Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7066 del 03/03/2022

Cassazione civile sez. I, 03/03/2022, (ud. 30/11/2021, dep. 03/03/2022), n.7066

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10048/2016 proposto da:

Comune di Senigallia, in persona del sindaco pro-tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, in via Flaminia n. 79, presso lo

studio dell’avvocato Lubrano Filippo, che lo rappresenta e difende,

unitamente agli avvocati Amaranto Laura, e Lubrano Enrico, con

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

F.E., C.J., vedova F., elettivamente

domiciliati in Roma, al viale Giulio Cesare n. 71, presso lo studio

dell’avvocato Del Vecchio Andrea, che li rappresenta e difende,

unitamente all’avvocato Mastri Antonio, con procura speciale in

calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 1248/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

pubblicata il 15/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/11/2021 dal Cons., Dott. CAIAZZO ROSARIO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Con sentenza del 29.3.01 il Tribunale di Ancona, pronunciando sulla domanda proposta da F.V. – deceduto in corso di causa, al quale erano succeduti gli eredi C.I., E. e F.I. – nei confronti del Comune di Senigallia per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’occupazione di terreni di proprietà da parte dell’ente convenuto, condannò quest’ultimo al pagamento della somma di Euro 545.172,390 oltre interesse al tasso del 3% dall’aprile del 1978 fino al deposito della sentenza, e al tasso legale sino al saldo. Su appello del comune e con appello incidentale di F.E. e di C.I., la Corte territoriale, con sentenza del 19.3.05, in parziale accoglimento dell’impugnazione principale, ridusse la somma oggetto di condanna ad Euro 300.960,720 oltre interessi al 3% da calcolarsi sulla somma di Euro 64.039,646 e successiva rivalutazione annuale, e respinse l’appello incidentale, condannando gli appellanti incidentali a restituire la somma percepita per l’esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, oltre agli interessi legali.

Con sentenza del 2012, la Cassazione accolse il ricorso di F. e C., cassando la sentenza d’appello con rinvio, rilevando la fondatezza del motivo concernente la liquidazione del danno, essendo nelle more intervenuta la sentenza della Corte Cost. n. 349/07 circa l’applicazione del valore venale dell’immobile occupato, assorbito il motivo riguardante la misura degli interessi legali.

Riassunto la causa, nel giudizio di rinvio la Corte d’appello, con sentenza del 15.12.15, determinò la somma dovuta dal comune a F.E. e alla C., quali eredi di V. ed F.I., in Euro 444.576,35 oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo, osservando che: determinato con c.t.u. il valore venale del bene occupato, gli interessi sul credito di valore in questione – svolgendo una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato e sul presupposto che la loro attribuzione era una mera modalità di tecnica liquidatoria, potendo essere liquidati in misura legale o inferiore- erano da liquidare al tasso legale, al fine di ristorare il pregiudizio del ritardato pagamento delle somme liquidate a titolo risarcitorio, sulle frazioni del capitale via via annualmente rivalutate, fino al 14.12.15 (data del pagamento del comune), oltre successivi interessi legali al saldo.

Il comune di Senigallia ricorre in cassazione con due motivi, divisi in sottoparti, illustrati con memoria. Resistono con controricorso, illustrato con memoria, F. e C..

Diritto

RITENUTO

CHE:

Il primo motivo denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto gli interessi legali sulla sorta capitale via via rivalutata dal 30.4.78 al 9.10.01 (deposito della sentenza di primo grado) a titolo di lucro cessante, per violazione degli artt. 2056,2697 c.c., artt. 115 e 132, c.p.c., per aver la Corte territoriale liquidato gli interessi suddetti in mancanza della prova, a carico dei soggetti danneggiati, di un danno maggiore rispetto a quello ristorato attraverso la rivalutazione monetaria (sebbene, come emerso nei due gradi di merito, gli attori fossero stati qualificati piccoli consumatori), senza tener conto che il lucro cessante era da risarcire attraverso interessi compensativi in misura equitativamente determinata (cioè in concreto al tasso del 3% come statuito nella sentenza del Tribunale) e non con il tasso legale.

