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