Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7078 del 20/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 20/03/2017, (ud. 14/07/2016, dep.20/03/2017),  n. 7078

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26480-2012 proposto da:

F.M., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ALESSANDRIA 208, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SIENI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIAMPAOLO PACINI;

– ricorrente –

contro

C.M.C., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE BRUNO BUOZZI, 32, presso lo studio dell’avvocato MICHELE

ROSARIO LUCA LIOI, che lo rappresenta e difende unitamente agli

avvocati FERDINANDO IMPOSIMATO, ERALDO STEFANI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 365/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 13/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/07/2016 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato MICHELE ROSARIO LUCA LIOI, difensore del

controricorrente, che si è riportato agli scritti difensivi in

atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) La controversia concerne prestazioni professionali rese dall’architetto oggi resistente.

L’odierna ricorrente ha agito per conseguire il risarcimento di danni da mancato guadagno derivato dal ritardato avvio di un’attività di affittacamere, da svolgere in locali che erano stati oggetto di opera professionale del convenuto, opera viziata da “alcuni errori progettuali”.

Il tribunale di Firenze nel 2007 ha rigettato la domanda della committente (che pretendeva un risarcimento di 110 mila Euro di cui 100mila per lucro cessante) ed ha accolto la domanda riconvenzionale del professionista, volta a conseguire il compenso di circa 9.200 Euro.

La Corte di appello con sentenza 13 marzo 2012 ha confermato la decisione di primo grado.

Il ricorso per cassazione consta di unico motivo, articolato nella denuncia di due doglianze e sei “errori”.

Parte intimata ha resistito con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2) La Corte di appello ha confermato che la ricorrente F. in ordine al lucro cessante è priva di legittimazione attiva (carenza di titolarità del diritto controverso, cu cui cfr Cass. SU 2951/16), in quanto l’attività di affittacamere asseritamente danneggiata è svolta da soggetto diverso, come confermato anche dalla documentazione (docc. 13 e ss) che il Collegio ha esaminato, pur se in parte prodotta dall’appellato e non dall’appellante, la quale aveva dedotto di averla prodotta in primo grado senza che il giudicante la rinvenisse.

Quanto al secondo motivo di appello, la Corte ha rilevato che la attrice non aveva dato prova di danno emergente costituito da spese invano sostenute per inadempimento di controparte.

Ha considerato generico, valutativo e privo di riferimenti temporali il capo di prova orale dedotto sul punto.

Ha rigettato il motivo di appello relativo al compenso del professionista, perchè non preceduto da formale eccezione di inadempimento e perchè apodittico nel pretendere di paralizzare la domanda riconvenzionale opponendo un danno rimasto non provato.

Il primo profilo dell’unico motivo lamenta omesso esame di prove testimoniali. Esso afferisce quanto al capo 2 alla data in cui sarebbero state terminate le opere; quanto al capo 3 a pretesi interventi successivi per adeguamento dell’immobile; quanto ai capi da 4 a 6 al ruolo svolto dalla F. nei rapporti commerciali e bancari della ditta House Katti o nel trattare con soggetti rimasti imprecisati nel capitolo.

La censura non ha pregio, giacchè nessuna delle circostanze addotte, qualora ammissibili – il che non è perchè i rilievi della Corte di appello sono dal punto di vista logico ineccepibili – potrebbe scalfire il documentato convincimento della Corte di appello circa la assenza di titolarità dell’azienda di affittacamere. Nè rileva la affermazione che la ricorrente sarebbe socia di fatto nella gestione dell’azienda. Ciò che conta è che neanche le circostanze, “valutative” secondo la Corte di appello relative all’intrattenere “ogni tipo di accordo” o all’essere autorizzata a emettere assegni varrebbe a documentare la titolarità della azienda, cioè l’acquisizione degli utili e la titolarità dei mezzi organizzati per la gestione dell’impresa.

