Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7059 del 12/03/2020

Cassazione civile sez. VI, 12/03/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 12/03/2020), n.7059

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13941-2018 proposto da:

B.M.P., B.C., in proprio e nella

qualità di soci della cessata Società AZIENDA AGRICOLA F.LLI

B. SS, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NICOLO’ PORPORA 16,

presso lo studio dell’avvocato EMANUELA QUICI, rappresentati e

difesi dall’avvocato DONATELLA MENTO;

– ricorrenti –

contro

AGRICOM INTERNATIONAL SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 63,

presso lo studio dell’avvocato LUCIANO GARATTI, rappresentata e

difesa dall’avvocato ARONNE BONA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 407/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 19/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ENRICO

SCODITTI.

Fatto

RILEVATO

che:

B.M.P. e B.C. proposero innanzi al Tribunale di Bergamo opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso per l’importo di Euro 80.108,26 a favore di Agricom International s.r.l.. Il Tribunale adito, revocato il decreto ingiuntivo, condannò gli opponenti al pagamento della somma di Euro 39.475,49, oltre interessi ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2002. Avverso detta sentenza proposero appello gli originari opponenti. Con sentenza di data 19 marzo 2018 la Corte d’appello di Brescia rigettò l’appello, condannando la parte appellante non solo alla rifusione delle spese processuali ma anche al pagamento della somma di Euro 1.500,00 ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

Premise la corte territoriale che nella missiva del 4 agosto 2009 sottoscritta da B.M.P., contenente riconoscimento di debito in base all’accertamento del giudice di primo grado non oggetto di censura, si leggeva quanto segue: “al fine di definire le posizioni debitorie pendenti con tutti i creditori vi proponiamo la chiusura a saldo e stralcio del vostro credito, come indicato nell’estratto conto inviatoci a mezzo fax il 27.05.2009 per l’importo complessivo di Euro 39.475,49, chirografario, con un pagamento nella percentuale del 20% da effettuarsi entro il 31.12.2009”. Osservò quindi che il riconoscimento di debito, correttamente ritenuto dal Tribunale, si riferiva alla somma di Euro 39.475,49, mentre l’appellante, ritenendo che il riconoscimento di debito si riferisse alla percentuale del 20% della detta somma, confondeva la promessa di pagamento della percentuale del 20% sul maggiore dovuto, proposta “a saldo e stralcio” del predetto credito a soli fini transattivi e necessitante l’accettazione della controparte, con il riconoscimento del credito di Agricom, pari invece ad Euro 39.475,49. Aggiunse che infondato era il motivo di appello relativo al tasso di interessi, in quanto trattandosi di transazioni commerciali corretta era l’applicazione del tasso di interesse previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002, mentre non poteva essere invocata la prescrizione quinquennale degli interessi liquidati in sentenza con decorrenza dalla data della lettera del 2009 laddove il ricorso per ingiunzione era stato depositato nel 2010, e che ricorrevano gli estremi della colpa grave ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, stante la natura pretestuosa dei motivi di appello, in considerazione dell’inequivoco contenuto della missiva del 4 agosto 2009, e della loro manifesta infondatezza per quanto riguarda gli interessi, sicchè andava pronunciata la relativa condanna al risarcimento del danno provocato dal ritardo che la proposizione dell’appello aveva comportato nel passaggio in giudicato della sentenza.

Hanno proposto ricorso per cassazione B.M.P. e B.C. sulla base di due motivi e resiste con controricorso la parte intimata. Il relatore ha ravvisato un’ipotesi di manifesta infondatezza del primo motivo e di d’inammissibilità del secondo motivo del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito. E’ stata presentata memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Osservano i ricorrenti che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che l’importo proposto a stralcio e saldo fosse quello di Euro 39.475,49 e che tale fosse l’importo oggetto del riconoscimento di debito e che con l’appello era stato evidenziato l’errore materiale, derivante dalla leggibilità solo parziale del documento, dato dal fatto che la promessa di pagamento non riguardava la somma di Euro 39.475,49, ma il diverso importo corrispondente al 20% della predetta somma (Euro 7.895,09). Aggiungono che il giudice di appello, anzichè porre rimedio all’errore contenuto nella sentenza, sovrapponendovi un non richiesto ragionamento logico in palese contrasto con la motivazione del Tribunale non censurata, ha concluso nel senso che la natura ricognitiva non andasse attribuita alla promessa di pagamento, come ritenuto dal giudice di primo grado, ma all’importo complessivo indicato da Agricom nell’estratto conto. Osservano quindi che la decisione è andata oltre i confini dell’appello, nel quale si chiedeva solo la rideterminazione dell’importo promesso e non la riqualificazione della promessa di pagamento o del riconoscimento di debito, e, violando la motivazione di primo grado, ha attribuito effetti ulteriori rispetto alla domanda. Concludono nel senso che non può assurgere a riconoscimento di debito l’importo non promesso in pagamento.

