Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7055 del 20/03/2017

Cassazione civile, sez. III, 20/03/2017, (ud. 09/02/2017, dep.20/03/2017),  n. 7055

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5428-2015 proposto da:

C.R., V.V., V.S.,

VI.VI., V.G. tutti nella loro qualità di eredi legittimi

del de cuius VI.GI., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE G. MAZZINI 134, pressa lo studio dell’avvocato VISCONTI E

ALOISE STUDIO LEGALE POLITANO & ASSOCIATI, rappresentati e

difesi dall’avvocato ROSELLA ZOFREA, giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, incorporante per fusione della FONDIARIA

SAI ASSICURAZIONI SPA in persona del procuratore speciale Dott.

G.R. in nome e per conto del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MEDAGLIE

D’ORO 199, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO ITALO MASUCCI,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO

MARIA MASUCCI giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

EREDI DI F.A. IMPERSONALMENTE E COLLETTIVAMENTE,

R.A., F.L., F.M., F.R.,

FE.AL., F.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 534/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/02/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Si controverte in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivato dalla circolazione dei veicoli, vantato dagli eredi di Vi.Gi. il quale in data (OMISSIS) era stato travolto mentre era piedi da un veicolo in retromarcia, subendo lesioni personali – nei confronti di UNIPOLSAI s.p.a. (incorporante Fondiaria SAI s.p.a.) e degli eredi di F.A., proprietario e conducente del veicolo assicurato per la RCA dalla predetta impresa assicuratrice.

La causa è stata definita nei gradi di merito con doppia sentenza conforme di rigetto della domanda risarcitoria per intervenuta prescrizione del diritto.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza 28.1.2014 n. 534, ha fondato il decisum sui seguenti argomenti:

il giudice istruttore di primo grado con ordinanza 23.3.2005 aveva assegnato termini alle parti ai sensi degli artt. 183 e 184 c.p.c., nel testo riformato dalla L. n. 393 del 1990, applicabile ratione temporis, e il danneggiato aveva prodotto oltre alla querela (da cui era scaturito il processo penale nei confronti del F. definito con sentenza di condanna), le raccomandate di costituzione in mora trasmesse in data 12.11.1995 e quindi negli anni 1996, 1998 e 2000 alla società assicurativa ai fini della interruzione della prescrizione, i verbali del procedimento penale di dichiarazioni spontanee e di interrogatorio reso dal F. avanti il PM, il modulo con il quale in data 5.1.2006 era stato richiesto alla Procura della Repubblica il rilascio di copia di tutti gli atti del procedimento penale;

i predetti documenti erano tutti inidonei ad interrompere la prescrizione corrispondente a quella del reato di lesioni colpose, in quanto il primo atto di costituzione in mora (12.11.1995) era successivo al decorso del quinquennio dalla data dall’illecito ((OMISSIS));

inammissibile era la produzione dell’atto di costituzione di parte civile nel processo penale e della sentenza penale di condanna in data 15.11.1994, in quanto effettuata tardivamente, oltre il termine perentorio assegnato ai sensi dell’art. 184 c.p.c., soltanto in allegato alla comparsa di replica depositata in data 24.3.2007 in primo grado, e senza che l’interessato avesse presentato istanza di rimessione in termini nè addotto ragioni giustificative in ordine alla oggettiva impossibilità della tempestiva produzione, venendo in conseguenza meno la applicabilità della disposizione dell’art. 2947 c.c., comma 3, in difetto di prova della data della irrevocabilità della sentenza penale di condanna;

inammissibili, ai sensi degli artt. 2699 e 2725 c.c., in difetto di perdita incolpevole del documento, erano le prove orali dedotte dal danneggiato al fine di fornire la prova che la sentenza penale era stata pronunciata in data 15.11.1994.

La sentenza non notificata è stata impugnata per cassazione, con quattro mezzi, dagli eredi di Vi.Gi. con atti notificati alla società assicurativa, in data 13.2.2015 ed impersonalmente e collettivamente agli eredi di F.A. in data 17.2.2015.

Ha resistito con controricorso UNIPOLSAI s.p.a..

Non hanno svolto difese gli altri intimati.

Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

La eccezione di nullità del processo, formulata in controricorso da UNIPOLSAI s.p.a., per essere stato notificato l’appello proposto da Vi.Gi. al destinatario F.A., litisconsorte necessario, quando lo stesso era già deceduto (in data (OMISSIS)), è manifestamente infondata alla stregua dei principi enunciati da questa Corte con la sentenza Sez. U., Sentenza n. 15295 del 04/07/2014, non essendo stato, peraltro, allegato dalla società resistente – che nulla aveva eccepito nel corso del giudizio di appello – un vizio di notifica che abbia determinato un oggettivo impedimento della conoscenza della lite da parte degli eredi della parte deceduta.

Venendo all’esame del ricorso il Collegio osserva quanto segue. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Indipendentemente dalla esatta individuazione del vizio di legittimità censurato in rubrica (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma in relazione a violazione di norma processuale di cui all’art. 345 c.p.c., ed ancora “mancanza di motivazione per omessa valutazione dei documenti prodotti unitamente alla comparsa conclusionale in replica” già depositati in primo grado in data 24.3.2007 e riprodotti in fase di gravame) osserva il Collegio che la tesi difensiva svolta dai ricorrenti, secondo cui la disposizione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo applicabile “ratione temporis”, come modificato dalla L. n. 353 del 1990 (che vietava l’ammissione in grado di appello di “nuovi mezzi di prova, salvo che il Collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”) limitava il divieto alle sole prove costituende, non sussistendo invece alcuna preclusione alla produzione di nuovi documenti, risponde ad un orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le altre, Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8235 del 29/04/2004) definitivamente abbandonato da questa Corte, essendo intervenute le Sezioni a comporre l’iniziale contrasto interpretativo della norma processuale statuendo che l’art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, atteso che il documento al pari di qualsiasi altro mezzo di prova viene introdotto nel processo attraverso la fase della verifica dell’ammissibilità della prova ed è oggetto, come le prove costituende, dell’attività di selezione e valutazione probatoria rimessa al Giudice di merito, risultando omessa solo la fase della assunzione del mezzo istruttorio (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 8203 del 20/04/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 622 del 13/01/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15514 del 07/07/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 3644 del 16/02/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 11346 del 11/05/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 21561 del 20/10/2010).

Ne segue che anche la produzione documentale è soggetta, come tutti gli altri mezzi di prova, ai termini di decadenza assegnati dal giudice istruttore in funzione del regolare e spedito svolgimento del processo (interesse pubblico prevalente e sottratto alla disponibilità delle parti) nonchè alle preclusioni determinate dal principio di non regressione delle fasi processuali, rimanendo pertanto impedita la produzione di prove documentali successivamente alla chiusura della fase istruttoria, salvo la ipotesi di rimessione in termini, che il Giudice può accordare su espressa istanza della parte interessata, qualora vengano allegate e dimostrate le cause non imputabili alla parte che le hanno impedito di disporre e produrre in giudizio il documento (art. 184 bis c.p.c., nel testo vigente ratione temporis). La stessa esigenza di ordine pubblico processuale informa anche il divieto delle nuove prove in grado di appello, secondo una impostazione di tale giudizio che si conforma più allo schema della “revisio prioris istantiae” (restando quindi confinato il “devolutum” nell’ambito delle allegazioni e delle prove dedotte dalle parti nel corso del primo grado), che a quello del “novum judicium”, aperto a nuove allegazioni e prove suscettibili di ampliare e immutare l’originario oggetto del giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 8203 del 20/04/2005).

Non soccorre, alla tesi difensiva della ammissibilità in grado di appello della prova documentale tardiva, il richiamo alla giurisprudenza, non correttamente intesa, secondo cui la “irrituale” produzione documentale in primo grado può sempre essere emendata mediante rinnovazione del deposito degli stessi documenti in grado di appello.

