Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 705 del 18/01/2021

Cassazione civile sez. lav., 18/01/2021, (ud. 14/10/2020, dep. 18/01/2021), n.705

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21248/2014 proposto da:

I.S.P.R.A. – ISTITUTO SUPERIORE PER LA PROTEZIONE E LA RICERCA

AMBIENTALE, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– ricorrente –

contro

F.M., N.L., G.M., elettivamente domiciliati

in ROMA, CORSO D’ITALIA N. 97, presso lo studio dell’avvocato PIETRO

ADAMI, che li rappresenta e difende;

P.R., S.O., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato

EMILIA SPINIELLO, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato MICHELE DENICOLO’;

– controricorrenti –

e contro

M.G.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3069/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/05/2014 R.G.N. 9310/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PIETRO ADAMI;

udito l’Avvocato EMILIA SPINIELLO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma delle sentenze n. 18356/2009 e n. 7731/2010 con le quali il Tribunale della stessa sede aveva respinto tutte le domande proposte dai litisconsorti indicati in epigrafe nei confronti dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – I.S.P.R.A. -, ha dichiarato “il diritto degli appellanti al riconoscimento dell’anzianità di servizio dal novembre 2005”.

2. La Corte territoriale, per quel che ancora rileva in questa sede, ha premesso che gli originari ricorrenti, previo espletamento di procedura concorsuale, erano stati assunti con contratti a tempo determinato della durata di dodici mesi, contratti poi prorogati sino al 1 giugno 2009, data in cui erano state ultimate le procedure di stabilizzazione previste dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519 e dalla L. n. 244 del 2007, art. 3, commi 90, 92 e 94, all’esito delle quali gli assunti a termine erano stati definitivamente immessi nel ruolo organico dell’ente.

3. Il giudice d’appello ha richiamato giurisprudenza della Corte di Giustizia ed ha ritenuto che il mancato riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata sulla base dei contratti a tempo determinato violasse il principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, perchè non giustificato da ragioni oggettive.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’ISPRA sulla base di tre motivi ai quali hanno opposto difese, con un primo controricorso depositato il 9 ottobre 2014, F.M., G.M. e N.L. nonchè, con controricorso depositato il 30 ottobre 2014, P.R. e S.O.. E’ rimasto intimato M.G.M..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, l’Istituto denuncia “violazione e/o falsa applicazione della legislazione comunitaria e nazionale in tema di retribuzione dei lavoratori pubblici e dei lavoratori a termine nonchè del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 36 e 45, in combinato disposto con il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 6 e della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519; erronea interpretazione dell’art. 4, comma 5, del c.c.n.l. Comparto Enti di ricerca e sperimentazione del 5/3/1998 e dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP recepito con la direttiva 1999/70/CE; art. 2697 c.c..; insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia” e addebita alla Corte territoriale di non avere colto la ratio decidendi delle pronunce della Corte di Giustizia la quale, in realtà, ha ritenuto che la presenza di ragioni oggettive giustifichi una diversità di trattamento tra assunti a termine e lavoratori a tempo indeterminato. Sostiene che era onere degli originari ricorrenti allegare e dimostrare l’identità delle mansioni svolte prima e dopo la stabilizzazione e che detto onere non era stato assolto nella fattispecie perchè l’unica documentazione in atti era quella depositata dallo stesso istituto. Rileva che la stabilizzazione, che costituisce una forma straordinaria di reclutamento, perchè deroga alla regola del pubblico concorso, non comporta la conversione dell’originario contratto a termine nè fa venir meno il frazionamento del rapporto di lavoro tra le parti. Aggiunge, infine, che nel comparto degli enti di ricerca la progressione stipendiale non è legata alla sola anzianità, bensì è subordinata anche all’esito positivo delle verifiche imposte dalla clausola contrattuale richiamata in rubrica.

