Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7071 del 12/03/2020

Cassazione civile sez. trib., 12/03/2020, (ud. 02/10/2019, dep. 12/03/2020), n.7071

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M. G. – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28876-2016 proposto da:

SICA SRL, in persona legale rappresentante, elettivamente domiciliata

in ROMA VIA SICILIA 66, presso lo studio dell’avvocato FANTOZZI

AUGUSTO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

ALTIERI ROBERTO, ALIBERTI ANDREA, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1171/2016 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

LECCE, depositata il 11/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/10/2019 dal Consigliere Dott. NOVIK ADET TONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS UMBERTO che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordine per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato ALIBERTI che si riporta agli

scritti;

adito per il controricorrente l’Avvocato COLLABOLLETTA che si riporta

agli scritti.

Fatto

1. La Commissione tributaria provinciale di Lecce ha accolto il ricorso della società S.I.C.A. S.r.l. (di seguito, la contribuente), avverso l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate, con cui era stato elevato a Euro 231.255,00 ai fini IRES il reddito dichiarato dalla società per l’anno 2004 (pari a Euro 84.586,00). Alla base della rettifica, l’Agenzia aveva posto le risultanze di indagini fiscali e finanziarie a carico della società, da cui era emerso che a) la redditività netta della società, pari all’1,9%, era la più bassa tra quelle dichiarate dalle imprese, con essa concorrenti, dello stesso Distretto di Lecce 1; b) la contribuente non aveva dimostrato che nella determinazione del rispettivo reddito dei suoi tre soci si era tenuto conto di tutte le movimentazioni finanziarie poste in essere. In particolare, per non aver i soci ( C.R. e C.C.) fornito la prova che il denaro contante ricevuto dalla società, a titolo di compenso per lavoro dipendente (pari, rispettivamente, a Euro Euro 65.272,00 e Euro 63.397,00), era lo stesso di cui era stata provata la tracciabilità nei conti correnti.

2. La Commissione tributaria regionale di Bari, sezione staccata di Lecce (CTR), con sentenza n. 1171/2016, depositata in data 11 maggio 2016, accoglieva il ricorso dell’Agenzia delle entrate. La CTR rilevava che: – era legittima la presunzione che gli importi finanziari di cui sopra erano utili “rivenienti da ricavi non contabilizzati o costi, come quelli di lavoro dipendente in predicato, non sostenuti”, distribuiti e sottratti a tassazione ai fini IRES; – la contribuente non aveva fornito una prova idonea a smentire la presunzione dell’ufficio, tale non potendosi ritenere un prospetto di provenienza ignota, verosimilmente autoprodotto, concernente l’analisi comparata della sua redditività con quella di altre imprese operanti nel settore; – non vi era nemmeno prova, come si ricavava dai processi verbali di contraddittorio, che i versamenti effettuati sul conto dei soci fossero redditi del lavoro prestato (un’unica corrispondenza aveva riguardato il versamento in data 19/1/2004 dello stipendio di C.R., per l’importo di Euro 1700).

3. La sentenza è stata impugnata dalla contribuente sulla base di quattro motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

1. Il primo motivo è così rubricato “nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., D.Lgs. n. 146 del 1992, art. 7, art. 2697 c.c. e L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 4, in materia di valutazione ed acquisizione delle prove (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4))”. Secondo la contribuente, la sentenza impugnata avrebbe violato le norme in materia di corretta valutazione ed acquisizione delle prove indicate nella rubrica.

In merito al profilo relativo all’asserita inferiorità della percentuale di redditività netta dichiarata dalla società rispetto a quella media del settore del distretto di Lecce 1, si rappresenta che il prospetto prodotto altro non era che un’analisi comparata del rapporto “utile di bilancio/valore della produzione” tra la contribuente e le altre società operanti nel settore di riferimento (commercio all’ingrosso di carne fresca e congelata) tratto dai dati di bilancio di pubblico dominio e in possesso dell’Agenzia delle entrate. Da detto prospetto veniva ad essere smentito il presupposto della bassa redditività, considerando anche che la contabilità della società era regolare, congrua e coerente con gli studi di settore.

In ordine al secondo profilo, relativo alle movimentazioni bancarie dei soci, la contribuente aveva dimostrato che i costi erano reali e che i prelievi e i versamenti dei soci erano stati giustificati. Non vi era pertanto nessuna prova o presunzione di realizzo di maggiori utili.