E’ appena il caso di osservare come la “irritualità” dell’acquisizione delle prove documentali (che integra vizio di nullità processuale soltanto nel caso in cui arrechi una effettiva lesione del principio del contraddittorio) non possa in ogni caso confondersi con la diversa fattispecie processuale della “inammissibilità” della prova per decadenza dal termine perentorio assegnato alle parti dal giudice istruttore ai sensi dell’art. 184 c.p.c. – testo vigente ratione temporis, risolvendosi invece in una disformità rispetto alle modalità che accompagnano la produzione documentale prescritte dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. (i documenti offerti in comunicazione debbono essere inseriti separatamente nel fascicolo di parte; i documenti depositati in Cancelleria debbono essere indicati in un elenco che va comunicato alla controparte; deve essere data attestazione nel verbale dei documenti prodotti direttamente alla udienza) e che sono volte a realizzare la corretta attestazione dell’attività processuale concernente il documento ed a garantire la effettiva conoscibilità dello stesso alle altre parti processuali (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 696 del 22/01/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 14338 del 19/06/2009; id. Sez. 2 Sentenza n. 8004 del 7.4.2011, che ribadiscono tutte il principio secondo cui le “irregolarità” attinenti le modalità di produzione rimangono sanate ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all’atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, in quanto si deve ritenere raggiunta la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l’esercizio del diritto di difesa: il principio affermato presuppone chiaramente che il documento sia stato comunque ritualmente acquisito nella fase istruttoria in primo grado e nel rispetto dei termini perentori previsti dalla legge ed assegnati dal giudice, anche se non siano state osservate le “modalità” indicate nelle disposizione di attuazione del codice di rito).

Deve, pertanto, decisamente escludersi, sulla scorta dei principi di diritto condivisi dal Collegio – enunciati dalle Sezioni Unite, che la parte che sia incorsa in decadenza nella produzione di un documento -senza che ricorrano le condizioni di cui all’art. 184 bis c.p.c., vecchio testo e senza formulare istanza di rimessione in termine secondo il procedimento previsto dall’art. 294 c.p.c. – possa poi aggirare la sanzione processuale mediante l’allegazione tardiva del medesimo documento ad atti processuali compiuti nelle successive fasi processuali, ovvero possa rinnovare, senza incontrare alcun limite, tale produzione in grado di appello, determinando sostanzialmente una riapertura della istruzione consentita solo in ristrettissimi limiti in quel tipo di giudizio.

Quanto poi all’esercizio del potere officioso di ammissione della “nuova prova” in grado di appello, in relazione alla ritenuta “indispensabilità” della stessa ex art. 345 c.p.c., testo vigente ratione temporis (il requisito della “indispensabilità” è stato declinato dalla giurisprudenza di questa Corte sia in termini di “assoluta decisività” della prova, tale cioè da essere risolutiva ai fini della decisione della controversia – Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12179 del 15/05/2008; id. Sez. 6-L, Ordinanza n. 13353 del 26/07/2012; id. Sez. 6-L, Ordinanza n. 2729 del 11/02/2015 -, che in termini di “ineludibile esigenza sopravvenuta”, dovendo ritenersi indispensabili quei soli documenti la cui necessità emerga soltanto dalla sentenza impugnata e dei quali non era pertanto apprezzabile neppure una mera utilità nel pregresso giudizio di primo grado -Corte Cass. Sez. 6-3, Sentenza n. 5013 del 15/03/2016 -) è appena il caso di osservare come tale potere non possa risolversi in una sorta di “relevatio ab onere probandi” in favore di una parte ed a detrimento dell’altra, atteso che – come puntualizzato dalle Sezioni unite n. 8203/2005 – “se si voglia attribuire una ragionevolezza al sistema e se si intenda, nello stesso tempo, conferire al disposto dell’art. 345, comma 3, una qualche operatività, non può che concludersi con l’affermare che il giudice d’appello, lungi dall’essere portatore di un potere discrezionale ai limiti dell’arbitrarietà e, comunque, insuscettibile di controllo, diviene titolare di un potere del cui esercizio deve dare conto con un provvedimento motivato, così come è tenuto a fare nel rito del lavoro il giudice che esercita i poteri d’ufficio ex art. 437, comma 2 (cfr. al riguardo Cass., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353 cit., secondo cui l’esercizio del potere officioso del giudice, quand’anche si ritenesse avere carattere discrezionale, non può mai esercitarsi in modo arbitrario sicchè il giudice, a sensi dell’art. 134 c.p.c. e art. 111 Cost., sul giusto processo, è tenuto ad esplicitare le ragioni per le quali ritiene di fare ricorso ai poteri istruttori o, invece, di disattendere una specifica richiesta in tal senso)….” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 8203 del 20/04/2005).

