Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7050 del 24/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 24/03/2010, (ud. 04/02/2010, dep. 24/03/2010), n.7050

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13335-2006 proposto da:

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 646/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/05/2005 R.G.N. 6742/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/02/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 14 maggio 2005, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza n. 6919/02, con la quale il Tribunale della medesima città aveva respinto le domande proposte da G. M. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dirette ad ottenere la declaratoria di nullità del termine (o della relativa proroga) apposto ai contratti di lavoro, intercorsi tra le parti ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 e in pretesa attuazione dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. 26 novembre 1994, come integrato dall’accordo sindacale del 25 settembre 1997, nei seguenti periodi:

dal 2 febbraio al 30 aprile 1998 (con proroga di ulteriori trenta giorni), per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”;

dal 1 luglio al 30 settembre 1998 (con proroga di cinque giorni “per la necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre”;

dal 7 novembre 1998 al 30 gennaio 1999 (con proroga al 31 marzo 1999), per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Partendo dalla considerazione della portata innovativa della L. n. 56 del 1987, art. 23 che attribuirebbe alle OO.SS. ivi considerate una sorta di delega in bianco quanto alla individuazione di ipotesi aggiuntive di possibile stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, svincolate dai connotati propri di quelle di cui alla L. n. 230 del 1962, la Corte territoriale ha ritenuto perfettamente legittime ai sensi del citato art. 23 le causali utilizzate dalle Poste Italiane nel caso in esame, in quanto previste e predeterminate dai contraenti collettivi ed ha escluso, in particolare, che l’efficacia di quella delle causali contrattuali utilizzata nel terzo dei contratti individuali indicati fosse stata dalle OO.SS. limitata nel tempo.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione G. M., affidandolo a cinque motivi, illustrati poi con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

La s.p.a. Poste Italiane ha resistito alle domande con proprio controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Col primo motivo, relativo al terzo contratto inter partes, la parte ricorrente deduce l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione della sentenza in ordine a “un punto decisivo, relativo alla cessazione della (presunta) efficacia dell’ipotesi collettiva richiamata nel contratto di lavoro inter partes a giustificare l’apposizione di un termine” nonchè la violazione dell’art. 132 c.p.c., artt. 1362, 1363 e 1367 cod. civ. in relazione alla interpretazione degli accordi collettivi del 25 settembre 1997, 16 gennaio 1998 e 29 aprile 1998 nonchè del verbale di riunione del 18 gennaio 2001 e infine degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Ulteriore omissione di motivazione su di un punto decisivo.

In proposito, la difesa del lavoratore sostiene che la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale stabiliti dal codice civile laddove ha ritenuto che gli “accordi collettivi attuativi” in materia di contratti a termine stipulati nel 1997 e nel 1998 non avessero stabilito nella data del 30 aprile 1998 un termine massimo di efficacia con riguardo alla causale in questione, di apposizione di un termine al rapporto di lavoro, sostenendo il proprio assunto con una motivazione contraddittoria e comunque insufficiente.

La Corte non avrebbe, tra l’altro, mai analizzato il contenuto di tali accordi di attuazione, attribuendo apoditticamente agli stessi un mero valore ricognitivo.

Infine, la Corte non avrebbe rilevato che nella causale del termine, indicata nel contratto di lavoro intercorso tra le parti, era scomparso ogni riferimento, pur presente nella norma collettiva, alla trasformazione della natura giuridica dell’Ente, del resto già avvenuta da alcuni anni, così omettendo una qualche motivazione sul punto.

2 – Col secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione della sentenza impugnata nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c. e della L. n. 56 del 1987, art 23.

L’ipotesi utilizzata per l’apposizione nel caso di specie di un termine al contratto di lavoro avrebbe dovuto essere prevista, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 unicamente da contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, mentre nel terzo contratto di lavoro tra le parti, la causale indicata non era stata prevista dal C.C.N.L. ma da un accordo di tre anni successivo, sottoscritto, come anche gli accordi attuativi, solo da tre delle quattro sigle sindacali che avevano sottoscritto il C.C.N.L. del 1994, quando quest’ultimo era in imminente scadenza.

3 – Col terzo motivo di ricorso, viene denunciato il vizio di motivazione della sentenza nonchè la violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 3 e dell’art. 1362 e ss. c.c. con riguardo al primo e al terzo contratto intercorso tra le parti.

