Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7060 del 24/03/2010

Cassazione civile sez. II, 24/03/2010, (ud. 13/01/2010, dep. 24/03/2010), n.7060

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. ODDO Massimo – Consigliere –

Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.S. (OMISSIS), M.N.,

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA ADRIANA

15, presso lo studio dell’avvocato ROMANO NICOLA, rappresentati e

difesi dall’avvocato FATANE’ ROSARIO;

– ricorrenti –

contro

C.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FONTE ROBERTO ALFREDO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1105/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2010 dal Consigliere Dott. EMILIO MIGLIUCCI;

udito l’Avvocato ALESSI Francesco Maria con delega depositata in

udienza dell’Avvocato PATANE’ Rosario, difensore dei ricorrenti che

ha chiesto accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI Vincenzo che ha concluso per rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.M., proprietario di un edificio sito nel territorio del Comune di (OMISSIS), con ricorso per denunzia di nuova opera, chiese la sospensione dei lavori di trasformazione in mansarda del sottotetto di un fabbricato, al suo frontistante, appartenente a M.S., assumendo che venivano eseguiti con violazione delle distanze prescritte dal D.M. 22 aprile 1968, n. 1444, dalla legislazione antisismica e dall’art. 907 c.c..

Il Pretore di Belpasso, dopo avere disposto con decreto la sospensione pretesa e, con successiva ordinanza revocato il provvedimento cautelare, rimise le parti al competente Tribunale di Catania, davanti al quale il C. riassunse il processo, chiedendo la condanna del vicino alla demolizione delle opere abusive e al pagamento della somma di cinquanta milioni di lire come risarcimento del danno.

Il convenuto, costituitosi in giudizio, si oppose all’accoglimento delle pretese, eccependone l’infondatezza, e, con domanda riconvenzionale, chiese la condanna dell’attore ad abbattere le parti della sua costruzione situate a distanza illegale dal confine.

Con sentenza del 7 febbraio 1997 il Tribunale respinse la domanda riconvenzionale e, in parziale accoglimento di quella dell’istante, condannò il convenuto “a eliminare le tre aperture eseguite sul lato ovest del proprio immobile”.

Il soccombente propose impugnazione, alla quale resistette la controparte che, a sua volta, appellò incidentalmente la pronuncia di primo grado.

Con sentenza del 2 marzo 1999 la Corte d’appello di Catania, annullato il capo della decisione del Tribunale con cui si era provveduto sulla domanda riconvenzionale, perchè deliberata senza la partecipazione al giudizio della moglie dell’attore ( P. A.), comproprietaria del fabbricato, di cui era stata chiesta la parziale demolizione, in riforma della stessa pronuncia, rigettò la domanda del C., avendo ritenuto che: a)- nel mese di luglio dell’anno (OMISSIS), epoca in cui era stata denunziata la nuova opera eseguita dal M., non vigeva nel Comune di (OMISSIS) uno strumento urbanistico contenente disposizioni sulle distanze tra costruzioni, perchè il piano regolatore generale, che prescriveva il distacco di almeno dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici fronti stanti, era stato adottato dal Comune con Delib. 24 febbraio 1992, ma non ancora approvato, essendo stato soltanto trasmesso a tale scopo all’Assessorato della Regione il 15 ottobre dello stesso anno; b)- pertanto era applicabile l’art. 873 c.c. e doveva escludersi l’illegittimità della nuova opera del convenuto, in quanto era rispettosa del distacco tra costruzioni prescritta da tale disposizione.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal C., annullava la decisione che aveva ritenuto applicabile alla specie le distanze legali prescritte dall’art. 873 cod. civ., osservando quanto segue: era incontroverso che nel mese di luglio 1992, cioè quando l’attore aveva denunziato che dal convenuto erano state eseguite opere vietate dalle norme sulle distanze tra costruzioni, vigeva, nel territorio del Comune di (OMISSIS), il regolamento edilizio dello anno (OMISSIS), sprovvisto di programma di fabbricazione e di prescrizioni sui distacchi, e che il piano regolatore generale, contenente tali disposizioni, era inefficace, essendo stato approvato il 22 dicembre 1993 dalla Regione, alla quale era stato presentato il 5 ottobre 1992 dopo la sua adozione (Delib.