In via subordinata, il motivo denunzia violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto la sentenza impugnata era priva di motivazione nella parte relativa alla liquidazione degli stessi interessi legali a titolo di lucro cessante per il ritardato pagamento della somma risarcitoria.

Il secondo motivo deduce la nullità della sentenza per difetto di motivazione nella parte in cui le risultanze della quantificazione del danno non costituiscono l’effettiva applicazione dei criteri seguiti dal giudice di secondo grado ovvero, in subordine, si deduce l’erroneità materiale nel conteggio o calcolo matematico delle somme liquidate. Al riguardo, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello non avrebbe esplicitato i criteri adottati per la determinazione del danno (circa l’inesatta determinazione dei presupposti numerici, quale vizio logico della motivazione), pervenendo a risultati numerici ritenuti erronei, evidentemente frutto di criteri diversi da quelli enunciati in sentenza. Il ricorso va respinto.

Il primo motivo è infondato. Il ricorrente si duole del fatto che la liquidazione degli interessi compensativi in questione, a titolo di lucro cessante, sia stata effettuata in mancanza della prova, pur presuntiva, del maggior danno rispetto a quello reintegrato attraverso la rivalutazione periodica della somma liquidata a titolo risarcitorio e, in particolare, attraverso l’applicazione degli interessi legali anziché del tasso equitativo del 3% applicato invece dal Tribunale.

Ora, la questione da dibattere consiste nello stabilire se, ai fini della liquidazione del maggior danno, a titolo di lucro cessante, per i crediti di valore, occorra una prova specifica oppure se sia invece sufficiente una prova presuntiva, pur a fronte di una domanda genericamente relativa a tale profilo risarcitorio.

Sul punto, tutte le varie pronunce della cassazione sono concordi nella premessa secondo la quale, trattandosi di debito di valore, gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito (nella specie, per irreversibile trasformazione di un’area da parte della P.A.), hanno fondamento e natura diversi da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono, quindi, una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, la quale non configura il risarcimento di un maggiore e diverso danno, ma soltanto una diversa espressione monetaria del danno medesimo (Cass., SU, n. 8520/07; n. 15709/11; n. 18243/15; n. 24468/20).

E’ stato altresì osservato che il risarcimento da lucro cessante (che deve essere oggetto di prova, anche ricorrendo a presunzioni semplici), può essere riconosciuto attraverso la liquidazione degli interessi, con decorrenza dalla data della definitiva trasformazione, non necessariamente commisurati al tasso legale, mediante l’utilizzo di criteri equitativi, e computati con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, per effetto dei prescelti indici di valutazione, ovvero in base ad un indice medio (Cass. n. 1814 del 2000 e successive conformi; Cass. SU n. 1907 del 1997 e n. 1712/95; n. 12961/18).

Per altro verso, è stato chiarito che non è configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli interessi compensativi (v. Cass., n. 18564/2018 che ha cassato la sentenza impugnata che, con riferimento al danno derivato da anticipazioni di crediti non recuperati, aveva liquidato gli interessi, sul capitale via via rivalutato, in modo automatico, senza alcuna valutazione dell’indicato profilo probatorio; cfr., in tal senso, anche Cass., n. 12452/03; n. 22607/16). Nel solco di tale orientamento è stato altresì precisato che, qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata “per equivalente”, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva (anche se adottata in sede di rinvio), è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso (cfr. Cass., SU, n. 1712/1995).

Dalla giurisprudenza citata si evince, dunque, che il giudice dispone di un ampio potere discrezionale nell’applicare il criterio più appropriato per reintegrare interamente il danno cagionato al proprietario per l’ablazione del diritto di proprietà, considerando il tempo decorso dall’illecito.

