Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7073 del 24/03/2010

Cassazione civile sez. II, 24/03/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 24/03/2010), n.7073

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20474-2006 proposto da:

M.R. (OMISSIS), in proprio e nella qualità di

titolare dell’omonima ditta, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

EZIO 19, presso lo studio dell’avvocato ALLIEGRO MICHELE,

rappresentato e difeso dall’avvocato LOTITO PIER FRANCESCO;

– ricorrente –

e contro

B.P. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 826/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 25/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2010 dal Consigliere Dott. GAETANO ANTONIO BURSESE;

udito l’Avvocato LOTITO Pier Francesco, difensore della ricorrente

che ha chiesto accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 9.5.87 B.P. conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di Livorno, M.R. deducendo che con contratto in data (OMISSIS) aveva da lui acquistato la proprietà dell’esercizio commerciale posto in (OMISSIS), esercente attività di bar gelateria, ma che successivamente la soc. Framar srl aveva agito nei confronti di essa attrice pretendendone ed ottenendone la restituzione deducendo di essere la vera proprietaria dell’azienda stessa.

Chiedeva pertanto la B., che, previa declaratoria della nullità di tale contratto di vendita dell’ indicato esercizio commerciale per mancanza dell’oggetto non essendo il M. proprietario dello stesso, questi fosse condannato al risarcimento dei danni “conseguenti alla subita evizione”.

Si costituiva il convenuto contestando la domanda di cui chiedeva il rigetto. Rilevava che in effetti la menzionata srl Framar aveva a lui concesso in affitto l’azienda in parola, che egli aveva gestito provvedendo all’acquisto di numerose attrezzature; precisava però di aver ceduto alla B. con il contratto per cui è causa la gestione dell’azienda, delle relative attrezzature e dell’avviamento che a lui direttamente facevano capo, evidenziando inoltre che contestualmente, la ricordata srl Framar aveva concesso in affitto alla stessa attrice l’azienda della quale essa era proprietaria. li convenuto lamentava inoltre la novità della domanda per evizione, contestandone ammissibilità e chiedendone l’integrale rigetto per carenza di prova circa l’asserita evizione dell’azienda di cui trattasi.

L’adito tribunale, previa istruzione della causa mediante CTU estimativa circa il valore dell’azienda, con sentenza in data n. 88/2002, ritenendo fondata la promossa azione di responsabilità per evizione – così riqualificata a domanda di declaratoria di nullità del contratto – condannava il M. al pagamento della somma di Euro 16.200,00 oltre la rivalutazione monetaria ed interessi, ed ai pagamento delle spese processuali.

Avverso la medesima sentenza proponeva appello il M., chiedendo la riforma della stessa ed in via subordinata, la determinazione del danno in misura inferiore a quanto liquidato.

Rimaneva contumace la B..

L’adita Corte d’Appello di Firenze, con sentenza n. 826/2005 depos.

in data 25.5.2005, in parziale accoglimento dell’appello, riduceva l’importo dovuto a titolo di risarcimento del danno da evizione, compensando in parte le spese processuali liquidate nel giudizio di 1^ grado. Ribadiva che l’azione proposta dalla M. non era rivolta all’annullamento del contratto (in relazione a cui era stata invocata l’avvenuta prescrizione), ma a conseguire il risarcimento del danno derivante dalla sofferta evizione; riteneva però in parte fondata la censura riguardante la stima dell’azienda, riducendo di conseguenza l’importo liquidato per il titolo suddetto.

Per la cassazione di tale pronuncia, propone ricorso il M. sulla base di 5 censure; l’intimata B. non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso, l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’artt. 183 e 184 c.p.c. per la mancata accettazione del contraddittorio su una domanda nuova introdotta in sede di precisazione delle conclusioni (danni da evizione); la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.” (disponibilità della prova su asserito nomen iuris di controparte)”; illogicità della motivazione.

Assume che la B. originariamente aveva proposto con atto di citazione soltanto la domanda di declaratoria di nullità del contratto per “inesistenza dell’oggetto” e che solo in sede precisazione delle conclusioni aveva aggiunto anche l’azione di garanzia per evizione, sulla quale esso esponente non aveva accettato il contraddicono. Nonostante ciò entrambi i giudici di merito avevano pretermesso di pronunciarsi sulla domanda di nullità e si erano limitati a decidere sulla seconda tardiva domanda di evizione e sul risarcimento del danno conseguente. Contesta poi l’assunto della Corte d’appello, la quale senza alcuna richiesta di parte (che era contumace) aveva arbitrariamente ritenuto in via interpretativa che tale domanda di evizione era stata comunque proposta dalla B. nel suo atto di citazione. Non condivide infine il significato attribuito dalla corte alla contestale stipulazione dei due contratti da parte della B. (uno con l’esponete e l’altro con la società Framar), nel punto in cui aveva arbitrariamente affermato che essa B., nel concludere il negozio con la Framar, aveva erroneamente ritenuto di prendere in affitto i locali di esercizio dell’attività commerciale.