24 febbraio 1992); in presenza di questa situazione la Corte d’appello avrebbe dovuto applicare la L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17 in quanto, per la L.R. Sicilia n. 19 del 1972, art. 39 che ha sostituito la L. 1 giugno 1971, n. 291, art. 4 “nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, l’edificazione resta soggetta alle delimitazioni contenute nella L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17 fino alla data di presentazione dei relativi piani all’Assessorato regionale dello sviluppo, economico”.

Con sentenza dep. il 11 novembre 2004 la Corte di appello di Catania, pronunciando in sede di rinvio e in riforma della decisione impugnata, condannava il M. “alla riduzione in pristino della copertura del proprio edificio quale era prima dei lavori denunziati e quale in atti risultava dalla relazione del C.T.U. in data 14.11.199”; rigettava le domande con cui l’attore aveva chiesto la chiusura delle aperture realizzate dal convenuto e il risarcimento del danno; in considerazione della parziale soccombenza, le spese del giudizio erano compensate per metà mentre il residuo era posto a carico del convenuto, parzialmente soccombente.

I giudici di appello, per quel che interessa nella presente sede, ritenevano che non trovavano applicazione alla specie le prescrizioni dettate in materia di distanze legali dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 invocate dall’attore sia perchè esso vincola i Comuni nella formazione e nella revisione degli strumenti urbanistici, non essendo immediatamente operante nei rapporti fra privati sia perchè l’applicazione del predetto decreto era stata esclusa dal principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione.

Secondo i giudici trovava applicazione la L. n. 765 del 1967, art. 17 secondo cui la distanza da osservare era pari all’altezza del fabbricato da costruire la sopraelevazione realizzata dal convenuto con l’innalzamento del sottotetto, che costituiva nuova costruzione, era a distanza inferiore a mt. 8,73, cioè pari all’altezza dell’edificio più elevato (quello del M.), secondo quanto emerso dal rilievo “(OMISSIS)” della planimetria generale allegata alla relazione del C.T.U. del (OMISSIS), dalla quale risultava che l’edificio del M. si trovava in alcuni punti, alla distanza di appena m. 5,00 e m. 7,15 dall’edificio del C.; pertanto, era ordinata la riduzione in pristino di tale tetto di copertura, quale era prima dei lavori oggetto della denunzia di nuova opera e quale risultava dalla relazione del consulente d’ufficio.

Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione M. S. e M.N., acquirente dell’immobile de quo, sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso l’intimato.

Le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, degli artt. 112, 345, 384 e 394 cod. proc. civ., nullità del procedimento nonchè omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, deducono che con l’atto di riassunzione del giudizio di rinvio l’attore aveva proposto una domanda nuova e, come tale, inammissibile, avendo invocato la disciplina dall’art. 18, comma 3, n. 6 delle norme di attuazione del PRG che, ai fini delle distanze, richiama l’art. 9, cit. D.M., cioè una disposizione completamente diversa da quella in virtù della quale la Suprema Corte aveva cassato la sentenza di appello; pertanto, la sentenza ora impugnata non avrebbe potuto esaminare ed accogliere d’ufficio la domanda originaria che non era stata più proposta. Il motivo è infondato.