Erroneamente e in violazione delle norme di legge indicate in rubrica, la Corte avrebbe ritenuto che l’ampiezza della delega rimessa dal legislatore alle parti collettive escluda la necessità per la società di provare il nesso causale tra il singolo contratto e la specifica esigenza temporanea, essendo consentito individuare in astratto le condizioni per il ricorso alle assunzioni a termine, in quanto il legislatore avrebbe ritenuto sufficiente garanzia di legalità la valutazione operata da parti sociali particolarmente qualificate e l’imposizione per legge di un tetto percentuale alle assunzioni.

4 – Col quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione della L. n. 230 del 1962, art. 3 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 e art. 112 c.p.c. nonchè il vizio di motivazione della sentenza in ordine alle censure svolte con riguardo alla clausola appositiva del termine al secondo contratto tra le parti.

In proposito infatti, la società aveva omesso di indicare nel contratto il nominativo del dipendente sostituito per ferie nonchè di provare, ritenendolo fatto notorio, la diminuzione di personale per ferie nel periodo indicato nei contratti nonchè la sussistenza di una carenza di organico determinata dalla assenza per ferie, per cui la Corte territoriale avrebbe dovuto sanzionare tale comportamento processuale, accogliendo la domanda relativa a tali contratti.

5 – Infine, col quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione della L. n. 230 del 1962, artt. 2 e 3 e degli artt. 1362 e 1363 c.c. e art. 112 c.p.c. nonchè vizio di motivazione in ordine al capo della sentenza che aveva respinto il gravame anche con riferimento alla proroga del primo e del terzo contratto a termine, nonostante che la società non avesse dimostrato l’esistenza di esigenze contingenti e imprevedibili a giustificare la proroga.

Il ricorso conclude con la richiesta della cassazione della sentenza, con pronuncia di questa Corte direttamente nel merito, secondo le conclusioni ivi riprodotte.

Dei cinque motivi, che conviene esaminare congiuntamente, per evidenti ragioni di connessione, è fondato il primo, mentre il secondo, il terzo e il quarto sono infondati e l’ultimo è in parte inammissibile e in parte assorbito.

Va infatti premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al rapporto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette, di per sè, unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063), senza necessità di un accertamento a posteriori in ordine alla effettività delle stesse.

Nel ribadire tale consolidato orientamento, il collegio valuta pertanto come infondati il terzo e il quarto motivo di discorso.

Quanto al tipo di contrattazione collettiva autorizzata a tale ampliamento, il della L. n. 56, citato art. 23 si esprime in termini di “apposizione di un termine … consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

La legge, come è evidente dal tenore letterale della stessa e dalla relativa ratio (che è quella di affidare a organizzazioni sindacali ampiamente rappresentative la valutazione di ipotesi di apposizione del termine che costituiscano una mediazione apprezzabile rispetto agli interessi coinvolti), non distingue a seconda che si tratti di un contratto collettivo stipulato ad hoc oppure in occasione dei periodici rinnovi della disciplina collettiva dei rapporti di lavoro a livello nazionale ed eventualmente locale.

Comunque, nel caso in esame si tratta di accordi collettivi di integrazione di un periodico contratto collettivo nazionale di disciplina dei vari aspetti del rapporto, per cui appare, anche per ciò, infondata la censura formulata col secondo motivo di ricorso.

Come ricordato dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo per l’assunzione di unità con contratto a termine, secondo il quale “in relazione all’art. 8 del C.C.N.L., così come integrato con accordo 25 settembre 1997, le parti si danno atto che fino al 31 gennaio 1998, l’impresa si trova nella situazione che precede, dovendo affrontare il processo di ristrutturazione della sua natura giuridica con conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”.

Con successivo accordo attuativo del 16 gennaio 1998, le medesime parti, sempre con riferimento all’integrazione dell’art. 8 del contratto collettivo del 1994 operata dai successivi accordi sottoscritti con le OO.SS. stipulanti il C.C.N.L., si erano dato “atto che l’impresa continua a trovarsi nella situazione di cui all’integrazione stessa, dovendo concludere il processo di trasformazione della sua natura giuridica e della conseguente ristrutturazione aziendale e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di trattative”, autorizzando conseguentemente l’impresa a procedere ad assunzioni a termine fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr. per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati, in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, con tali accordi le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998 della situazione descritta nell’accordo integrativo, per cui, per far fronte alle esigenze in quest’ultima sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto, ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nella sentenza di merito sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati da questa Corte nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

