Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7051 del 12/03/2021

Cassazione civile sez. II, 12/03/2021, (ud. 18/11/2020, dep. 12/03/2021), n.7051

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17150/2018 proposto da:

D.M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LISBONA 9,

presso lo studio dell’avvocato ANDREA SACCUCCI, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati FABIO FERRARO, BERNARDO GIORGIO

MATTARELLA, FRANCESCO SCIAUDONE, MARCO SAVERIO SPOLIDORO, giusta

delega in atti;

– ricorrenti –

contro

CONSIGLIO NOTARILE DI MILANO, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, V. SISTINA 42,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GIORGIANNI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati MATTEO GOZZI, REMO

DANOVI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI

MILANO, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO;

– intimati –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il

06/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/11/2020 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;

Sentito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale PEPE

Alesandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati ANDREA SACCUCCI, FRANCESCO SCIAUDONE, FABIO

FERRARO, BERNARDO GIORGIO MATTARELLA, difensori del ricorrente, che

hanno chiesto l’accoglimento del ricorso e, in via subordinata, il

rinvio alla Corte di Giustizia Europea;

udito l’avvocato MATTEO GOZZI, difensore del resistente, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Milano, con ordinanza depositata il 5/4/2018, rigettò il reclamo proposto dal notaio D.M.P., così confermando la decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina notarile per la Lombardia, resa pubblica il 26/1/2017, con la quale era stata inflitta al reclamante la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di un mese.

2. La vicenda può riassumersi, in sintesi, per come segue.

Nel giudizio d’impugnazione svoltosi innanzi alla medesima Corte locale a riguardo di altra condanna disciplinare il professionista aveva prodotto una serie di dichiarazioni firmate da numerosi clienti, che davanti al predetto notaio avevano, in precedenza, stipulato atti pubblici, tutte esattamente uguali e aventi il medesimo contenuto, riportato dall’ordinanza della Corte di Milano nei seguenti termini:

“a) una dichiarazione del sottoscrittore di essere stato informato dal notaio rogante sulla necessità di procedere ad una trascrizione nel più breve tempo possibile, anche per una tutela maggiore dell’avente causa, per la protezione di un interesse disponibile delle parti;

b) l’assenso a che l’espletamento delle formalità prescritte dalla legge avvenisse entro 30 giorni da oggi, anzichè nel più breve tempo possibile, come disposto dall’art. 2671 c.c.;

c) la seguente dichiarazione, resa con le forme della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà: Dichiara consapevole delle sanzioni in cui potrebbe incorrere, ai sensi e per gli effetti degli artt. 3 e 76 del T. U. sulla documentazione amministrativa (D.P.R. n. 445 del 2000), che in merito al predetto atto di compravendita è stato contattato precedentemente alla stipula dal Dott. D.M. ed in tale occasione il medesimo si è accertato in ordine alla mia volontà circa l’atto ed agli scopi che intendevo raggiungere col medesimo e mi ha fornito informazioni e chiarimenti. Dichiara inoltre che in occasione della stipula, durante la lettura dell’atto, il notaio D.M. si è soffermato sulle clausole più importanti per fornire ai presenti chiarimenti ed avere conferma dei nostri intendimenti”.

Il Consiglio notarile di Milano chiedeva l’apertura di un procedimento disciplinare alla Commissione regionale di disciplina per la Lombardia a carico del notaio formulando le seguenti incolpazioni:

“1) l’art. 147, lett. a) L.N. avendo il notaio compromesso la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile e ciò:

1) per avere pattuito coi propri clienti convenzioni circa un’inesistente disponibilità della tempistica di trascrizione degli atti immobiliari;

lb) per avere ottenuto dai propri clienti, in forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, con la conseguente assunzione di responsabilità penali, dichiarazioni inerenti l’obbligatorio svolgimento dell’ordinaria funzione notarile;

2) l’art. 147, lett. b), L.N. in relazione al paragrafo 1 che impone al notaio di conformare la propria condotta professionale ai principi dell’indipendenza e dell’imparzialità e al paragrafo 14 che censura la ricorrente utilizzazione di clausole di dispensa limitatrici dell’incarico professionale ai fini della limitazione della responsabilità”.

La Commissione di disciplina, ritenuta sussistente la violazione dell’art. 147, lett. a), della legge notarile, in relazione ai capi d’incolpazione 1) e 1b), applicò la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per il periodo di un mese.

La Corte d’appello, investita dall’impugnazione del notaio, con l’ordinanza di cui in epigrafe, rigettò il ricorso, confermando, pertanto, la decisione della Commissione.

In estrema sintesi questi i passaggi salienti della decisione della Corte d’appello.

L’interesse reputato meritevole di tutela, individuato nella “salvaguardia della dignità e reputazione del notaio e del decoro del prestigio della classe notarile”, al quale corrispondeva la non tipizzabilità delle condotte, in uno alla pubblica funzione del notaio, faceva escludere che l’esercizio dell’azione disciplinare si ponesse in contrasto con la libera concorrenza del mercato e, quindi, con la legge antitrust (L. n. 287 del 1990), secondo le consolidate interpretazioni giurisprudenziali richiamate dalla Corte distrettuale, dovendosi reputare, pertanto, che la novella di cui alla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 495, attraverso la quale era stato introdotto l’art. 93 ter, comma 1 bis, nella L. notarile, non avesse fatto altro che confermare una tale interpretazione.

Rigettata l’eccezione d’intempestività dell’esercizio dell’azione disciplinare, la Corte d’appello confermava in pieno il giudizio della Commissione, giudicando inappropriato il comportamento del professionista, che aveva convocato presso il proprio studio numerosi clienti, a distanza di tempo dalla stipulazione degli atti, al fine di far loro firmare moduli predisposti a stampo e privi di ogni riferimento all’attività rogatoria in concreto effettuata in favore di ciascuno di loro, che contenevano, peraltro nella forma dell’atto sostitutivo di notorietà, a pena di responsabilità penale, manifestazioni di esonero dal rispetto, non negoziabile, dei tempi di trascrizione e l’anomala “certificazione” della irreprensibile condotta del notaio.

Infine, la decisione, esclusa l’applicabilità della continuazione, stigmatizzava la mancanza di resipiscenza del ricorrente al fine di negare l’applicazione delle attenuanti generiche.

3. Avverso la predetta statuizione l’interessato propone ricorso per cassazione, corredato da nove motivi di censura, successivamente depositando memoria e atto costitutivo di nuovi difensori con allegata la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato seguita all’adunanza del 24/7/2019.

Il Consiglio Notarile del Distretto lombardo ha depositato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con le prime quattro censure il ricorrente, oltre a denunziare violazione e falsa applicazione di legge, solleva eccezione d’incostituzionalità.

Andando al primo motivo, viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Cost., e art. 117 Cost., commi 1 e 2, lett. e), art. 106, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, 8 L. 10 ottobre 1990, n. 287, “in relazione alla illegittimità, ai sensi di tali norme, dell’art. 93 bis (introdotto con la L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 495) e L. 16 Febbraio 1913, n. 89, art. 147. Violazione della L. Costituzionale n. 1 del 1948, e della L. n. 87 del 1953, art. 23. Violazione dell’art. 702 quater c.p.c. -“, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi, in sintesi, gli argomenti esposti.

a) Lamenta il ricorrente (correggendosi qui l’erroneo riferimento all’art. 93 bis, di cui alla rubrica del motivo, dovuto a una evidente svista) che il comma 1 bis, aggiunto alla L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 93 ter, (legge notarile), con il quale si è disposto che “Agli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare si applica la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 8, comma 2″, il quale, a sua volta, prescrive che: ” Le disposizioni di cui ai precedenti articoli (cioè di quelle regolanti il divieto di intese anticoncorrenziali, che vietano l’abuso di posizione dominante, che prevedono il controllo delle concentrazioni) non si applicano alle imprese che, per disposizioni di legge, esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato, per tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati”, contrasti con i principi Eurounitari e, di conseguenza, con l’art. 117 Cost., commi 1 e 2, lett. e).

Il ricorrente aveva chiesto alla Corte d’appello di rinviare la causa in attesa che l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato completasse l’istruttoria avviata, a seguito di esposti di alcuni notai (fra i quali il ricorrente), nella convinzione che la novella non fosse risolutiva per una pluralità di ragioni (essa concerneva solo gli atti di prornovimento del procedimento disciplinare e non il profilo sanzionatorio, andava interpretata nel senso di riferirsi all’attività strettamente connessa ai compiti affidati al Consiglio notarile nel rispetto dell’art. 106 del TFUE, nel rispetto dell’art. 1, comma 4, legge antitrust, introduceva una modifica di diritto sostanziale valevole solo per l’avvenire).

Sebbene il Garante, avesse completata la sua istruttoria, condividendo le prime tre osservazioni di cui sopra, da cui aveva derivato il contrasto con l’art. 106 TFUE e con l’art. 117, commi 1 e 2, lett. e), la Corte di Milano non aveva ammesso la produzione della documentazione.

Così aveva violato l’art. 702 quater c.p.c., essendo stato rifiutato nuovo mezzo di prova indispensabile per la decisione. Se il Giudice ciò non avesse fatto avrebbe avuto la disponibilità del provvedimento del 3/5/2018, con il quale L’AGCM, sollevando questione di costituzionalità della norma di cui si discute, aveva rimesso gli atti alla Corte Costituzionale.

In ogni caso, il ricorrente sollecita questa Corte a rimettere anch’essa la questione di costituzionalità dell’art. 93 bis (rectius 93 ter) della legge notarile, siccome novellata dalla L. n. 205 del 2017, e riporta ampio stralcio del provvedimento di rimessione.

b) Era stato chiesto al Giudice d’appello di verificare la conformità a Costituzione dell’art. 147 della legge notarile. La prospettazione era stata giudicata manifestamente priva di fondamento sulla base di un richiamo a pronunce di legittimità, le quali avevano escluso il contrasto con la Costituzione sotto altro profilo. Il D.M., invero, non aveva sottoposto il dubbio in relazione alla disciplina in bianco, ma, ben diversamente, posto che gli si addebitava di aver tenuto un comportamento lesivo del decoro e del prestigio della classe notarile, si era sollecitata la Corte locale a verificare la proporzionalità della sanzione (applicata la sospensione dall’esercizio professionale per la terza volta nel decennio), in relazione alla gravità della contestata lesione. La motivazione sul punto resa dall’ordinanza impugnata era connotata da assenza di pertinenza: addebitando al ricorrente di aver cercato di svilire il ruolo del notaio, necessitante imparzialità, indipendenza e accurata preparazione scientifica. Ma nessun addebito di mancanza di competenza professionale era stata mossa al medesimo.