3) Il secondo profilo dell’unico motivo lamenta omesso esame di prove documentali e concerne il primo motivo di appello, afferente la “carenza di legittimazione attiva dell’attrice” (sentenza pag. 5).

Il motivo riporta per due lunghe pagine (spazio 1) il motivo di appello) quanto esposto nell’atto di appello e lamenta che sia stato un errore ritenere che i documenti 13-15 non fossero nel fascicolo e per questo averli ritenuti irrilevanti sulla scorta di quanto opinato dal primo giudice.

La censura è per più ragioni da rigettare.

In primo luogo è inammissibile perchè difetta di specificità, in quanto non viene precisato in cosa consistano i documenti che si vorrebbero valorizzare e perchè avrebbero potuto risultare decisivi.

In secondo luogo perchè non si fa carico di confutare non solo le argomentazioni del primo giudice recepite dalla Corte, ma neanche i rilievi di quest’ultima in ordine: a) al fatto che i docc. da 13 in poi, prodotti in appello da parte resistente, attesterebbero “invece che l’attività di affittacamere è stata svolta effettivamente da un soggetto diverso e cioè da P.F.”; b) al fatto che in sede di interrogatorio libero la stessa appellante aveva ammesso che l’attività di affittacamere non era a lei intestata; c) alla novità della deduzione (definita dalla Corte domanda nuova), solo in appello, dell’essere l’appellante socia di fatto del titolare.

Restano così vanificati il cd primo e secondo “errore” rimproverati alla sentenza.

4) E’ privo di consistenza il terzo “errore” che da un lato torna sulla questione già esaminata delle prove testimoniali, dall’altro enuncia apoditticamente che le ammissioni rese in interrogatorio libero non avevano ad escludere che la ricorrente esercitasse di fatto la attività con il P..

Per la inconcludenza di questo rilievo basta rilevare che comunque trattavasi di circostanza che la Corte di appello ha valorizzato nel senso che indubbiamente aveva, cioè di ammissione sfavorevole alla interrogata, sulla quale incombeva sin dall’inizio della causa l’onere di allegare e provare che era titolare o contitolare di un’attività, asseritamente danneggiata da errori del professionista e di superare con prove inconfutabili le contrarie risultanze documentali circa la intestazione di questa attività.

In parte si collega a questo onere il cd quarto errore che consisterebbe nell’aver ritenuto domanda nuova l’aver affermato di esse di fatto.

Ora, la ricorrente non censura la qualificazione come domanda nuova, ma deduce che con le prove da 4 a 6 e con i documenti 13-15 aveva già cercato di provare questa qualità di socia di fatto.

E’ sufficiente a questo punto replicare che per introdurre una domanda ritualmente non è sufficiente dedurre o produrre mezzi istruttori, essendo prima necessario formulare allegazioni inequivocabili, tali da porre chiaramente nell’oggetto del contendere (il quid disputatum) la causa petendi che con quelle prove si vuol dimostrare.

Le prove e le deduzioni altrimenti svolte oltre l’atto di citazione restano fuori dal processo.

5) La quinta doglianza attiene alla mancata prova dei costi asseritamente costituenti voci di danno emergente.

Il motivo è sul punto inammissibile giacchè a fronte del rigetto, accuratamente argomentato per mancanza di dimostrazione dei costi sostenuti (fatture etc), oppone la ripetizione pedissequa dei motivi di appello, il che non è consentito in sede di legittimità, giacchè la Corte di Cassazione non può sostituirsi alla Corte di appello nelle valutazioni di merito, ma deve essere investita da specifiche critiche alla sentenza impugnata, con puntuali riferimenti alle risultanze contrarie: ciò manca del tutto.

Resta assorbita la sesta doglianza, con cui si vuoi confutare l’affermazione secondo cui l’opera svolta durante la sospensione cautelare dei lavori sarebbe stata illecita e quindi non meritevole di tutela.

Non è emersa infatti alcuna voce di danno risarcibile.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite liquidate in Euro 6.500 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge, rimborso delle spese generali (15%).

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile, il 14 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2017

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