Occorre premettere che: 1) la sentenza impugnata, in applicazione del principio formulato dalla Suprema Corte, ha ritenuto che l’opera realizzata dal convenuto era stata costruita in violazione della distanza prescritta dalla L. n. 765 del 1967, art. 17 secondo cui la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all’altezza di ciascun fronte dell’edificio da costruire; per l’effetto ha riformato la sentenza di primo grado, impugnata dall’attore, che aveva rigettato la domanda dal medesimo formulata sul rilievo che dovendo trovare applicazione la distanza prescritta dall’art. 873 cod. civ., non sussisteva alcuna violazione; con la domanda originaria l’attore aveva lamentato l’inosservanza delle distanze prescritte dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 chiedendo il rispetto della distanza di 10 metri, che aveva ribadito con l’atto di appello avverso la decisione del Tribunale; 2) con l’atto di riassunzione del giudizio di rinvio il C. aveva invocato la disciplina nel frattempo introdotta dall’art. 18 del P R.G. che richiamava la disposizione dettata dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9. Orbene, ai fini della identificazione della “causa petendi” posta dalla parte a base della domanda non rilevano tanto le ragioni giuridiche addotte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio, bensì l’insieme delle circostanze di fatto che la parte pone a base della propria richiesta, sicchè è compito precipuo del giudice determinare gli effetti giuridici scaturenti dai fatti dedotti in causa; il richiamo della norma dello strumento urbanistico invocata nell’atto di riassunzione del giudizio di rinvio in ordine alla disciplina applicabile sulle distanze legali era del tutto irrilevante perchè non avrebbe potuto incidere sulla causa petendi e sul thema decidendum: infatti, non avrebbe in ogni caso potuto vincolare il giudice, il quale d’ufficio avrebbe dovuto individuare la norma applicabile. Oltretutto, nella specie il giudice di rinvio era vincolato al principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte con riferimento alle domande proposte dalle parti e che la sentenza impugnata ha correttamente applicato.

Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione della L. n. 765 del 1967, art. 17, art. 2697 cod. civ. e art. 191 e ss. cod. proc. civ. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia), censurano la sentenza impugnata laddove, pur avendo accertato che l’innalzamento del tetto di copertura realizzato dal convenuto, in alcuni punti soltanto, viola la distanza prescritta, aveva poi condannato alla riduzione in pristino del tetto di copertura, mentre l’ordine di ripristino avrebbe dovuto riguardare soltanto quella parte che si trovava distanza inferiore a quella legale.

Il motivo è infondato.

In sostanza, il ricorrente denuncia il vizio di motivazione perchè, dopo avere rilevato che solo in alcuni punti la costruzione realizzata dal convenuto aveva violato le distanze legali, la decisione impugnata aveva poi ordinato la demolizione dell’opera anche nelle parti in cui la distanza era superiore o comunque non inferiore a quella legale.

In effetti, la sentenza impugnata, avendo accertato che la costruzione realizzata era in alcuni punti a distanza irregolare ed era quindi illegittima, ha disposto la condanna del convenuto alla riduzione in pristino della copertura del proprio edificio quale era prima dell’esecuzione dei lavori denunciati, così facendo corretta applicazione dell’art. 872 cod. civ. secondo cui, nel caso di violazione delle distanze legali nelle costruzioni, la riduzione in pristino chiesta dall’attore impone al giudice di dare i provvedimenti che riportino la situazione dei luoghi nello stato anteriore all’esecuzione dei lavori illegittimi.

Con il terzo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., deducono che – in conseguenza degli errori denunciati- la sentenza aveva posto a carico del convenuto la metà delle spese processuali che, in considerazione della soccombenza dell’attore, avrebbe dovuto porre a carico di quest’ultimo o comunque compensare. Il motivo è infondato.

Le considerazioni sopra formulate circa l’infondatezza dei primi due motivi del ricorso, evidenziando la esattezza della decisione laddove aveva accolto la domanda con cui l’attore aveva denunciato la violazione delle distanze legali e chiesto la condanna del convenuto alla riduzione in pristino, comportano che correttamente le spese processuali, per la metà compensate, sono state per il residuo poste ex art. art. 91 cod. proc. civ., a carico del convenuto in considerazione della prevalente soccombenza.

Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 1.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2010

 

 

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