Non era stata, invece, colta l’essenza del dubbio di costituzionalità, che il D.M., sollecita venga sollevato da questa Corte, occorrendo verificare “se sia conforme alla Costituzione della Repubblica Italiana, e agli artt. 41 e 117 della medesima, la norma sulla cui base il Dott. D.M. è stato sanzionato (L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 147, lett. a) che permette di applicare una sanzione consistente nella cessazione temporanea (“sospensione”) o definitiva (“destituzione”) di un notaio dall’esercizio della professione”, senza che al medesimo venga contestata incapacità professionale, ma per la pretesa lesione del prestigio e del decoro della classe notarile, senza verificare se quel prestigio e quel decoro rivestano utilità sociale, o, invece, costituiscano mero interesse privato di una parte dei notai, senza bilanciare gli interessi in gioco, senza controllare se la restrizione sulla concorrenza, derivante dalla sospensione o dalla destituzione, possa considerarsi proporzionata.

1.1. La prospettata violazione dell’art. 702 quater c.p.c., non sussiste e le sollevate questioni d’incostituzionalità appaiono manifestamente infondate.

1.1.1. Quanto al primo profilo deve osservarsi che:

a) il mancato rinvio dell’udienza in attesa che si pronunzi la Corte Costituzionale, da altro giudice investita, non è censurabile in sede di legittimità, trattandosi di apprezzamento di merito (sospensione, anche sotto forma di rinvio, facoltativa); pronunzia che, peraltro, nel caso di specie, ha dichiarato inammissibile, per difetto di terzietà, l’eccezione proposta dall’AGCM (Corte Costituzionale n. 13/2019);

b) il motivo, pur denunziando “error in procedendo”, non evoca nullità della decisione della Corte d’appello, nè richiama l’art. 360, n. 4, ma erroneamente il n. 3 (da ultimo, Cass. 24247/2016);

c) lamenta, inoltre, travisamento dei motivi del reclamo, ma non li riproduce puntualmente;

d) non si confronta con l’autonoma “ratio” della decisione, la quale a pag. 7 chiarisce che il giudizio disciplinare al vaglio non interferisce con le dinamiche concernenti la concorrenza;

e) la questione di costituzionalità sollevata dall’Autorità attiene esclusivamente alla rivendicazione del potere di controllo attribuito alla predetta Autorità, assuntivamente leso, senza i necessari bilanciamenti, in base all’utilizzo di categorie generali (utilità sociale, fini sociali), così da violare l’art. 3 del Trattato dell’Unione e, quindi, l’art. 117 Cost., nonchè l’art. 3 Cost., potendosi introdurre deroghe al controllo antitrust solo se necessarie (art. 2 TFUE); senza tuttavia contestare il potere di vigilanza e quello sanzionatorio, ma lo straripamento della funzione, attraverso attività generalizzate volte all’acquisizione, attraverso un ingiustificato “screening” di massa, di dati economici sensibili.

Quanto da ultimo emerge nitidamente dal provvedimento finale dell’AGCM, seguito all’adunanza del 24/7/2019.

La decisione stigmatizza la condotta del Consiglio Notarile di Milano per avere preteso dai notai informazioni, attraverso l’invio di questionari, la cui compilazione implicava il disvelamento di dati economici concorrenzialmente sensibili, così cercando di reprimere la pratica di “prezzi competitivi”, procurando, a un tempo, il calo d’affari dei “notai più performanti”; attività che non aveva connessione con la funzione di controllo sul corretto svolgimento della professione e comprometteva le “scelte imprenditoriali” dei singoli notai, non potendosi sottacere che “il Consiglio è un organo composto da notai che operano in diretta concorrenza con i notai soggetti al controllo”.

Non dubita, l’AGCM, che la professione notarile costituisca attività economica soggetta alla disciplina antitrust e che debba reputarsi che i consigli notarili siano da qualificare “associazioni di impresa”; di talchè essa Autorità era competente ad accertare e reprimere i comportamenti anticoncorrenziali.

Chiarisce, tuttavia, correttamente che “la presente istruttoria non ha ad oggetto la doverosa e genuina attività di vigilanza e disciplinare del Consiglio”.

In altri termini, L’AGCM, piuttosto nitidamente, giustifica la propria “competenza” perchè diretta a reprimere condotte, per così dire, anomale, del Consiglio notarile di Milano, estranee alle sue attribuzioni e indirizzate a turbare le regole del mercato.

Nulla a che vedere con la pretesa, che sarebbe stata certamente illegittima, di censurare il potere di vigilanza e disciplinare dei consigli notarili. Potere che trova compiuta ed esaustiva tutela giurisdizionale nella vigente disciplina, che prevede, dopo la decisione amministrativa della commissione regionale, il controllo giurisdizionale pieno di merito, davanti alla corte d’appello, e quello di legittimità, davanti a questa Corte.

Nel caso in esame la Corte di Cassazione è chiamata a occuparsi degli specifici addebiti disciplinari contestati al notaio D.M., e solo di quelli; addebiti che non trovano antecedente logico, o anche solo collegamento indiretto, con la pratica anticoncorrenziale vietata dall’AGCM.

1.1.2. Le sollevate eccezioni d’incostituzionalità sono entrambe manifestamente infondate.

Il Collegio non condivide i dubbi di costituzionalità espressi dal ricorrente a riguardo dell’art. 93 ter della legge notarile.

La modifica operata con la L. n. 205 del 2017, la quale ha introdotto la L. 16 febbraio 1913, n. 205, art. 93 bis, il quale, a sua volta, richiama la L. n. 287 del 1990, art. 8, comma 2, (antitrust), escludendo dal controllo dell’AGCM il compito di vigilanza e controllo nella professione notarile, qui non rileva poichè dispone per l’avvenire, tuttavia è ricognitiva di un principio costituente diritto vivente, senza con ciò negare che l’esercizio della professione del notaio costituisca impresa secondo il diritto unionale.

Deve condividersi quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 9041/2016.

“Può quindi in astratto convenirsi che i Consigli notarili distrettuali, in quanto enti rappresentativi di imprese che offrono sul mercato in modo indipendente e stabile i propri servizi professionali, sono associazioni di imprese, che possono perciò rendersi promotrici di intese restrittive della libertà concorrenza, ai sensi della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 2, comma 1. Deve tuttavia affermarsi che il Consiglio notarile, quando assuma l’iniziativa del procedimento disciplinare, eserciti, in adempimento dello specifico compito di vigilanza del decoro della professione e nella condotta dei notai iscritti ad esso affidato dalla legge, la gestione di “servizi di interesse economico generale”, e sia perciò esente dall’applicabilità delle norme in tema tutela della concorrenza e del mercato, ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 8, comma 2. La ragione di questa esenzione trova il proprio fondamento nel fatto che tali servizi, benchè esercitati da imprese, sono funzionali ad obiettivi extraeconomici d’interesse generale, essendo volti a soddisfare esigenze di carattere sociale, ambientale, culturale e simili, facenti capo ad un’indeterminata platea di soggetti. Peraltro, la necessità di bilanciamento tra tale interesse economico generale e la ratio cui è ispirata la normativa sulla concorrenza impone che la deroga all’operatività delle disposizioni a tutela della concorrenza sia ravvisabile soltanto per quei comportamenti che appaiono strettamente connessi all’adempimento degli specifici compiti affidati all’impresa. L’esenzione del Consiglio notarile dalla normativa sulla concorrenza e sul mercato, allorquando esso eserciti funzione disciplinare, deriva, allora, dalla considerazione che in tale veste il Consiglio è portatore di un interesse all’esatta applicazione della sanzione, che gli deriva dalla spettanza in capo all’Ordine del compito di elaborare i principi di deontologia professionale (la cui enunciazione è rimessa istituzionalmente al Consiglio nazionale del Notariato dalla L. 3 agosto 1949, n. 577, art. 2, lett. f), e di vigilare che tali regole siano osservate insieme a quelle poste dal legislatore, in quanto assumono rilevanza disciplinare (Cass., sez, un., 26 giugno 2002, n. 9328; Cass. 24 ottobre.2003, n. 16006). Nella delibera di esercizio della vigilanza disciplinare, il Consiglio notarile adempie, in sostanza, una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà ed esercita prerogative tipiche dei pubblici poteri (cfr. Corte Giustizia, 19 febbraio 2002, causa C-309/99 Wouters e altri v. Algemene Raad van de Nederlandse Orde van Advocaten), e non regola i comportamenti economici dei notai, ovvero l’attività economica dagli stessi svolta, consistente nell’offerta di servizi di mercato”.

Ma, v’è di più: il sollevato dubbio di costituzionalità dell’art. 93 ter della legge notarile è irrilevante in questo processo, stante che la norma, nella parte in cui viene giudicata dal ricorrente confliggere con la Costituzione, non trova applicazione in questa sede. Il D.M. non è stato sanzionato per non avere collaborato allo “screening” di massa di cui s’è detto, o per non avere accettato di ridurre “i prezzi” praticati o di rallentare la sua operosa dedizione al lavoro, ma per una ben diversa incolpazione.

1.1.3. Il Collegio non condivide i dubbi di costituzionalità espressi dal ricorrente a riguardo dell’art. 147, della legge nota rile.

E’ da escludere il paventato contrasto con gli artt. 41 e 117 Cost., per essere stato il ricorrente sanzionato ai sensi della L. n. 89 del 1913, art. 147 lett. a).