Ancorchè si tratti nel caso in parola della interpretazione di contratti e accordi collettivi di diritto comune, rispetto alla quale non possono di regola configurarsi precedenti in senso tecnico, va peraltro qui ribadito che “il richiamo al suindicato quadro normativo di livello istituzionale appare nondimeno pertinente, perchè, da un lato, lo stesso controllo di logicità del giudizio trova, in parte qua, le proprie coordinate nelle disposizioni di legge in tema di ermeneutica contrattuale, le quali, suscettibili di lettura diretta da parte del giudice della nomofilachia, costituiscono obbligato punto di riferimento nella ricerca e nell’identificazione dei punti decisivi per la ricostruzione della effettiva volontà delle parti stipulanti; e, dall’altro, le clausole delle suddette fonti negoziali, per la loro riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e per il loro carattere sostanzialmente normativo, non sono assimilabili completamente a quelle di qualsivoglia contratto o accordo, sicchè, neanche riguardo ad esse è trascurabile il fine di assicurare ai potenziali interessati, per quanto possibile e per quanto non influenzato dalle insopprimibili peculiarità di ciascuna fattispecie, quella reale parità di trattamento che si fonda sulla stabilità degli orientamenti giurisprudenziali, specialmente sollecitata quando, come nella specie, assuma icastica evidenza l’identità dei percorsi logici seguiti nelle decisioni progressivamente portate all’esame del giudice di legittimità e dei contesti difensivi nei quali tali decisioni risultano calate” (cfr.

Cass. 29 luglio 2005 n. 15969 e 1 ottobre 2007 n. 20608).

In base alle considerazioni svolte, va accolto il primo motivo di ricorso Quanto al quinto motivo, va preliminarmente ribadito, in conformità alla giurisprudenza prevalente di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. 16 aprile 2008 n. 9993, 23 agosto 2007 n. 17933, 29 settembre 2006 n. 21132, 28 giugno 2006 n. 14877, 5 aprile 2006 n. 7966, 7 dicembre 2005 n. 26989, 6 agosto 2004 n. 15297, 26 maggio 2003 n. 8366), che la disciplina della proroga dei contratti a tempo determinato stabilita dalla L. n. 230 del 1962, art. 2, si applica anche alle ipotesi di contratto a termine individuate dalla contrattazione collettiva a norma della L. n. 56 del 1987, art. 23, in ragione del carattere aggiuntivo di tali ipotesi rispetto a quelle tassativamente indicate dalla L. n. 230, art. 1, cui l’art. 2, riferisce la disciplina delle proroga, come emerge dalla formulazione del suddetto art. 23.

La L. n. 230 del 1962, art. 2, stabilisce, come è noto, che “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga sia richiesta da esigenze contingenti e imprevedibili e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato ai sensi del comma 2, dell’ari precedente”.

Sulla base di tale disposizione, la legittimità della proroga del termine apposto al contratto di lavoro è pertanto subordinata al concorrere di due condizioni, tra di loro connesse, costituite dall’identità dell’attività lavorativa rispetto a quella per la quale il contratto è stato stipulato e dalla ricorrenza di esigenze contingenti ed imprevedibili, comunque diverse da quelle che costituivano la ragione dell’iniziale contratto (cfr. Cass. nn. 17933/07 cit. 24866/06, 10140/05, 10189/02 ed altre che si esprimono in termini di esigenze ontologicamente diverse da quelle iniziali).

Nel caso in esame, con riguardo alla proroga del primo contratto tra le parti, la ricorrente, non contestando il requisito dell’identità dell’attività lavorativa, deduce la mancata prova delle ragioni addotte a sostegno della sussistenza di ragioni contingenti e imprevedibili.

Poichè viceversa la sentenza impugnata afferma che tali esigenze (conseguenti alla tardiva approvazione del piano di impresa) erano in atti documentate, la censura della ricorrente andava, a pena di inammissibilità, specificata in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui., cfr., recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09).

Inoltre la ricorrente nega l’idoneità dei fatti rappresentati in giudizio dalla società a costituire eventi contingenti e imprevedibili, con una valutazione di merito che sostanzialmente che si sovrappone a quella operata dalla Corte territoriale e come tale estranea al controllo di legittimità demandato a questa Corte di cassazione.

Infine resta assorbito l’esame della proroga relativa terzo contratto di lavoro, volta che si è valutato illegittimo lo stesso termine inizialmente apposto.

Concludendo, alla stregua delle considerazioni svolte va accolto il primo motivo di ricorso, respinti il 2^ il terzo e il quarto, in parte dichiarato inammissibile e in parte assorbito il quinto; la sentenza impugnata va cassata relativamente al motivo accolto.

Gli atti vanno pertanto trasmessi alla Corte d’appello di Roma, che, in diversa composizione, stabilirà le conseguenze connesse alla illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro tra le parti, alla stregua delle relative richieste, determinando altresì il regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso e accoglie il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2010

 

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