La censura è inammissibile, non ravvisandosi nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c., riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, dal momento che la CTR ha esattamente valutato le eccezioni proposte dalla contribuente e ha dato ad esse congrua risposta affermando: a) che il prospetto prodotto in primo grado per confutare il rilievo della bassa redditività della società era di provenienza ignota e non era idoneo al fine proposto; b) che non vi era prova che il denaro versato sui conti correnti dei dipendenti – soci fosse lo stesso ricevuto in pagamento.

Quanto alla violazione dei criteri di valutazione della prova, il motivo si espone ad una pregiudiziale declaratoria di inammissibilità per difetto di autosufficienza. E’ noto, infatti, come questa Corte ha precisato a più riprese e ribadito anche recentemente (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 18679 del 27/07/2017 (Rv. 645334 – 01), che a seguito della novellazione dell’art. 366 c.p.c., ad opera della L. n. 40 del 2006, art. 5, che ha aggiunto ai precedenti il n. 6, in forza del quale “il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità… la specifica indicazione degli atti processuali,

dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”, codificando in tal modo il principio di autosufficienza, il ricorso deve contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (15952/07). Si è perciò di nuovo ricordato che la disposizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, “costituente la conseguenza del principio di autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione”, impone di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, “gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso si fonda mediante riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura, oppure attraverso una riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione” (1142/14). E’ del tutto evidente che, esaminata alla luce di questi criteri, la censura in disamina si rivela priva della necessaria compiutezza atta ad assicurarne l’autosufficienza, essendosi la contribuente limitata a richiamare prospetti (pagg. 12 – 14) assertivamente allegati al ricorso di primo grado, senza tuttavia darsi cura alcuna nè di riprodurre il contenuto delle doglianze oggi proposte, nè di operarne altrimenti la trascrizione, in tal modo sottraendosi al prescritto adempimento in punto di autosufficienza, precludendo alla Corte di poter attingere il contenuto della censura dalla diretta lettura del ricorso, senza, peraltro, superare l’osservazione della CTR secondo cui il prospetto “era di provenienza ignota e verosimilmente redatto dallo stesso ricorrente”.

Il motivo è inammissibile anche sotto altro profilo, in quanto la violazione degli artt. 115 e 116 (non pertinente è l’evocazione del D.Lgs. n. 146 del 1992, art. 7, e della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 4), investe, in realtà, il ragionamento e la valutazione dei singoli elementi di fatto operata dal giudice di merito, doglianza che, quindi, integra una censura motivazionale.

2. Il secondo motivo è così rubricato “violazione degli artt. 2697,2727,2728 e 2729 c.c. in tema di onere della prova e di valutazione delle presunzioni, in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, nn. 2) e 7), e art. 39, comma 1, lett. d), (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”. In sintesi, secondo la contribuente, la sentenza avrebbe violato i principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio e di corretta valutazione delle presunzioni, laddove, recependo gli assunti dell’avviso di accertamento fondato sul metodo analitico – induttivo, aveva ritenuto provato che: a) la percentuale di redditività netta della società fosse inferiore a quella media delle imprese concorrenti e b) non fosse stata superata la presunzione secondo cui le somme imputate a stipendi dei soci rappresentassero utili extracontabili. Afferma che, quanto al primo punto, l’agenzia non aveva mai dimostrato che la percentuale di redditività dichiarata dalla società fosse inferiore a quella delle altre imprese operanti nel medesimo settore, non avendo mai specificato in base a quale criterio fosse stato effettuato il calcolo della percentuale in questione e quali fossero i termini di riferimento utilizzati alla base del calcolo; quanto al secondo punto, che la società aveva fornito la giustificazione di tutti i movimenti finanziari contestati e dimostrato che le somme percepite dai soci corrispondevano a costi realmente sostenuti dalla società.