Dispone la norma sospettata d’incostituzionalità: “1. E’ punito con la censura o con la sospensione fino ad un anno o, nei casi più gravi, con la destituzione, il notaio che pone in essere una delle seguenti condotte: a) compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile; b) viola in modo non occasionale le norme deontologiche elaborate dal Consiglio nazionale del notariato; c) fa illecita concorrenza ad altro notaio, con riduzioni di onorari, diritti o compensi, ovvero servendosi dell’opera di procacciatori di clienti, di richiami o di pubblicità non consentiti dalle norme deontologiche, o di qualunque altro mezzo non confacente al decoro ed al prestigio della classe notarile. 2. La destituzione è sempre applicata se il notaio, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per la violazione del presente articolo, vi contravviene nuovamente nei dieci anni successivi all’ultima violazione”.

Per il ricorrente è ingiusta la sanzione che non attenga a constatata inidoneità all’esercizio della funzione o incapacità a svolgerla, ma solo perchè la condotta addebitata è “incompatibile con il prestigio e il decoro della classe notarile”, senza verificare in concreto se tale decoro e prestigio costituisca “utilità sociale”, o non invece oggetto di interesse privato – quello della classe dei notai -, senza bilanciamento d’interessi, senza controllare la restrizione della concorrenza, ricercando il caso esemplare, “colpirne uno per educarne cento”; inoltre, la previsione sanzionatoria viene reputata irragionevole, specie perchè nel caso in esame porta alla destituzione del professionista.

La prospettazione è manifestamente infondata.

Deve escludersi che la norma imponga una sanzione rigida e non commisurata all’entità della violazione, stante che, al contrario, impone una valutazione in concreto, in ultimo devoluta al giudice.

“Il notaio deve conformare la propria condotta professionale ai principi dell’indipendenza e dell’imparzialità” (deliberazione Consiglio Nazionale Notariato n. 2/56 del 5/4/2008) e, non par dubbio che le anzidette qualità siano intimamente correlate a come il notaio mostri di apparire, non solo nei suoi rapporti professionali o da essi dipendenti, ma anche nella vita privata. Da ciò deriva che una condotta poco dignitosa refluisca sul dovere d’indipendenza e imparzialità, senza che occorra addebitare al notaio anche il difetto di capacità professionale.

L’ordinamento assegna ai notai pubbliche funzioni di primario rilievo: depositari di pubblica fede, poteri certificatori con valenza “erga omnes” di atti o fatti regolanti situazioni giuridiche fondamentali per la convivenza civile, in varie materie, diritto della persona, di famiglia, societario, diritti reali e successori, ecc. Nello svolgimento di tale ruolo delicato, non solo deve essere “super partes”, ma deve apparire tale. La ipotesi disciplinare regolata dall’art. 147, lett. a), cit. (“compromette, in qualunque modo, con la propria condotta, nella vita pubblica o privata, la sua dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile”), l’unica che qui viene in rilievo, è diretta ad assicurare appunto che il notalo mantenga condotta tale da non far anche solo dubitare della sua dirittura morale e, quindi, della sua indipendenza. Trattasi di valori, che correlati alle funzioni notarili, alle quali sopra si è accennato, giustificano ampiamente la compressione, anche radicale del diritto d’intrapresa, estensivamente inteso, secondo i principi Eurounitari.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 133/2019, ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità sottopostole da questa Sezione (violazione degli artt. 3 e 24 Cost., a causa della previsione dell’automatica destituzione del notaio colpevole della terza violazione del decennio, punita con la sospensione dall’esercizio). Peraltro, qui non risulta ancora essere stata inflitta la destituzione, la quale la quale potrebbe costituire solo una conseguenza de futuro.

Sibbene il D.M. prospetta in questa sede un contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 41 e 117, l’articolato ragionamento della Corte Costituzionale, la quale ha accertato la conformità della sanzione estrema a valori costituzionali certamente non minori di quelli qui evocati, evidenzia la ragionevolezza anche del provvedimento espulsivo.

Precisa il Giudice delle leggi: “Il giudice a quo richiama, anzitutto, la giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità e individualizzazione delle pene, che considera con sfavore gli automatismi sanzionatori, in quanto normalmente inidonei ad assicurare che la pena sia commisurata dal giudice tenendo conto della concreta gravità del fatto del quale l’imputato sia stato ritenuto responsabile (da ultimo, sentenza n. 222 del 2018).

Al riguardo, è necessario tuttavia rammentare che tale giurisprudenza si fonda sul combinato disposto dell’art. 3 Cost., e art. 27 Cost., commi 1 e 3, e ha dunque come necessario referente il principio della funzione rieducativa della pena, che la giurisprudenza di questa Corte ritiene non estensibile al di fuori della materia penale in senso stretto (sentenza n. 197 del 2018 e, in materia di sanzioni amministrative, sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013), ben potendo in particolare le sanzioni disciplinari essere orientate, oltre che agli scopi di prevenzione generale e speciale, insiti in ogni tipo di sanzione, anche all’obiettivo di preservare l’integrità etica e l’onorabilità della professione, nonchè a quello di assicurare la rimozione dalle funzioni di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri (sentenze n. 197 del 2018 e n. 161 del 2018), senza dover essere necessariamente finalizzate anche alla “rieducazione” della persona colpita dalla sanzione.

Ne consegue che i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di proporzionalità e individualizzazione della pena non possono essere sic et simpliciter traslati alla materia delle sanzioni disciplinari, ma devono essere adattati alle peculiarità di un sistema sanzionatorio che persegue obiettivi diversi rispetto a quelli cui il diritto penale è orientato, restando fermo, peraltro, il principio generale che sanzioni manifestamente sproporzionate alla gravità dell’illecito violano l’art. 3 Cost. (nonchè i diritti fondamentali su cui tali sanzioni di volta in volta incidono), in quanto eccedenti gli scopi legittimi che le giustificano (…) La questione ora all’esame – così come quella decisa recentemente da questa Corte con la sentenza n. 197 del 2018 – non concerne, però, un automatismo legato al sopravvenire di una condanna in sede penale per determinati reati che comportino di per se stessi la destituzione, bensì la previsione di un’unica sanzione fissa a carico di chi sia ritenuto dal giudice disciplinare responsabile di un preciso illecito, anch’esso di natura meramente disciplinare. L’elemento differenziale rispetto alle questioni decise con le sentenze menzionate risiede, dunque, nella circostanza che la sanzione disciplinare è qui irrogata dal giudice disciplinare a conclusione di un procedimento nel quale egli stesso ha accertato la responsabilità dell’incolpato.

In simili situazioni, la valutazione che questa Corte è chiamata a compiere è se la previsione in termini indefettibili di una determinata sanzione sia suscettibile di condurre, nel caso concreto, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati alla gravità dell’illecito del quale l’interessato sia ritenuto responsabile: ciò che renderebbe la relativa previsione normativa contraria all’art. 3 Cost..

Nella sentenza n. 170 del 2015, questa Corte ha ritenuto in effetti illegittimo l’automatismo insito nella previsione automatica della sanzione del trasferimento del magistrato ad altra sede nel caso in cui questi fosse stato giudicato responsabile di un determinato illecito disciplinare, rimarcando in sostanza come la configurazione di tale illecito fosse tale da abbracciare condotte di disvalore assai differenziato, sì da creare il rischio che l’irrogazione indefettibile della sanzione del trasferimento conducesse a risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alla concreta gravità dell’illecito.

Nella sentenza n. 197 del 2018, per contro, questa Corte ha ritenuto non manifestamente sproporzionata la sanzione fissa della rimozione a carico del magistrato giudicato responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 3, comma 1, lett. e), recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonchè modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma della L. 25 luglio 2005, n. 150, art. 1, comma 1, lett. f)”, in ragione dell’elevata gravità di tutte le condotte riconducibili alla fattispecie astratta dell’illecito in questione.

Parimenti, nella specifica materia della responsabilità disciplinare dei notai, la sentenza n. 234 del 2015 ha escluso l’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 1913, art. 159, comma 3, nella parte in cui preclude la speciale riabilitazione ivi prevista al notaio destituito nell’ambito di un procedimento disciplinare avviato in seguito alla sua condanna in sede penale per i delitti di “falso, frode, abuso d’ufficio, concussione, corruzione, furto, appropriazione indebita aggravata, peculato, truffa e calunnia”. In tale sentenza si è in particolare rilevato come la preclusione censurata congiunga “il motivato giudizio dell’organo disciplinare”, competente a disporre la destituzione, “con una tassativa predeterminazione, da parte del legislatore, del catalogo dei reati che ostano alla riabilitazione”; reati questi ultimi “selezionati, nell’ambito della vasta area del diritto penale, individuando fatti che in linea astratta sono suscettibili di spezzare la fiducia che la collettività ripone nel corretto esercizio delle pubbliche funzioni attribuite al notaio”. Alla luce dei principi desumibili dalla giurisprudenza ora richiamata, la sanzione fissa della destituzione nella peculiare ipotesi prevista dalla L. n. 89 del 1913, art. 147, comma 2, non può ritenersi incompatibile con l’art. 3 Cost. (…) l’obbligatoria applicazione della massima sanzione della destituzione scatta (…) soltanto quando il notaio sia stato ritenuto responsabile, per la terza volta nell’arco di un decennio, di uno degli illeciti previsti dal comma 1, e alla specifica condizione che per i primi due illeciti egli sia stato condannato alla sanzione della sospensione. Questa sanzione di per sè presuppone che il giudice disciplinare a suo tempo investito di tali illeciti abbia ritenuto gli stessi sufficientemente gravi da giustificare l’irrogazione non già di una mera censura, ma di una sospensione temporanea dall’esercizio della professione. E allora, è proprio la constatazione che le sospensioni precedentemente inflitte, per illeciti essi stessi di significativa gravità, si siano rivelate inidonee a dissuadere il notaio dal compimento di illeciti disciplinari, a rendere non manifestamente sproporzionata – in un’ottica di gradualità della risposta sanzionatoria – la destituzione di colui che, rendendosi responsabile per la terza volta della medesima violazione – quale che sia, a questo punto, la concreta gravità della nuova condotta addebitatagli -, si dimostri inadeguato rispetto agli standard richiesti da una professione “destinata a garantire la sicurezza dei traffici giuridici, a propria volta preminente interesse dello Stato di diritto”, e nella quale i consociati debbono poter riporre un “particolare ed elevato grado di fiducia” (sentenza n. 234 del 2015). Ciò tanto più in quanto, nelle ipotesi ora all’esame – a differenza di quelle cui si riferisce la L. n. 89 del 1913, art. 159, comma 3, scrutinato nella menzionata sentenza n. 234 del 2015 -, al notaio destituito non è precluso ottenere la riabilitazione all’esercizio della professione ai sensi dello stesso art. 159, comma 1, lett. b), una volta che siano trascorsi tre anni dalla destituzione”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione falsa applicazione degli artt. 1, 7 e 8 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei diritti dell’uomo; nonchè eccezione d’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 1913, art. 147, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione agli artt. 1, 7 e 8 dell’anzidetto Protocollo e all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo il ricorrente la disposizione interna contrasta con i principi di cui alla Convenzione Europea, in quanto:

a) istituisce una sanzione sostanzialmente penale, in violazione del principio di legalità, essendo generica la descrizione della condotta sanzionata e amplissima la rosa delle opzioni sanzionatorie; risultano violati, di conseguenza, i principi di accessibilità, prevedibilità e determinatezza;

b) viene inferta una lesione alla vita privata, intesa in senso ampio e autonomo dalla Corte edu, in essa ricompreso il diritto all’esercizio di una professione, poichè l’ingerenza, per essere giustificata, oltre che prevista dalla legge, deve perseguire “scopi legittimi” e deve essere “necessaria in una società democratica”; inoltre la sanzione non può risultare “manifestamente sproporzionata rispetto allo scopo perseguito” e avere effetti pregiudizievoli, come nel caso di specie, sull’onore e la reputazione della persona sanzionata;

c) l’ampia nozione di “bene”, di cui al citato art. 1, da intendersi non solo in senso materiale, ma anche immateriale, prescindendosi dalla formale qualificazione interna, non poteva non ricomprendere anche il diritto all’esercizio della professione e alla conservazione dell’avviamento; inoltre, si evidenzia, ancora una volta, la mancanza di legalità e determinatezza, nonchè di proporzionalità, della previsione censurata.

In conclusione il ricorrente, ove questa Corte non avesse inteso interpretare la previsione interna nel senso auspicato, solleva eccezione d’illegittimità costituzionale.

2.1. La pretesa interpretazione non può essere condivisa e l’eccezione d’incostituzionalità risulta manifestamente infondata.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare, con la sentenza n. 10872/2018, emessa a seguito del ricorso del medesimo professionista in relazione ad altra sanzione disciplinare: “La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18/2003 (nello stesso senso, si veda la sentenza n. 234/2015), investita della legittimità costituzionale della sanzione massima della destituzione del notaio, colpito da determinate condanne penali, insegna, a proposito della individuazione normativa degli illeciti penali presupposti: “Questi illeciti sono stati selezionati, nell’ambito della vasta area del diritto penale, individuando fatti che in linea astratta sono suscettibili di spezzare la fiducia che la collettività ripone nel corretto esercizio delle pubbliche funzioni attribuite al notaio. L’astrattezza di un simile criterio, già temperato dalla rigorosa delimitazione delle ipotesi applicative, trova un rilevante correttivo nel giudizio dell’organo disciplinare, che infligge la destituzione, anche in conseguenza dei reati indicati dalla L. n. 89 del 1913, art. 159, comma 3, soltanto se ciò è richiesto dal peculiare episodio della vita. Tale giudizio così è sottratto alla “molteplicita” dei comportamenti possibili nell’area dello stesso illecito penale” (sentenza n. 16 del 1991) per essere riconsegnato alla dimensione individualizzante che è richiesta dal principio di uguaglianza. Il divieto che la disposizione impugnata oppone alla riabilitazione, pertanto, non può ritenersi manifestamente irragionevole a causa dell’automatismo legale che introduce, perchè opera soltanto se si è ritenuta in concreto congrua, per i limitati casi oggetto di tipizzazione normativa, una sanzione disciplinare che comporta la definitiva destituzione del notaio. Si può soggiungere (…) che per la medesima ragione tale divieto non trova ostacoli nella consolidata interpretazione che la Corte dei diritti dell’uomo dà dell’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) poichè esso non è la conseguenza automatica di un fatto, cui la legge riconnette effetti lesivi del diritto della persona a svolgere un’attività professionale. La compressione di tale diritto deriva dal giudizio disciplinare, è la conseguenza di un’accertata incompatibilità tra la condotta e la professione, è impugnabile in sede giurisdizionale, ed è ritenuta dalla legge necessaria per preservare l’integrità della funzione notarile, che sarebbe compromessa ove i consociati potessero anche solo dubitare della affidabilità di chi è preposto a certificare gli atti con valore di pubblica fede.

Nonostante la non esatta corrispondenza con il posto quesito, non par dubbio che la interpretazione costituzionale valorizzi la funzione, prima che integrativa, valoriale delle regole deontologiche, espressione, come più avanti si riprenderà, del sentire sociale interpretato dalla stessa categoria di appartenenza, che trova qualificato momento valutativo nel giudizio disciplinare.

Le S.U. (sent. n. 27996, 16/12/2013), affrontando la tematica in relazione alla materia disciplinare, sia pure forense, hanno spiegato che la questione risulta destituita di fondamento “alla luce della costante giurisprudenza di queste S.U. (v., in particolare, sent.nn. 19042002, 10601/2005, 37/2007, 23020/20 11), secondo cui il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità e decoro (art. 5 Codice Deontologico Forense), lealtà e correttezza (art. 6 cod. cit.), (…) la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare. (…) Nel caso di specie, dunque, correttamente il C.N. F., sulla scorta di un incensurabile apprezzamento dei fatti accertati e di adeguata valutazione degli stessi, alla stregua dei citati doveri di probità e correttezza professionale, ha confermato l’illiceità della condotta (…), che, sebbene non pervenuta alla “consumazione”, nel senso preteso dal ricorrente secondo un’improponibile accezione penalistica (richiedente la verificazione di un “evento”), è stata ritenuta chiaramente finalizzata a reafizzare un comportamento espressamente vietato dal citato codice deontologico (…)”.

Plurime sono le decisioni dello stesso segno riguardanti, nello specifico, la responsabilità disciplinare dei notai. Una volta che risulti assicurato che l’incolpazione disciplinare sia riconducibile alle previsioni enucleate dall’art. 147 della legge notarile, non appare esigibile una costruzione strettamente tipica degli illeciti, nel rispetto delle scelte discrezionali del legislatore (cfr. Sez. 6-3, n. 12995, 24/7/2012, Rv. 623417). Non è, infatti, dubbio che la L. n. 89 del 1913, art. 147, individua con chiarezza l’interesse meritevole di tutela (dignità e reputazione del notaio, decoro e prestigio della classe notarile) e determina la condotta sanzionabile in quanto idonea a compromettere l’interesse tutelato, condotta il cui contenuto, sebbene non tipizzato, è integrato dalle regole di etica professionale e, quindi, dal complesso dei principi di deontologia oggettivamente enucleabili dal comune sentire di un dato momento storico; ne consegue, da un lato, che la norma menzionata è rispettosa del principio di legalità ex art. 25 Cost., (peraltro attinente alla sola materia penale), e dall’altro che la concreta individuazione della condotta disciplinarmente rilevante, da parte del giudice di merito, non è sindacabile dalla Corte di cassazione, il cui controllo di legittimità sull’applicazione, da parte del giudice del merito, di concetti giuridici indeterminati e clausole generali può solo mirare a verificare la ragionevolezza della sussunzione in essi del fatto concreto (Sez. 6-3, n. 4720, 23/3/2012, Rv. 622116); riferendosi, peraltro, a precetti extra giuridici, ovvero a regole interne alla categoria, e non ad atti normativi (Sez. 3, n. 3287, 15/2/2006, Rv. 587638). Si è soggiunto che “l’art. 147, lett. a), L.N. prevede una fattispecie disciplinare a condotta libera, all’interno della quale è punibile ogni condotta, posta in essere sia nella vita pubblica che nella vita privata, idonea a compromettere l’interesse tutelato, il che si verifica ogni volta che si pone in essere una violazione dei principi di deontologia enucleabili dal comune sentire in un determinato momento storico (Cass. 2006/ 12113; 2003/ 10683). Pertanto deve escludersi che il verificarsi del clamore nella comunità, integri un elemento costitutivo di tale illecito e che, tanto meno, occorra la prova della sua esistenza” (Sez. 6-3, n. 21203, 22/9/2011).

Assai di recente le S.U., hanno avuto modo di precisare che “Esclusa la possibilità di applicare agli illeciti disciplinari, sic et simpliciter, i risultati interpretativi conseguiti dalla dottrina e dalla giurisprudenza in materia penale (l’unica relativamente alla quale il principio di legalità, previsto dall’art. 1 c.p., assume dignità costituzionale), resta cionondimeno da verificare quali siano i termini in cui il principio di legalità (e, con esso, di tassatività e determinatezza della fattispecie “incriminatrice”) debba essere inteso nel settore oggetto di indagine. In una visione prospettica che riconduca a coerenza le norme di cui agli artt. 135, 136, 144 e 147 legge notarile – nell’ambito della novella adottata in attuazione della L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 7, comma 1, lett. e), sicuramente ispirato ad una valorizzazione del principio di legalità – occorre una ricostruzione delle fattispecie che più che in chiave di tipicità ovvero di atipicità degli illeciti, crei una connessione diretta tra la previsione di condotte vietate e la disciplina delle sanzioni” (sent. n. 25457, 26/10/2017).

