Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7066 del 20/03/2017

Cassazione civile, sez. un., 20/03/2017, (ud. 21/02/2017, dep.20/03/2017),  n. 7076

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato Primo Presidente f. – –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DIDONE Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di Sez. –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di Sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18420/2016 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI

94, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA FIORE, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto

stesso, rappresentato e difeso dagli avvocati CHERUBINA CIRIELLO,

ELISABETTA LANZETTA e SEBASTIANO CARUSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza del CONSIGLIO DI STATO depositata in data

28/01/2016;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/02/2017 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

uditi gli Avvocati Giovanna Fiore e Cherubina Ciriello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 28 gennaio 2016 il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello avverso la sentenza del TAR Basilicata che aveva accolto parzialmente la domanda di S.A. volta ad ottenere la condanna dell’INPS, presso cui era dipendente all’epoca dei fatti, al risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimo trasferimento dalla sede di servizio di (OMISSIS) a quella di (OMISSIS) ove aveva prestato servizio dal 1993 al maggio 1995.

Con la decisione qui impugnata il Consiglio di Stato ha esposto che l’appellante, oltre al danno patrimoniale già liquidato dal TAR, lamentava il mancato riconoscimento del danno biologico quantificato in Euro 115.033,94 e del danno morale ed esistenziale quantificato in Euro 57.916,97.

La decisione impugnata, dopo aver precisato, in via generale, che il ricorrente che chiede il risarcimento del danno da cattivo o omesso esercizio della funzione pubblica deve fornire la prova dei fatti costitutivi e che il danno da illecito provvedimentale era rientrante nella responsabilià extracontrattuale, ha precisato che era indispensabile ma non sufficiente l’illegittimità del provvedimento dell’amministrazione reso nell’esplicazione di una funzione pubblica; che la prova dell’esistenza del danno doveva intervenire all’esito di una verifica del caso concreto valutando anche la condotta tenuta dalle parti private al fine di escludere che situazioni pregiudizievoli si sarebbero potute evitare con la normale diligenza e, infine, che la fattispecie del mobbing nel pubblico impiego era configurabile solo al ricorrere di una pluralità di elementi.

Sulla base di tali precisazioni il Consiglio di Stato ha escluso che nella fattispecie sussistesse un comportamento mobbizzante, non ravvisabile sulla base di un mero trasferimento illegittimo; che, a prescindere dalla sussistenza effettiva delle lamentate patologie e del nesso eziologico peraltro non provato con il trasferimento, mancava la stessa condotta illecita ascrivibile all’ente; che a tale fine non erano rilevanti le pretese resistenze dell’Istituto a richiamare il lavoratore alla sede centrale sia perchè non provate, sia perchè doveva ritenersi che l’Istituto avesse voluto connettere piena efficacia al provvedimento di trasferimento fino a quando non ne fosse stata accertata la sua illegittimità in sede giurisdizionale.

La sentenza ha precisato, inoltre, che a prescindere dal mobbing, la sola illegittimità del trasferimento non era sufficiente ad integrare comportamento illecito fonte di responsabilità aquiliana mancando proprio la connotazione persecutoria e/o discriminatoria del trasferimento ciò che rappresentava elemento indefettibile per la verifica della ricorrenza del danno alla salute, alla vita di relazione ed il nesso eziologico tra condotta e danno.

Avverso la sentenza ricorre in Cassazione S.A. formulando un unico articolato motivo ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste l’Inps con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con un unico motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 2043 e 2087 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè dell’art. 32 Cost..

Censura l’affermazione del Consiglio di Stato secondo cui la mera illegittimità del trasferimento, anche non qualificato come mobbing, non dava diritto al ristoro di alcun danno. Secondo il S. tali affermazioni erano contrastanti con le norme citate ed osserva che il disposto trasferimento aveva determinato la violazione dell’art. 2087 c.c., oltre che dell’art. 2043 c.c., in quanto comportamento pregiudizievole per l’integrità psicofisica del lavoratore e determinante un danno alla salute, tutelato dall’art. 32 Cost., che trovava conforto nella documentazione prodotta e poteva essere confermato mediante CTU.

Il ricorso è inammissibile.

Ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, le sentenze del Consiglio di Stato sono ricorribili in cassazione solo per motivi inerenti la giurisdizione.

Questa Corte ha più volte affermato il principio che il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato è limitato all’accertamento dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte del Consiglio stesso, ovvero all’esistenza di vizi che riguardano l’essenza di tale funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, per converso, escluso ogni sindacato sui limiti interni di tale giurisdizione, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo (tra le tante S.U. n. 3688/2009).

Il ricorrente, nel censurare la pronunzia impugnata, non prospetta alcun motivo attinente alla giurisdizione denunciabile ai sensi dell’art. 362 c.p.c., che, in caso di rigetto della domanda risarcitoria, potrebbe ravvisarsi solo se il rifiuto della giurisdizione sia giustificato dalla ritenuta estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali del giudice amministrativo, non quando si prospettino come omissioni dell’esercizio del potere giurisdizionale errori “in iudicando” o “in procedendo” (cfr., Cass. S.U. n. 3037/2013, Cass. S.U. n. 5942/2012 e Cass. S.U. n. 1853/2009).

In applicazione di detti principi appare evidente l’inammissibilità del ricorso del S. con cui si censura il rigetto della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da parte del Consiglio di Stato. Quest’ultimo ha affermato che, a prescindere dalla sussistenza effettiva delle lamentate patologie e del nesso eziologico peraltro non provato con il trasferimento, mancava la stessa condotta illecita ascrivibile all’ente poichè la mera illegittimità del trasferimento, anche non qualificata mobbing, non dava diritto al ristoro di alcun danno.

Alla stregua di tale decisum è evidente che il rigetto della domanda del ricorrente, essendo fondato sull’interpretazione di norme invocate a sostegno della pretesa, non esprime una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, non si basa su di un’attività di produzione normativa ovvero su un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia.

Le critiche mosse alla decisione impugnata del Consiglio di Stato riguardano la correttezza dell’esercizio del potere giurisdizionale del giudice amministrativo e, quindi, sono del tutto estranee all’ambito della previsione di cui all’art. 362 c.p.c., non riguardando il controllo ed il superamento dei limiti esterni della giurisdizione (Cass. S.U. 17099/2003; 16270/2002; 11099/2002) e determinano l’inammissibilità del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore del contro ricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2017

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