Ne segue che il potere officioso ex art. 345 c.p.c., comma 3, non è esercitato su istanza o nell’interesse della parte, ma è previsto esclusivamente in funzione della esigenza del Giudice di merito di risolvere eccezionali ed altrimenti insuperabili incertezze ostative alla formazione di un appagante convincimento in ordine al giudizio di prevalenza della efficacia probatoria da assegnare ad uno o più elementi, ritenuti rilevanti, tratti dal complesso delle risultanze istruttorie ritualmente acquisite al giudizio, sicchè ove tale incertezza interpretativa dei fatti provati in giudizio non sussista perchè il Giudice di merito si ritenga del tutto appagato, nella formazione del proprio convincimento, dalla ricostruzione della fattispecie operata alla stregua delle risultanze probatorie già acquisite, ebbene in tal caso non vi è spazio per il potere inquisitorio in questione che se esercitato oltre il ristretto ambito consentito, verrebbe ad interferire illegittimamente nel regolare svolgimento del processo, alterando il principio di parità delle armi dei soggetti che agiscono nel processo (art. 111 Cost.).

Non è dunque sindacabile in sede di legittimità – attenendo al piano del prudente apprezzamento delle prove ed all’interno convincimento del giudice di merito – il mancato esercizio del potere in questione.

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

La censura è formulata in modo analogo alla precedente, ma individua la norma processuale violata nell’art. 184 c.p.c..

Dalla confusa esposizione della vicenda processuale, sembra doversi intendere che il ricorrente si dolga del fatto che, essendo subentrato al giudice istruttore, trasferito, altro giudice nel corso della fase istruttoria di primo grado, quest’ultimo alla udienza fissata per l’ammissione delle prove (che le parti avevano dedotto con le note depositate nei termini assegnati ex art. 184 c.p.c.) riservava il provvedimento e quindi, sciogliendo la riserva, disponeva senza ammettere le prove il rinvio alla udienza per la precisazione delle conclusioni.

Tanto premesso deve ritenersi al di fuori di qualsiasi logica del sistema processuale la tesi dei ricorrenti secondo cui, in difetto di un formale provvedimento sull’ammissione delle prove, la fase istruttoria dovrebbe considerare non conclusa, legittimando quindi la produzione documentale tardiva allegata alla memoria conclusionale di replica, essendo appena il caso di osservare che l’ordinanza con la quale il Giudice rinvia le parti alla udienza di precisazione delle conclusioni presuppone che la causa sia sufficientemente matura per la decisione, e tale valutazione implica il rigetto delle istanze istruttorie in quanto ritenute superflue o irrilevanti.

Quanto poi alla asserita violazione dell’art. 184 bis c.p.c. -prospettata nella esposizione del motivo di ricorso -, in disparte la carenza del requisito di autosufficienza della censura, non avendo i ricorrenti riprodotto il motivo di gravame con il quale sarebbe stata dedotta specificamente la violazione della predetta norma processuale, adempimento necessario per non incorrere nella sanzione di inammissibilità per novità della questione prospettata, appare evidente la infondatezza della censura laddove i ricorrenti intenderebbero qualificare come “istanze di rimessione in termini” le plurime e reiterate richieste di rinvio di udienza formulate al giudice di prime cure, che nel ricorso vengono soltanto elencate cronologicamente, senza neppure indicare quali fossero le cause non imputabili alla parte – addotte a sostegno della istanza ex art. 184 bis c.p.c. – ostative alla tempestiva produzione dei documenti, non risultando pertanto idoneamente censurata la statuizione del Giudice di appello secondo cui il V. “non risulta aver presentato (per lo meno formalmente) alcuna istanza di rimessione in termine che, comunque non avrebbe potuto essere accolta per difetto dei relativi presupposti, dato il lungo tempo trascorso dalla conclusione del processo penale e la conseguente possibilità per l’interessato di richiederne comodamente la copia…”.