Questa Sezione (n. 4206, 5/2/2016), dando continuità ai precedenti arresti, ha, fra l’altro, affermato: “Occorre premettere che nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che, in tema di illeciti disciplinari previsti a carico di chi esercita la professione notarile, l’art. 147, lett. a), della legge notarile, prevede una fattispecie disciplinare a condotta libera, all’interno della quale è punibile ogni comportamento, posto in essere sia nella vita pubblica che nella vita privata, idoneo a compromettere l’interesse tutelato, il che si verifica ogni volta che si ponga in essere una violazione dei principi di deontologia enucleabili dal comune sentire in un determinato momento storico (Cass., Sez. VI-3, 13 ottobre 2011, n. 21203; Cass., Sez. Il, 21 gennaio 2014, n. 1170). Il citato art. 147, lett. a) – da intendersi quale norma di chiusura del sistema a fondamento del quale è posto il rapporto complesso ed articolato tra il notaio e l’ordinamento statuale – legittimamente configura come illecito disciplinare condotte che, ancorchè non tipizzate, siano comunque idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio nonchè il decorso e il prestigio della classe notarile, e ciò onde evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare, essendo d’altra parte la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione affidate ad una clausola generale il cui significato è compreso dalla collettività in cui il giudice disciplinare opera. La norma menzionata – del tutto rispettosa del principio di legalità, anche in punto di previsione delle sanzioni applicabili (Cass., Sez. II, 28 agosto 2015, n. 17266), e quindi conforme ai parametri costituzionali evocati dal ricorrente – rimette agli organi di disciplina l’individuazione in concreto delle condotte che possano provocare discredito alla reputazione del singolo notaio e, per suo tramite, all’intera categoria professionale, essendo riservato al giudice un controllo di legittimità, rivolto a verificare la ragionevolezza della sussunzione nella clausola generale del fatto concreto (Cass., Sez. VI-3, 23 marzo 2012, n. 4720)”.

In conclusione, può solo aggiungersi, ad ulteriore chiarimento e precisazione, che la natura, lo scopo, le ripercussioni della disposizione disciplinare, ponendosi in ambito estraneo al diritto penale, per scelta normalmente non censurabile del legislatore, pur sempre soggetta al principio di legalità ed imparzialità amministrativa, non trova limite rigido e invalicabile nel principio di tipicità, valevole, nella sua assolutezza, solo per il rimprovero penale. Nel caso in esame, peraltro la condotta vietata, non suscita dubbi di non previa conoscibilità, trovando la norma primaria più che soddisfacente integrazione nel puntuale codice deontologico, rivolto ad una platea di soggetti perfettamente in grado, per la qualificata professionalità, di coglierne perimetro e valenza: non può, infatti, non ribadirsi che lo strumento deontologico è frutto di un potere di autodeterminazione normativa elaborato dalla stessa categoria professionale di appartenenza”.

La compressione, poi, della vita privata e del bene immateriale, come sopra inteso, non deriva da un abuso, ma da un procedimento legale, giurisdizionalmente garantito, posto, come si è visto, a tutela di primari pubblici interessi, di cui s’è detto, non solo pienamente compatibile con una “società democratica”, ma strumentale al suo pieno sviluppo, oltre che proporzionale alle finalità perseguite (su quest’ultimo punto non può che rinviarsi alla già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 133/2019).

3. Con il terzo motivo si solleva eccezione d’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 1913, art. 156 bis, e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 26, per contrasto con l’art. 111 Cost., comma 1, e con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, p. 1 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente, facendo leva sul contenuto del citato art. 6, p. 1, si duole della mancata previsione di una pubblica udienza, costituente baluardo contro una “giustizia segreta” e in assenza della ricorrenza di ipotesi eccezionali di deroga. Un tal principio, valevole per il processo penale, per quello civile e per i procedimenti davanti alle autorità indipendenti, avrebbe meritato piena applicazione, stante la natura “materialmente penale” dell’illecito e della sanzione.

Or poichè l’art. 156 bis, legge notarile prevede che la udienza di discussione sia tenuta in camera di consiglio, l’art. 157, che la deliberazione avvenga senza le parti, l’art. 158, richiama l’art. 26 del D.Lgs. n. 150 del 2011, e quest’ultimo dispone l’applicazione del rito sommario di cognizione, la violazione era rimasta conclamata. Inoltre risultava disatteso il principio convenzionale riportato, dal quale deriva la ineluttabilità della “pubblica disamina degli elementi difensivi e delle prove”: aveva chiesto di provare per testi la ragione per la quale aveva fatto sottoscrivere quelle dichiarazioni, ma prima il Comitato regionale e poi la Corte d’appello non avevano ammesso la prova.

Non sussistevano, infine, specifici e dimostrati motivi d’urgenza che giustificassero la rinunzia alla pubblicità.

3.1. L’eccezione è manifestamente infondata.

Sul punto la già richiamata sentenza n. 9041/2016 di questa Corte ha speso plurimi, condivisi argomenti.

La sentenza in parola, dopo aver effettuato ricognizione della disciplina processuale dettata per la materia, precisa che il giudizio davanti alla corte d’appello è d’impugnazione, “regolato, però, dall’art. 702 bis c.p.c. e segg.”, con esclusione dell’applicabilità, per espressa disposizione di legge (D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3), dell’art. 702 ter c.p.c., commi 2 e 3; in assenza di previsione specifica diversa il procedimento è soggetto “al generale regime di cui all’art. 128 c.p.c., e art. 84 disp. att. c.p.c., (che dispone la pubblicità della sola udienza di discussione della causa). Va al riguardo comunque considerato come le diverse espressioni “accusa penale” e “accusato di un reatò, rinvenibili nei tre paragrafi dell’art. 6 CEDU, non coinvolgano l’ambito dei procedimenti disciplinari in seno agli ordini professionali, in quanto questi procedimenti sono riconducibili al campo del diritto civile (Corte di Giustizia, 24 ottobre 1983, causa 7299/75 e 7496/76, Albert e Le Compte c. Belgio, secondo la quale, in tema di provvedimenti disciplinari, “il diritto di continuare ad esercitare le professione costituisce un diritto, sub specie diritto civile, ai sensi dell’art. 6 CEDU”; Corte di Giustizia 13 settembre 2007, causa n. 27521/04, Moullet c. Francia). Ora, innanzitutto, l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo non prevede che tutta l’attività processuale debba svolgersi pubblicamente, ma assicura (salve talune specifiche eccezioni) al soggetto che debba far valere i suoi diritti o debba veder determinati i suoi doveri o debba rispondere di un’accusa il diritto ad una pubblica udienza, in tal senso esigendo che il processo debba prevedere un momento di trattazione in un’udienza pubblica, e non che vi si debba tenere tutto lo svolgimento processuale (Cass. 18 luglio 2008, n. 19947). E’ poi orientamento consolidato di questa Corte (Cass. 18 giugno 2012, n. 9983; Cass. sez. un., 20 aprile 2004, n. 7585) che il principio di pubblicità del giudizio, posto dall’art. 6 della C. E. D. U., non è di applicazione assoluta, potendo essere limitato, fermo restando il rispetto dell’inderogabile principio del contraddittorio – oltre che nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata

delle stesse parti del processo anche nell’interesse della giustizia, laddove lo giustifichino esigenze particolari (quale è, per l’appunto, quella concernente la celerità delle controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai, che, come si legge nella Relazione illustrativa al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 26, sono state “ricondotte al rito sommario di cognizione in virtù dei caratteri di semplificazione della trattazione e dell’istruzione della ausa, evidenziati dal rinvio, ad opera della normativa previgente, alla disciplina del procedimento in camera di consiglio, e del resto corrispondenti al circoscritto oggetto che, anche per la sua natura, ne impone altresì la snellezza”.

Deve, inoltre, soggiungersi che il ricorrente appare confondere l’esigenza di dibattere pubblicamente, cioè con libertà d’accesso del pubblico, vicende processuali che, appunto, necessitino – ci si riferisce all’addebito strettamente penale – di un controllo della comunità sull’esercizio della giurisdizione, perchè la giustizia non giunga segreta e misterica e possa essere “controllata” dall’opinione pubblica dal momento della ricostruzione del fatto (la raccolta e formazione, in contraddittorio, della prova) all’epilogo (pubblicità della decisione), con il diritto alla pienezza del contraddittorio, inteso come diritto a provare e contraddire provando e come diritto a interloquire e replicare, all’altrui interlocuzione. Ora, invero, non è dato cogliere quale “vulnus” democratico l’opinione pubblica subisca da un processo diretto al fine di verificare la fondatezza o meno di un addebito disciplinare mosso a un notaio, al quale essa possa accedere solo attraverso la lettura della decisione.

Ancor meno è dato ricollegare quello che il ricorrente qualifica come negazione del proprio diritto a provare con il rito di cui si è detto, stante che la decisione sulla prova non dipende di certo dal rito in parola, ma da valutazioni, in concreto, di altro tipo: il diritto alla prova non è giammai arbitrariamente imposto dal richiedente, ma si concretizza nel procedimento di ammissione svolto dal giudice, attraverso il filtro della rilevanza, della non superfluità e dell’ammissibilità.

Non è inutile, di poi, chiarire che la struttura camerale del procedimento, che contempla l’assenza di pubblico nella udienza camerale, certamente non corrisponde all’idea di un processo “segreto”, o, comunque, privo di pubblicità. Processo, il quale, peraltro, è garantito dal giudizio di cassazione nella forma partecipata (cioè con l’esercizio del diritto di parola in camera di consiglio dei procuratori delle parti e del procuratore generale).

Conforta il ragionamento sin qui svolto l’orientamento di questa Corte a proposito del rito camerale non partecipato di cassazione, essendosi affermato che il nuovo rito predetto, quale tendenziale procedimento ordinario per il contenzioso non connotato da valenza nomofilattica, è ispirato ad esigenze di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso in attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., e art. 6 CEDU, nonchè di quello di effettività della tutela giurisdizionale (Sez. 6, n. 5371, 2/3/2017, Rv. 643480).