Nel caso concreto, la Corte territoriale ha liquidato gli interessi compensativi al tasso legale al fine di ristorare il pregiudizio conseguente al ritardato pagamento delle somme dovute a titolo risarcitorio, sulle frazioni di capitale via via annualmente rivalutate. Ora, sebbene il giudice d’appello non abbia specificamente motivato sulla prova del fatto che la somma rivalutata era inferiore a quella di cui il creditore avrebbe disposto se, alla data della sentenza, il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo, può ritenersi che tale valutazione sia stata implicita nell’aver rilevato una maggiore redditività del denaro nel periodo considerato rispetto al tasso di svalutazione, come desumibile dal maggior importo degli interessi calcolati.

Il secondo motivo è inammissibile. La doglianza afferisce ad un vizio che denuncia in realtà un errore di calcolo sulla base degli stessi criteri adottati per cui è configurabile il ricorso ex art. 287 c.p.c. e non il ricorso per cassazione.

Invero, l’errore di calcolo può essere denunciato con ricorso per cassazione quando sia riconducibile all’impostazione delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, lamentandosi un error in iudicando nell’individuazione di parametri e criteri di conteggio, mentre, ove consista in un’erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici, individuazione e ordine delle operazioni da compiere esattamente determinati, è emendabile con la procedura di correzione ex art. 287 (Cass., n. 23704/16).

E’ stato altresì affermato che l’errore di calcolo, che può dar luogo a rettifica del contratto ai sensi dell’art. 1430 c.c., si ha quando in operazioni aritmetiche, posti come chiari e sicuri i termini da computare ed il criterio matematico da seguire, si commette, per inesperienza o disattenzione, un errore materiale di cifra che si ripercuote sul risultato finale, rilevabile ictu oculi, non essendo tale, quindi, l’errore che attiene alla stessa individuazione di uno dei termini da computare, quale la cifra iniziale dalla quale detrarre l’importo risarcitorio (Cass., 3178/2016). Pertanto, l’errore di calcolo del giudice del merito può essere denunciato solo con ricorso per cassazione quando sia riconducibile all’impostazione dell’ordine delle operazioni matematiche necessarie per ottenere un certo risultato, perché in tali ipotesi si lamenta un vero e proprio error in iudicando nella individuazione dei parametri e dei criteri di conteggio sulla cui base sono stati effettuati i calcoli. Qualora, invece, esso consista in un’erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici esattamente determinati ed esatta individuazione ed ordine delle operazioni da compiere, è emendabile con l’apposita procedura di correzione regolata dagli artt. 287 c.p.c. e segg. (Cass. n. 11712/2002; n. 16903/2003; n. 2486/19).

Nella fattispecie, il ricorrente lamenta genericamente che il calcolo del danno, nelle sue varie componenti indicate in motivazione, sia il frutto di un’erronea applicazione dei criteri enunciati dalla stessa Corte d’appello, riproponendo propri e diversi calcoli.

In particolare il ricorrente (ricorso, pag. 22 e seguenti) sostiene che la sentenza ha asserito di voler applicare:

(a) per il periodo 30.04.1978-23.07.2002 la rivalutazione monetaria secondo indici Istat della somma (sorte capitale) di Euro 59.911,06;

(b) gli interessi legali per lo stesso periodo sulla stessa somma di Euro 59.911,06 via via rivalutata.

Lamenta quindi il ricorrente che i risultati finali ottenuti dal Giudice di merito non corrispondono all’applicazione dei presupposti criteri che, ove effettivamente e correttamente applicati, porterebbero a un diverso (e minor) risultato.

Evidentemente quindi con il motivo il ricorrente deduce un’applicazione errata del criterio generale esposto dalla Corte di appello e quindi un’erronea utilizzazione delle regole matematiche sulla base di presupposti numerici esattamente determinati e dell’esatta individuazione e dell’esatto ordine delle operazioni da compiere, emendabile con l’apposita procedura di correzione regolata dagli artt. 287 c.p.c. e segg..

Ciò a maggior ragione vale per la prospettazione subordinata coltivata con lo stesso motivo (pag. 23, sub 1B) di “errore materiale nel conteggio o calcolo matematico/aritmetico delle somme”.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 7200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 30 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2022

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