Il motivo è manifestamente infondato. Con la censura si denuncia un vizio di ultrapetizione che sarebbe rappresentato dalla circostanza che con l’atto di appello sarebbe stata chiesta una nuova determinazione dell’importo dovuto e non una diversa qualificazione del riconoscimento di debito. Non incorre in violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del “petitum” e della “causa petendi”, confermi la decisione impugnata ponendo a fondamento della decisione anche proprie argomentazioni, basate sulle risultanze processuali, aggiuntive rispetto a quelle prospettate dalle parti, giacchè la valorizzazione delle circostanze di fatto acquisite al processo rientra nella funzione del giudice di merito (Cass. 19 settembre 2005, n. 18458). Ed invero la natura di giudizio sul rapporto del grado di appello e l’efficacia sostitutiva del giudizio di merito che l’appello possiede escludono che la conferma della decisione di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento di merito, da quello contenuto nella sentenza di primo grado o nell’atto di impugnazione, possa tradursi nel vizio di ultrapetizione.

Ciò che con l’appello era stato invocato, sulla base di quanto indicato in ricorso, era una minore quantificazione dell’importo dovuto, ma il giudice dell’impugnazione ha accertato che la statuizione di primo grado era corretta, giungendo a tale conclusione sulla base della differenza fra riconoscimento di debito e proposta transattiva e della differenza fra i relativi importi. Tale percorso logico avrebbe potuto trovare un ostacolo insormontabile solo ove, essendo insorta controversia sul punto, fosse emerso un giudicato interno sulla coincidenza di riconoscimento di debito e proposta transattiva, per cui ciò che doveva stabilirsi era solo l’esatto importo della proposta transattiva che avrebbe così coinciso con il riconoscimento di debito, ma l’esistenza di un simile giudicato non risulta dedotta dalla parte ricorrente, che si è limitata a denunciare il solo vizio di ultra petizione.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osservano i ricorrenti, a proposito della condanna per responsabilità aggravata, che non ricorrevano mala fede o colpa grave perchè l’appello era l’unico rimedio per ottenere la correzione del vizio oggettivamente contenuto nella sentenza di primo grado, dopo che era stata disattesa l’istanza di correzione di errore materiale (in quanto errore afferente la formazione del giudizio), ed era stata inoltre rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., valutazione implicante la non manifesta infondatezza dell’appello. Aggiungono che del tutto marginale è la questione del tasso degli interessi e che inesistente era il danno per mancato passaggio in giudicato della sentenza data la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado.

Il motivo è inammissibile. Va premesso che in materia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., ai fini della condanna al risarcimento dei danni, l’accertamento dei requisiti costituiti dall’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave implica un apprezzamento di fatto ed è insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti della denuncia di vizio motivazionale (cfr. Cass. 29 settembre 2016, n. 19298). Il motivo di censura attiene direttamente all’apprezzamento di fatto, il quale come tale è insindacabile in sede di legittimità. Peraltro la censura è stata proposto sotto il profilo della violazione di legge, ma senza denunciare nell’articolazione del motivo un vizio di sussunzione delle circostanze valutate dal giudice di merito nelle figure di qualificazione giuridica previste dall’art. 96. Infine il motivo resta estraneo alla ratio decidendi, e pertanto privo di decisività, nella parte in cui censura l’identificazione del danno, posto che il giudice di merito ha reputato rilevante il danno derivante dal ritardo nel passaggio in giudicato della sentenza in quanto tale e non quello derivante dal ritardo nel poter mettere in esecuzione la sentenza di primo grado

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1 – quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020

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