4. Con il quarto motivo il notaio De Ma. solleva eccezione d’illegittimità costituzionale della L. n. 89 del 1913, artt. 148,150 bis e 151, per contrasto con l’art. 111 Cost., comma 2, e con l’art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo articolo in relazione all’art. 6 p. 1 CEDU, per violazione del diritto a un equo processo da parte di un tribunale indipendente e imparziale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il ricorrente, dopo aver partitamente illustrato la disciplina che regola la composizione della commissione regionale di disciplina, afferma che essa non rispetta i parametri di imparzialità soggettiva e oggettiva (cioè che la scelta del giudicante sia tale da fare escludere il legittimo dubbio di parzialità, per l’esistenza di vincoli gerarchici o di altro genere “tra l’organo giudicante e gli altri protagonisti del procedimento” e, quindi, che non sia indipendente. In particolare viene stigmatizzata l’interdipendenza tra il soggetto titolare dell’azione disciplinare e il giudicante, la scelta, attraverso elezione, di colleghi dell’incolpato, la dimostrata mancanza di un equo giudizio nel caso concreto, per essere stata disattesa la richiesta di prova orale; la circostanza, infine, che la Corte d’appello, che avrebbe dovuto sanare il “vulnus”, lo aveva, invece, confermato, avendo disatteso l’istanza probatoria.

4.1. L’eccezione è manifestamente infondata.

In primo luogo deve osservarsi che il COREDI, al quale la legge, come si vedrà, assicura adeguate condizioni d’indipendenza e imparzialità, costituisce pur sempre un organo amministrativo, al quale sono devolute funzioni giustiziali. Di conseguenza la pienezza della garanzia giurisdizionale è assicurata dal giudizio che si svolge innanzi alla corte d’appello e un tale organo giudicante non può di certo ragionevolmente essere accusato di essere parziale e non indipendente, o, comunque, anche solo di apparire tale, e successivamente dall’accesso al giudizio di legittimità.

Il ricorrente impropriamente riporta il caso della Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie, la quale, invece, assume compiti propriamente giurisdizionali, tanto che la decisione della predetta Commissione sono solo ricorribili per cassazione. Da qui l’intervento caducatorio operato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 215/2016, a riguardo della composizione della stessa, tale da non garantirne l’indipendenza.

In disparte è appena il caso di soggiungere che la legge, peraltro riportata puntualmente dallo stesso ricorrente, assicura ragionevoli garanzie d’imparzialità e indipendenza alle CO., nel rispetto dell’esigenza ineludibile, connaturata a ogni valutazione giustiziale deontologica, di attingere alla categoria professionale d’appartenenza al fine di comporre il collegio giudicante (il collegio è presieduto da un magistrato, sono previste ipotesi d’ineleggibilità e d’incompatibilità).

Singolarmente eccentrico, infine, risulta l’addebito di mancanza di indipendenza e d’imparzialità, non sanato dalla Corte d’appello, per non essere state ammesse le prove richieste, essendo fin troppo ovvio, ribadendo quanto sopra detto, non essere consentito affermare la parzialità e la non indipendenza del giudicante sol perchè costui, esercitando le funzioni di scrutinio assegnategli dalla legge, non ammetta in tutto o in parte le prove richiesta dalla parte.

5. Con il quinto motivo viene prospettata violazione dell’art. 101 del Testo Unico sul Funzionamento dell’Unione Europea, per non avere la Corte d’appello rimesso “alla Corte di Giustizia (la) questione di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea di una norma quale quella della L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 147, lett. (a), che permette a un’associazione d’imprese di restringere la concorrenza a tutela della dignità dei propri membri ed a tutela del prestigio e del decoro della classe sociale dei propri associati – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

L’art. 147, lett. a), anche in correlazione con l’art. 93 ter, comma 1 bis, della legge notarile, siccome interpretato dalla Corte d’appello, si pone in contrasto con il diritto unionale: era stato impedito al ricorrente di produrre in giudizio “i riscontri formulati dalla propria clientela, circa lo svolgimento delle sue prestazioni professionali”, così da provare la personalità della prestazione e dimostrare l’infondatezza dell’addebito mossogli in quel procedimento; lo Stato è chiamato a conformarsi al diritto dell’Unione, pur ove la difformità derivi dalla interpretazione giurisprudenziale; e l’interpretazione della Corte d’appello di Milano appariva distonica rispetto al diritto dell’Unione, per avere negato al notaio di raccogliere le dichiarazioni dei clienti; le attività notarili, non partecipano all’esercizio dei pubblici poteri, ai sensi dell’art. 51 del TUFUE e, di conseguenza, ad esse si applicava la normativa antitrust; le deroghe di cui agli artt. 106, p. 2 e 51 del TUFUE, secondo la lettura della Corte di Giustizia, devono intendersi di stretta interpretazione (solo ove necessarie al fine di garantire l’adempimento di specifica missione affidata alle imprese incaricate della gestione dei servizi di interesse generale e sempre nel rispetto del parametro della proporzionalità); spetta all’Autorità antitrust verificare, caso per caso, se una misura di ordine deontologico-disciplinare si configuri come “esercizio manifestamente improprio di un siffatto potere”, e dunque come uno “sviamento di tale potere”, che si risolve in un “comportamento restrittivo della concorrenza”.

5.1. La doglianza è infondata.

5.1.1. Occorre premettere che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il quale presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, non ricorre allorchè l’interpretazione sia autoevidente, oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale, a meno che non involga un’interpretazione generale ed astratta (Sez. 5, n. 15041, 16/6/2017, Rv. 644553).

Dubbio che qui non sussiste per le ragioni di già evidenziate ai p.p. 1.1.2. e 1.1.3., alle quali si rimanda, non senza ricordare che la circostanza che il collegio notarile rappresenti associazione d’imprese (costituita dai notai del distretto) non può impedire al consiglio di esercitare l’iniziativa disciplinare, fermo restando la competenza dell’AGCN1 per le attività non direttamente ricollegabili a tale esercizio, quale la raccolta a tappeto di dati economici sensibili.

Il comma 1 bis, aggiunto alla L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 93 ter, (legge notarile) dispone che “Agli atti funzionali al promovimento del procedimento disciplinare si applica la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 8, comma 2”, così espressamente codificando, come si è già detto, principio costituente diritto vivente.

Ciò fa escludere in radice (e così non potrebbe non essere ove si intenda scongiurare un corto circuito istituzionale intollerabile) che la circostanza che il collegio notarile rappresenti associazione d’imprese (costituita dai notai del distretto) impedisca allo stesso il promovimento dell’azione disciplinare e degli atti istruttori ad esso propedeutici o che una tale attività, doverosa per legge, debba previamente o successivamente essere sottoposta al controllo antitrust.

Per contro, è rimesso all’Autorità antitrust verificare se attraverso attività di “screening” di massa, non funzionalmente diretta all’accertamento di condotte passibili di rimprovero disciplinare nei confronti di singoli appartenenti alla categoria professionale, il consiglio notarile ponga in essere, per la natura delle informazioni richieste, implicanti dati economici sensibili, una condotta diretta a incidere sulla libera concorrenza.

5.1.2. L’altro profilo di censura non è correlabile alla denunziata violazione di cui alla rubrica del quinto motivo (non avere la Corte d’appello rimesso “alla Corte di Giustizia (la) questione di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea di una norma quale quella della L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 147, lett. (a), che permette a un’associazione d’imprese di restringere la concorrenza a tutela della dignità dei propri membri ed a tutela del prestigio e del decoro della classe sociale dei propri associati – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”).

Immediatamente più avanti, esaminando il sesto motivo, si chiarirà, cosa che del resto emerge nitidamente dal rimprovero formalizzato con l’atto d’accusa e dalla motivazione della decisione della Corte locale, come l’incolpazione non trovi fondamento nell’esercizio del diritto di difesa, bensì nella indiscriminata, anomala raccolta di dichiarazioni, anche sotto comminatoria della responsabilità penale, richiesta alla clientela, al fine di sollevare il notaio dai suoi obblighi e dalle sue responsabilità, con evidente disdoro della funzione.

6. Con il sesto motivo il notaio D.M. lamenta violazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 6, p. 1CEDU, dell’art. 118 disp. att. c.p.c..

Prospetta il ricorrente che l’incolpazione per la quale il medesimo è stato sanzionato è strettamente dipendente dall’esercizio del diritto di difesa, come tale intangibile.

Con le dichiarazioni raccolte (“indubbiamente mal formulate”) il professionista intendeva difendersi da altra accusa mossagli in altro procedimento disciplinare (gli si contestava difetto di personalità della prestazione e ritardo nella trascrizione). La COREDI, prima e la Corte d’appello, poi, avevano negato il diritto di escutere testimoni al fine di dimostrare che le dichiarazioni raccolte erano direttamente funzionali all’esercizio del diritto di difesa, senza far luogo al doveroso bilanciamento tra la lesione al diritto di difesa che si arrecava e la pretesa lesione al prestigio e al decoro professionale causato dalle predette dichiarazioni. Ciò aveva menomato il diritto al giusto processo, secondo l’interpretazione della Corte EDU, la quale, molto attenta al pieno esercizio del diritto di difesa, ne prescrive l’effettività, anche con riguardo alle modalità di raccolta delle prove.

Per contro “il diritto a provare provando” era stato negato senza alcuna motivazione, così offendendo la regola della parità delle armi nel processo.

Il fatto stesso di aver promosso l’azione disciplinare addebitandosi al notaio l’utilizzo di strumenti difensivi reputati lesivi di regole deontologiche, offendeva la libertà di espressione difensionale in seno al procedimento e aveva il solo scopo di scoraggiare, per il futuro, i notai a difendersi “con ogni mezzo”.

6.1. Il motivo è privo di fondamento.

6.1.1. Risulta utile riprendere il fatto addebitato al professionista e il contenuto della prova per testi richiesta.

Il D.M. in quel procedimento aveva prodotto una serie di dichiarazioni firmate da numerosi clienti, che davanti al predetto notaio avevano, in precedenza, stipulato atti pubblici, tutte esattamente uguali e aventi il medesimo contenuto, riportato dall’ordinanza della Corte di Milano (cfr. p. 1 dell’esposizione del fatto della presente sentenza).