La doglianza è priva di fondamento, non sussistendo alcuna delle denunciate violazioni di legge nè alcun vizio di motivazione. Sulla questione la Corte d’appello (e prima ancora il tribunale) si erano pronunciati ritenendo correttamente che la B. in realtà aveva inteso proporre una domanda risarcitoria conseguente ad evizione, anzichè una domanda di nullità, spettando al giudice la qualificazione giuridica dell’azione proposta (iura novit curia).

Secondo la S.C. in materia di procedimento civile, sussiste vizio di ultra o extra petizione ex art. 112 c.p.c. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. (Cass. Sez. 3, n. 10009 del 24/06/2003).

Passando all’esame del 2^ motivo del ricorso, con esso l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1485 c.c.;

dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., nonchè illogicità della motivazione. A suo avviso la B. non aveva provato di avere subito effettivamente l’evizione ad opera della Framar, ma laddove ciò fosse effettivamente avvenuto, essa avrebbe omesso di chiamare in quel giudizio il M., in violazione dell’art. 1485 c.c., ciò che comporterebbe l’improponibilità di ogni chiamata in garanzia nei confronti del venditore M.. Rileva ancora che esso ricorrente aveva una sua azienda con un’autonoma consistenza (complesso di beni mobili aziendali, avviamento, licenze e permessi) che aveva regolarmente venduta alla B.; mentre l’azienda della Framar era distinta ed era stata concessa in affitto ad esso M., per cui a donna, per potere gestire direttamente il Bar doveva necessariamente trovare un accordo con entrambi tali soggetti:

ciò che è avvenuto nel caso in esame, con il doppio contratto di cessione dell’azienda M. e di affitto dell’azienda Framar. i giudici di merito sono dunque incorsi in errore nel non riconoscere l’autonoma consistenza e la cedibilità dell’azienda del M., composta da un complesso di beni propri, inclusivi di un ulteriore e distinto contratto d’affitto d’azienda, separatamente novato, per volontà dell’acquirente subentrante. In conclusione, nella fattispecie non si poteva dunque ritenere sussistere alcuna evizione.

Anche tale doglianza è priva di fondamento. A prescindere dalla novità della censura, inconferente appare il richiamo all’art. 1485 c.c., atteso che se il compratore non chiama in causa il venditore perde il diritto alla garanzia, qualora però il venditore dimostri che esistevano ragione sufficienti per far respingere la domanda. Per il resto la doglianza introduce elementi di fatto inammissibili in sede di legittimità, stante la corretta e diffusa motivazione con la quale la Corte ha giustificato le propria tesi circa la configurabilità dell’evizione.

Con il 3^ motivo del ricorso, l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. in relazione all’art 1346 e ss. c.c. nonchè illogicità della motivazione. I giudice a quo avrebbe dovuto in ogni caso pronunciarsi sulla domanda di nullità del contratto “per inesistenza dell’oggetto”. Insiste sul fatto che la B. non aveva proposto due domande in via alternativa, ma una soltanto; in ogni caso, dall’infondatezza della domanda di nullità del contratto, il giudice avrebbero dovuto tener conto almeno in sede di liquidazione delle spese processuali. Il motivo, stante il rigetto delle precedenti censure, deve ritenersi assorbito.

Con il 4^ motivo del ricorso, l’esponente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 ss. c.c. sull’interpretazione del contratto; illogicità della motivazione. A suo avviso i due contratti erano stati stipulati nello stesso giorno dalla B. che dunque era ben consapevole di acquistare dal M. un’azienda diversa da quella presa in affitto dalla Framar. Ciò emergerebbe “con assoluta chiarezza” dalla lettura dei due contratti. Il motivo è inammissibile non essendo stati trascritti, in omaggio dei principio dell’autosufficienza del ricorso, il contenuto dei suddetti contratti, ritenuto decisivo dallo steso ricorrente ai fini della fondatezza della censura stessa.

Con il 5^ motivo, infine, l’esponente, lamenta “un errore su presupposto di fatto – errata stima di valore dell’azienda – difetto di motivazione”.

Sostiene che la Corte toscana ha preso in esame ai fini della stima dell’azienda, la CTU anzichè il prezzo corrisposto dalla B. a M. per l’acquisto dell’azienda, dalla cui pur breve gestione la medesima aveva comunque tratto un considerevole utile. La doglianza è infondata introducendo questioni di merito inammissibili i questa sede; peraltro la Corte territoriale, accogliendo in parte l’impugnazione proposta dall’appellante, si è diffusamente soffermata ad illustrare i criteri prescelti ai fini di una corretta valutazione dei danni subiti dall’attrice. Secondo la S.C., “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciarle con ricorso per cassazione non sussiste quando nella motivazione, sia chiaramente illustrato il percorso logico seguito per giungere alla decisione e risulti comunque desumibile la ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa, senza però che il giudice abbia l’obbligo di esaminare tutti gli argomenti logici e giuridici prospettati dalle parti per sostenere le loro domande ed eccezioni (Cass. n. 11193 del 15/05/2007).

Conclusivamente il ricorso dev’essere rigettato; nulla per le spese.

PQM

la Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2010

 

 

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