Il motivo è infondato. In ordine al primo punto (redditività dell’impresa), la CTR ha dato conto che l’accertamento era conseguito ad indagini fiscali e finanziarie a carico della contribuente e che la contestazione della stessa aveva riguardato la genericità del richiamo ad altre imprese del settore. Ha quindi indicato che l’ufficio in giudizio aveva ribadito che le aziende con cui era stato effettuato il confronto erano state selezionate in base al codice di attività, coincidente con quello della contribuente. La CTR correttamente ha apprezzato, come sintomatico per la rettifica, il valore della scarsa redditività, in linea con la giurisprudenza della Corte, secondo cui “In tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 30803 del 22/12/2017, Rv. 646681 -01), in quanto il requisito della concordanza ricorre solo nel caso di concorso tra più circostanze presuntive (cfr. Cass. 8.4.2009, n. 8484). La critica della ricorrente in realtà propone una rivalutazione dei fatti di causa che non è consentita in sede di legittimità.

Quanto al secondo punto, premesso che è inconferente l’assunto della contribuente sulla apparente regolarità delle annotazioni contabili, perchè proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo (cfr. Cass. 24532/2007; 951/2009; 7871/2012; 14068/2014), nel caso concreto la CTR ha esposto in sentenza gli elementi di carattere indiziario e presuntivo, consistenti in particolare nei versamenti effettuati dai soci sul proprio conto corrente privi di corrispondenza con il pagamento in contanti – modalità certamente anomala e di per sè fonte di sospetto – degli stipendi ai soci, atti a giustificare il ricorso al metodo induttivo. A fronte di questa evidenza, le argomentazioni della contribuente sono inammissibili per mancanza di autosufficienza, nei sensi esposti in relazione al precedente motivo, e infondate laddove pretendono di contrastare la presunzione derivante dalle indagini bancarie con una alternativa ricostruzione dei fatti.

3. Il terzo motivo è così rubricato “Nullità della sentenza, in relazione all’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, per vizio di motivazione apparente (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”. Si assume che il giudice non abbia analizzato gli elementi indiziari in base ai quali ha ritenuto raggiunta la prova che il profilo della redditività netta dichiarata dalla società era inferiore rispetto a quella delle imprese concorrenti e che non erano stati riportati i passaggi cruciali dei processi verbali di contraddittorio dai quali era stata desunto che i versamenti effettuati dei soci non erano riferibili al pagamento degli stipendi.

Il motivo è infondato. La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01), -“La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). La sentenza impugnata non merita affatto cassazione per il dedotto vizio motivazionale, posto che, sia pure in forma alquanto sintetica, comunque espone la ragione essenziale per la quale ha rigettato il gravame della contribuente, individuandola nelle indagini fiscali e finanziarie a carico della società, dalle quali ha inferito l’esistenza di utili distribuiti ma non tassati. Peraltro, non solo in violazione del criterio di autosufficienza non viene riportato il contenuto dei processi verbali di constatazione, ma si trascura che la stessa ricorrente nel ricorso di primo grado aveva ammesso che il denaro contante incassato dai soci non veniva interamente versato sul conto corrente, dando così conto della mancanza di prova della riconducibilità delle somme versate agli stipendi percepiti. Si può dunque affermare che la motivazione della sentenza medesima supera la soglia del c.d. “minimo costituzionale”.

4. Il quarto motivo è così rubricato “Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio e controversi fra le parti, in relazione alla mancata dimostrazione di (presunti) ricavi occultati (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”. Secondo la contribuente, il giudice di secondo grado avrebbe omesso di pronunciarsi sui fatti controversi e decisivi per il giudizio concernenti la corretta selezione delle aziende concorrenti rispetto alle quali determinare la percentuale di redditività del settore e la effettività del rapporto di lavoro con i soci.

Anche questa censura è infondata. Relativamente al primo aspetto va richiamato quanto esposto in precedenza, cioè che la CTR ha affermato che le aziende con cui era stato effettuato il confronto erano state selezionate in base al codice di attività, coincidente con quello della contribuente.

Quanto al secondo punto, occorre rilevare che, diversamente da quanto ritiene la contribuente, l’esistenza del rapporto di lavoro dei soci con la società non costituisce un punto controverso, atteso che la CTR non ha dubbi che le somme versate dai soci sui conti correnti siano “utili”, alternativamente derivanti o da ricavi non dichiarati o da costi inesistenti. Sicchè, anche ipotizzando la effettività del rapporto di lavoro, rimane valida l’alternativa dei ricavi non dichiarati, da soli idonei a sorreggere l’accertamento induttivo.

5. Pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso non può essere accolto; le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo; sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dell’obbligo di versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità, liquidate in Euro 7.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’udienza pubblica, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020

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