Il Consiglio notarile di Milano aveva formulato nei termini seguenti l’incolpazione, con la quale si addebitava al ricorrente di aver violato l’art. 147, lett. a) della legge notarile (dell’altra violazione dell’art. 147, lett. b – non occorre discorrere, stante che non fu reputata sussistere dalla COREDI):

“1) per avere pattuito coi propri clienti convenzioni circa un’inesistente disponibilità della tempistica di trascrizione degli atti immobiliari;

ib) per avere ottenuto dai propri clienti, in forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, con la conseguente assunzione di responsabilità penali, dichiarazioni inerenti l’obbligatorio svolgimento dell’ordinaria funzione notarile”.

Alle pagg. 7 e 8 del ricorso il D.M. riprende i capitolati di prova non ammessi. Con il primo si chiedeva al teste di confermare che, il medesimo, nella qualità di collaboratore, aveva consigliato al notaio la raccolta delle dichiarazioni al fine di certificare la qualità dello studio notarile; con il secondo, si chiedeva al teste di confermare che le dichiarazioni erano state raccolte a fini difensivi nel procedimento disciplinare e in quello pendente davanti all’AGCM; con il terzo, che i questionari e le dichiarazioni erano stati compilati contestualmente; con il quarto, che le dichiarazioni erano state rilasciate senza costrizione; con il quinto e il settimo, che la redazione delle dichiarazioni era stata consigliata dai legali con finalità probatoria; con il sesto, che il rilascio delle dichiarazioni era avvenuto “senza alcun assembramento nell’ufficio del notaio”.

La Corte d’appello di Milano, confermando la decisone della COREDI, addebita al professionista di avere convocato presso il proprio studio numerosi clienti allo scopo di far loro sottoscrivere, dichiarazioni previamente compilate, prive di riferimento al singolo atto stipulato (di talchè non era neppure ipotizzabile che il convocato avesse “autorizzato il notaio” a posticipare la trascrizione, in violazione dell’art. 2671 c.c.), tutte del medesimo tenore (si ripetono anche i plurimi errori grammaticali), prive della data di sottoscrizione.

Dichiarazioni aventi contenuto tale da ledere i principi deontologici sopra ripresi per plurime e concordanti ragioni: a) il notaio non avrebbe potuto liberarsi dei doveri derivanti dalla legge e dalla funzione pubblica che la stessa gli assegna, in particolare, quanto alla necessità, per ovvi motivi, dello scrupoloso rispetto del termine di trascrizione, che non può non essere contenuto che in pochissimi giorni, a tenore dell’art. 2671 c.c., senza che rilevi l’eventuale “autorizzazione” alla deroga “concessa” dal cliente; b) per avere devoluto al giudizio dell’ignaro e incompetente cliente la qualità della sua prestazione e, in particolare, sull’adempimento del dovere di compiuta illustrazione alle parti del contenuto e del significato giuridico degli atti compilati; c) per avere “approfittato”, quale “contraente forte” della ignoranza, sprovvedutezza e incompetenza del cliente, peraltro indotto a firmare sotto l’impegno della penale responsabilità.

6.1.2. Come sopra si è riportato, il ricorrente ritiene intangibile il “diritto a difendersi con ogni mezzo”, così assumendo che l’aver fatto firmare le dichiarazioni precompilate di cui si discute non avrebbe potuto integrare illecito disciplinare.

L’affermazione, così come formulata, non è condivisibile.

Il diritto di difesa non implica il diritto di esercitarlo con “ogni mezzo”. Tutti i diritti costituzionalmente garantiti, financo il fondamentale diritto d’espressione del pensiero (come insegna antica e autorevolissima dottrina), si esercitano nei limiti del rispetto degli altri.

Così, financo l’imputato, al quale deve riconoscersi, nella forma più estesa, il diritto di difesa (anche mentendo) non può pretendere di difendersi calunniando” diffamando, ingiuriando o oltraggiando.

Il notaio, depositario, per scelta ordinamentale, di pubbliche funzioni di rilievo primario e perciò chiamato ad essere, ma anche ad apparire, oltre che imparziale, competente, aggiornato e diligente, al fine di garantire i diritti dei quali è custode, anche al fine di scongiurare ostacoli ai traffici e il sopravvenire di contenziosi giudiziari, non può rivendicare il diritto di difendersi violando la legge. In particolare ledendo la propria dignità e reputazione o il decoro e prestigio della classe notarile. Lesione derivante, come si è detto, dalle modalità di compilazione, dal contenuto delle dichiarazioni e dal sistema e dai tempi di raccolta delle sottoscrizioni.

Risulta sbrigativo ed erroneo l’asserto secondo il quale i valori violati sarebbero comunque di rango inferiore rispetto al diritto di difesa. Una tale subalternità, espressa nei termini categorici e generali riportati, è da escludere, ove si tenga conto dei beni tutelati dal presidio delle regole deontologiche imposte ai notai, necessarie “per preservare l’integrità della funzione notarile, che sarebbe compromessa ove i consociati potessero anche solo dubitare della affidabilità di chi è preposto a certificare gli atti con valore di pubblica fede” (Corte Costituzionale, n. 18/2003). Dubbio che qui apparirebbe più che giustificato, dubbio che investirebbe, per traslazione inevitabile, l’intera categoria e funzione. Agli occhi dello stipulante, pur ove culturalmente e tecnicamente attrezzato, l’immagine di un notaio, legittimato dal “diritto di difendersi”, che lo richiama in studio, chiedendogli d’impegnarsi penalmente a sottoscrivere una dichiarazione precompilata, attestante che la condotta di esso notaio, tenuta in occasione di una non indicata stipulazione, fosse stata irreprensibile e che esso notaio fosse stato (ora per allora) autorizzato a violare l’art. 2671 c.c., non solo quel notaio, ma l’intera categoria di appartenenza e la funzione stessa svolta risulterebbero inaffidabili.

6.1.3. Il ricorrente ritiene, inoltre, essere stato leso il suo diritto “a provare provando”, poichè la Corte d’appello aveva negato l’ammissione della prova per testi richiesta, senza alcun supporto motivazionale.

“Il diritto di provare, provando” si esercita, ovviamente, secondo le regole processuali, le quali condizionano lo stesso, oltre che al rispetto delle barriere preclusive, alla verifica di ammissibilità giudiziale, anche sotto il profilo della rilevanza e della non superfluità.

Qui, venendo in rilievo solo il vaglio di rilevanza, alla luce di quel che fin qui si è andato precisando, la prova per testi richiesta appariva radicalmente priva di rilevanza, non dipendendo in alcun modo dal risultato di essa la fondatezza della incolpazione disciplinare. Invero, pur ammesso che quelle dichiarazioni (malfatte, come riconosce lo stesso ricorrente) fossero state predisposte su consiglio di legali o consulenti, al fine di dimostrare che il notaio non avesse commesso gli addebiti disciplinari che gli si muovevano in quell’altro procedimento, che non fossero state estorte con violenza o minaccia e che i clienti fossero stati chiamati in studio ordinatamente, senza creare accalcamento, non v’è dubbio che lo strumento non era in grado di raggiungere lo scopo (in altri termine era irrilevante), non potendosi il notaio liberare, in tutto o in parte, dai propri doveri, facendo dichiarare ai clienti di essere soddisfatti della sua prestazione e dei tempi impiegati dal rogante per far luogo alla trascrizione o addebitando a responsabilità di chi ebbe a consigliare la predisposizione degli stampati fatti firmare agli assistiti, essendo egli dotato di adeguate conoscenze tecnico-giuridiche per potere giudicare la contrarietà della scelta ai principi deontologici, oltre che inconducente.

Proprio per queste ragioni (e non immotivatamente) la Corte d’appello non ha ammesso la prova per testi richiesta. Alle pagg. 14 e 15 la decisione impugnata evidenzia compiutamente che il notaio è “persona competente in ambito giuridico non meno degli avvocati”, il cui consiglio avrebbe seguito e, inoltre, non può pattuire esoneri “contra legem” con gli stipulanti.

7. Con il settimo motivo il ricorrente censura la decisione della Corte d’appello contestando la violazione della L. n. 89 del 2013, art. 153, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere rigettato l’eccezione d’intempestività dell’atto d’impulso dell’azione disciplinare.

Assume il notaio che l’ordinanza aveva respinto l’eccezione con la quale si era dedotto che il promovimento dell’azione disciplinare era avvenuto con sette mesi di ritardo, a fronte della disposizione di legge, la quale prevede che esso avvenga “senza indugio”, con una motivazione in diritto, facente leva sulla natura derogabile del termine, senza prendersi cura di spiegare perchè, in fatto, l’autorità procedente avesse avuto bisogno di sette mesi per formulare l’accusa disciplinare.

Inoltre il ricorrente reputa contraddittoria e non persuasiva la tesi secondo la quale il termine fissato dal legislatore fosse non inderogabile, così frustrando l’esigenza di procedere celermente, sol che lo voglia l’autorità disciplinare.

Ove la Corte d’appello fosse entrata, come era suo dovere “nel merito della valutazione”, avrebbe dovuto spiegare perchè fosse stato necessario un sì lungo lasso di tempo.

7.1. La doglianza è fondata.

Questa Corte ha affermato che i termini della fase amministrativa del procedimento sono ordinatori, in mancanza di una espressa qualificazione di perentorietà, per cui deve escludersi che la L. n. 89 del 1913, art. 153, comma 2, nello stabilire che l’organo dotato d’iniziativa debba procedere senza indugio, comporti la decadenza o l’estinzione dell’azione intempestiva (Sez. 2, n. 9041/2016, Rv. 639766).

Epperò la circostanza che i termini siano ordinatori non equivale ad affermare che l’azione disciplinare possa essere iniziata in ogni tempo, “ad libitum”” anche a distanza di anni dall’avvenuta conoscenza del fatto disciplinarmente rilevante.

Una tale estrema interpretazione, oltre a contrastare la “ratio legis”, colliderebbe con il diritto a conoscere in un tempo ragionevole, anche al fine di potersi ben difendere, l’accusa disciplinare formalizzata.