Il terzo motivo censura la sentenza di appello per violazione della L. n. 990 del 1969, art. 26, non avendo la Corte territoriale riconosciuto efficacia interruttiva della prescrizione alla costituzione di parte civile nel procedimento penale instaurato nei confronti del F., e non avendo ritenuto estensibile tale interruzione della prescrizione anche in relazione alla pretesa azionata nei confronti della società assicurativa, in violazione della norma della L. n. 990 del 1969, che assoggetta al medesimo termine prescrizionale l’azione diretta proposta nei confronti dell’assicuratore e l’azione per illecito extracontrattuale proposta nei confronti dell’autore del danno.

Premesso che non è chiaro se i ricorrenti intendano censurare la statuizione della Corte d’appello che ha esteso gli effetti della prescrizione estintiva anche al responsabili del sinistro, rimasto contumace, in grado di appello ovvero invece intenda censurare la sentenza impugnata per non aver accertato che la prescrizione era rimasta interrotta per entrambe le parti F. e società che lo assicurava per la RCA dalla costituzione di parte civile nel procedimento penale, il motivo si palesa comunque infondato.

La Corte d’appello non ha affatto disconosciuto il principio di uniforme applicazione nei confronti di responsabile assicurato ed impresa assicuratrice del termine prescrizionale, ai sensi della L. n. 990 del 1969, art. 26, ma più semplicemente ha argomentato dalla omessa produzione dell’atto di costituzione di parte civile e della sentenza di condanna divenuta irrevocabile (prodotti tardivamente in allegato alla memoria conclusionale di primo grado e ritenuti, pertanto, mezzi di prova inammissibili) la inapplicabilità, non soltanto della disciplina relativa agli effetti del giudicato civile sulle prescrizioni brevi (art. 2953 c.c.), ma anche della disciplina della interruzione della prescrizione determinata dal giudicato penale ex art. 2947 c.c., comma 3, non soccorrendo a tale lacuna probatoria l’atto di querela in data 25.6.1990, sia in quanto lo stesso – come correttamente rilevato dalla Corte d’appello – non produce l’effetto della costituzione in mora, sia in quanto inidoneo ad interrompere il decorso della prescrizione quinquennale maturata anteriormente al primo atto interruttivo di intimazione e costituzione in mora datato 12.11.1995.

Quanto alla estensione a favore del responsabile del sinistro degli effetti della eccezione di prescrizione proposta dalla società assicurata, la pronuncia impugnata deve ritenersi esente da vizi in quanto del tutto conforme al principio di diritti, che il Collegio intende ribadire, secondo cui l’eccezione di prescrizione sollevata da un coobbligato solidale ha effetto anche a favore dell’altro (o degli altri) coobbligati, tutte le volte in cui la mancata estinzione del rapporto obbligatorio nei confronti degli altri possa generare effetti pregiudizievoli per il soggetto eccipiente, come nel caso dell’assicuratore per la r.c.a., coobbligato solidale con il responsabile del sinistro, nell’ipotesi in cui quest’ultimo non si sia costituito in giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6934 del 22/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18648 del 12/09/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 12911 del 09/06/2014).

Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, come modificato dalla L. n. 353 del 1990, nonchè “omessa motivazione” in ordine alla produzione documentale allegata alla comparsa conclusionale in replica depositata in primo grado, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Il motivo è infondato, alla stregua delle stesse considerazioni già svolte nell’esame del primo motivo, dovendo soltanto aggiungersi che i precedenti di questa Corte, richiamati dai ricorrenti, non valgono a contrastare le conclusioni sopra raggiunte, atteso che l’obbligo di motivazione gravante sul giudice di merito si impone sul presupposto, precedentemente evidenziato, della esigenza del Giudice di “dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi”, esigenza che nella specie non si palesava in alcun modo, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata dalla quale non traspare alcuna esigenza di integrazione di una “semiplena probatio” o di risoluzione di un insuperabile stallo nel pervenire ad un giudizio di prevalenza probatoria tra distinte evidenze emerse dall’istruttoria, essendo invece del tutto pacifico che la controversia nella specie non poneva alcun elemento di dubbio sul piano della prova.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed i ricorrenti condannati alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso principale.

Condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente UNIPOLSAI s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2017

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