L’immanenza del principio trova conferma nella disciplina processuale penale (artt. 405 e 406 c.p.p.) la quale, nonostante si tratti di esercitare obbligatoriamente l’azione penale, che, com’è ovvio, concerne fatti di ben maggiore disvalore sociale, impone al pubblico ministero di esercitare l’azione (se del caso anche chiedendo l’archiviazione) in un tempo predeterminato dalla legge, a seconda del tipo e della gravità del reato perseguito.

Pur vero che la chiusura del sistema è presidiata dalla prescrizione (L. n. 89 del 1913, art. 146, siccome riformulato con il D.Lgs. n. 259 del 2006), ma la necessità che le indagini e le valutazioni propedeutiche alla determinazione di esercitare l’azione disciplinare, a prescindere dall’estinzione dell’illecito per effetto del decorso della prescrizione, debbano essere concluse in un tempo ragionevole, cioè giustificato dalla natura dell’illecito e dagli approfondimenti da svolgere, assolve a una finalità che, sibbene affine, è peculiare. La pendenza di una tale fase, infatti, produce, ex se un inevitabile pregiudizio indiretto sulla vita e sull’esercizio della professione del notaio assoggettato, oltre a rendere via via più difficile per quest’ultimo (il quale ancora non conosce i termini esatti della futura incolpazione) approntare adeguata difesa.

Di conseguenza, la Corte d’appello, pur avendo correttamente affermato la derogabilità del termine, avrebbe dovuto accertare se il tempo impiegato per avviare il procedimento disciplinare, tenuto conto di ogni elemento utile a un tale giudizio, potesse considerarsi adeguato, in relazione all’esigenza di celerità, indubbiamente imposta dall’espressione “senza indugio”.

Ciò posto, la decisione deve essere cassata con rinvio sul punto, perchè il Giudice del rinvio si adegui al principio di diritto sopra enunciato.

8. Con l’ottavo motivo il ricorrente si duole della violazione della L. n. 89 del 1913, art. 147, nonchè dell’art. 4, Protocollo n. 7, alla Carta edu, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo la prospettazione impugnatoria la Corte d’appello aveva violato il principio del “ne bis in idem”, così come interpretato dalla Corte edu.

La condanna disciplinare si fondava sui medesimi fatti già giudicati nell’altro procedimento, in seno al quale erano state prodotte le dichiarazioni di cui oggi si discute, quindi, si trattava di un “bis”. La condotta materiale, intesa in senso storico-naturalistico, era la stessa, quindi si era in presenza di un “idem”. A ciò andava ad aggiungersi il carattere sostanzialmente penale dell’addebito e l’unicità della vicenda, essendo venuti in rilievo documenti prodotti in altro giudizio.

Inoltre, soggiunge il ricorrente, la decisione impugnata si poneva in contrasto con il giudicato interno.

La COREDI aveva assolto il notaio dall’addebito di aver violato la L. n. 89 del 1913, art. 147, lett. b), che impone al notaio di “conformare la propria condotta professionale ai principi dell’indipendenza e dell’imparzialità e al paragrafo 14 che censura la ricorrente utilizzazione di clausole di dispensa limitatrici dell’incarico professionale ai fini della limitazione della responsabilità”, essendosi reputata occasionale la condotta. Pertanto, dovevasi reputare incongrua la decisione, prima della CO. e poi della Corte d’appello, che, nonostante la constatata occasionalità, aveva giudicato il notaio colpevole della violazione di cui all’art. 147, lett. a), della medesima legge.

8.i. La censura è manifestamente destituita di giuridico fondamento.

In disparte la non condivisibile assimilazione, “tout court”, del rimprovero disciplinare a quello penale (Sez. 2, n. 2927/2017), è del tutto evidente che non si versi nell’ipotesi del “bis in idem”.

I fatti, invero, sono radicalmente diversi: nell’altro procedimento disciplinare si muovevano al notaio ben altri rimproveri (mancata personalità della prestazione, mancata illustrazione del contenuto e del significato giuridico dell’atto alle parti). Quel procedimento costituì solo l’occasione di quello di cui oggi si discute, perchè in quel procedimento il notaio produsse quelle dichiarazioni a stampo, firmate da un certo numero di parti di atti notarili, in precedenza rogati dal professionista, e alla conoscenza d’esse l’organo di promozione dell’azione disciplinare ritenne di agire. Sarebbe come dire, facendo le debite distinzioni, che un processo penale, che nasca dalle dichiarazioni rese in aula da un soggetto processuale, o per fatti in aula accaduti, resti coperto dal “bis in idem” derivante dal giudizio concernente quel processo che l’occasionò.

Non meno infondato appare il secondo profilo di censura. Invero non è dato cogliere in che consista la contraddizione e, ancor meno, il giudicato interno. La circostanza che il ricorrente sia stato scagionato dalla incolpazione di cui all’art. 147 cit., lett. b), non implica affatto che avrebbe dovuto esserlo dall’altra, e diversa, incolpazione di cui all’art. 147, lett. a), essendo stata giudicata dirimente l’occasionalità della condotta solo a riguardo della prima incolpazione.

9. Col nono motivo viene dedotta violazione della L. n. 89 del 1913, art. 147, e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Spiega il ricorrente che la Corte d’appello si era impegnata a escludere la sussistenza di continuazione (peraltro, anche con una motivazione, almeno in parte, illogica). Il reclamante, invece, aveva chiesto al Giudice di applicare la più mite sanzione della censura, trattandosi di vicenda sostanzialmente unica e comportando la terza sospensione dall’esercizio della professione la destituzione automatica.

Le attenuanti generiche, di poi, erano state negate sulla scorta della seguente motivazione: “il notaio non ha mostrato resipiscenza nel comportamento”,.; motivazione che andava giudicata inconferente. Invero, rispetto ai fatti contestati, sulla base delle prodotte dichiarazioni, non era stata accertata alcuna recidiva.

9.1. Il motivo può essere accolto nei termini di cui appresso.

9.1.1. Il secondo profilo, con il quale il ricorrente lamenta la mancata applicazione delle attenuanti generiche, è fondato per quanto segue.

Dispone l’art. 144, della legge notarile: “1. Se nel fatto addebitato al notaio ricorrono circostanze attenuanti ovvero quando il notaio, dopo aver commesso l’infrazione, si è adoperato per eliminare le conseguenze dannose della violazione o ha riparato interamente il danno prodotto, la sanzione pecuniaria è diminuita di un sesto e sono sostituiti l’avvertimento alla censura, la sanzione pecuniaria, applicata nella misura prevista dall’art. 138 bis, comma 1, alla sospensione e la sospensione alla destituzione.

1-bis. Nell’ipotesi di cui all’ultimo periodo dell’art. 142 bis, comma 1, la sospensione per un anno è sostituita alla destituzione solo se il notaio ha riparato interamente il danno e non è recidivo nella stessa infrazione.

2. Per le infrazioni di cui all’art. 138 bis, se ricorre una delle ipotesi attenuanti di cui al comma 1, del presente articolo, il notaio è assoggettato ad un’unica sanzione pecuniaria, non inferiore ai due terzi della misura massima prevista dallo stesso art. 138 bis, comma 1”.

Occorre premettere che il tenore della censura per essere stata negata l’applicazione delle attenuanti in parola risulta inequivoco, nonostante che il ricorrente non abbia nella rubrica espressamente indicato la norma violata, peraltro di univoca e agevole individuazione.

La questione non pone un’inammissibile critica alla giustificazione motivazionale, ma lo scrutinio afferente a una falsa applicazione di legge.

Sul punto, non vi sono ragioni per discostarsi dall’orientamento già espresso da questa Corte, a mente del quale la mancata concessione delle attenuanti generiche è rimessa alla discrezionale valutazione del giudice, che può concederle o negarle, dando conto della scelta con adeguata motivazione, ai fini della quale non è necessario prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’incolpato, essendo sufficiente la giustificazione dell’uso del potere discrezionale con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (Sez. 6, n. 11790, 27/05/2011, Rv. 618160).

Difatti, l’accoglimento della doglianza non è giustificato da un’alternativa motivazione, bensì dalla falsa applicazione del citato art. 144.

Come risulta dalla disposizione riportata, il riconoscimento dell’attenuazione di pena deve essere applicato (la legge non dice “può”) ove ricorra, anche solo alternativamente, uno dei seguenti casi: “se nel fatto addebitato al notaio ricorrono circostanze attenuanti”, “quando il notaio, dopo aver commesso l’infrazione, si è adoperato per eliminare le conseguenze dannose della violazione o ha riparato interamente il danno prodotto”.

La Corte di Milano, al fine di negare l’applicabilità delle attenuanti generiche addebita al notaio mancanza di “resipiscenza nel comportamento”.

Ora, non è dato comprendere che condotta resipiscente avrebbe potuto tenere il notaio in relazione ai fatti che in questo processo gli sono addebitati, non constando che egli avrebbe potuto compensare il danno al decoro suo e alla dignità della professione in qualche apprezzabile modo.

In definitiva la statuizione della Corte di Milano intende la resipiscenza avere un contenuto diverso da quello predefinito dal legislatore, il quale “premia” la successiva condotta utilmente riparatoria del notaio. Condotta che nel caso al vaglio si riesce ad ipotizzare, in difetto di una logica spiegazione, atteso che il rimprovero disciplinare attiene ad un’attività “difensiva”, ritenuta anomala, svolta in sede disciplinare e non attiene all’ordinario svolgimento dell’attività professionale. La decisione ha finito, quindi, per negare la ricorrenza delle attenuanti addebitando all’incolpato una condotta non esigibile, perchè non praticabile in concreto. Avrebbe invece dovuto escludere la ricorrenza, “nel fatto addebitato” di “circostanze attenuanti”, cioè di fatti che attenuino il disvalore dell’illecito o la carica di colpevolezza.

S’impone, pertanto, la cassazione della decisione sul punto, restando assorbito il primo profilo, con il quale il ricorrente si duole della scelta qualitativa della sanzione.

10. Il Giudice del rinviò regolerà le spese anche del presente giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il settimo e, nei sensi di cui in motivazione, il nono motivo di ricorso; rigetta gli altri motivi. Cassa l’ordinanza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano, altra sezione.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021

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