2. Con la seconda censura il ricorrente denuncia, sotto altro profilo, la violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 519 e sostiene che attraverso le procedure di stabilizzazione il legislatore ha inteso perseguire finalità di politica sociale che giustificano, ai sensi della richiamata clausola 4, la disparità di trattamento. Insiste poi nel fare leva sulla soluzione di continuità fra il contratto a termine e l’assunzione a tempo indeterminato, dalla quale discende l’infondatezza della pretesa inerente la conservazione dell’anzianità maturata nel primo rapporto.

3. La violazione della L. n. 296 del 2006, è denunciata anche con il terzo motivo, che addebita alla Corte territoriale di avere realizzato con la pronuncia una discriminazione in danno dei dipendenti assunti ab origine a tempo indeterminato, violando in tal modo l’art. 3 Cost..

4. Sono infondate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dai controricorrenti.

I requisiti imposti dall’art. 366 c.p.c., sono funzionali a consentire alla Corte di Cassazione di comprendere il tenore delle censure e di apprezzare la rilevanza, quanto alla definizione della controversia, delle questioni prospettate nel ricorso. La valutazione sulla completezza dell’esposizione dei fatti contenuta nell’atto introduttivo deve essere, quindi, effettuata considerando il fine che il requisito mira ad assicurare e contemperando l’esigenza di fornire alla Corte tutti gli elementi necessari ai fini della decisione con quella della doverosa sinteticità degli atti processuali.

Ne discende che, come evidenziato dalle Sezioni Unite, la esposizione sommaria dei fatti di causa non richiede nè la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali nè che “si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s’è articolata” (così in motivazione Cass. S.U. 11.4.2012 n. 5698), essendo sufficiente una sintesi della vicenda “funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata”. Le stesse Sezioni Unite hanno significativamente aggiunto che “il ricorso non può dirsi inammissibile quand’anche difetti una parte formalmente dedicata all’esposizione sommaria del fatto, se l’esposizione dei motivi sia di per sè autosufficiente e consenta di cogliere gli aspetti funzionalmente utili della vicenda sottostante al ricorso stesso”.

Sviluppando i richiamati principi, questa Corte ha anche evidenziato che il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, può essere assicurato attraverso la riproduzione del testo integrale della sentenza d’appello, purchè quest’ultima contenga la sintesi dello svolgimento del processo e un’esposizione chiara della questione controversa (Cass. n. 21137/2013).

Detto orientamento, condiviso dal Collegio e qui ribadito, porta ad escludere che nella fattispecie il ricorso possa essere ritenuto inammissibile nella sua interezza per difetto dei requisiti prescritti dall’art. 366 c.p.c., perchè la sintesi della vicenda processuale esposta nella decisione gravata, apprezzata unitamente allo sviluppo dei motivi di ricorso, consente di individuare esattamente quale sia la questione giuridica sulla quale il giudice di legittimità è chiamato a pronunciare e permette di coglierne la rilevanza nella controversia.

5. I motivi, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati, nella parte in cui addebitano alla Corte territoriale di avere basato la decisione su un’interpretazione errata della normativa, nazionale e Eurounitaria, che viene in rilievo, e sono inammissibili quanto alle doglianze che, sotto l’apparente deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurano l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale.

Questa Corte si è già pronunciata sulla questione del riconoscimento dell’anzianità maturata sulla base di contratti a termine dai dipendenti degli enti di ricerca, successivamente stabilizzati ai sensi della L. n. 296 del 2006 e, sulla base delle medesime ragioni che hanno portato ad accogliere analoghe domande proposte dal personale docente ed amministrativo della scuola, ha affermato che in tal caso al lavoratore “deve essere riconosciuta l’anzianità di servizio maturata precedentemente all’acquisizione dello status di lavoratore a tempo indeterminato, allorchè le funzioni svolte siano identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito del contratto a termine, non potendo ritenersi, in applicazione del principio di non discriminazione, che lo stesso si trovasse in una situazione differente a causa del mancato superamento del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della P.A., mirando le condizioni di stabilizzazione fissate dal legislatore proprio a consentire l’assunzione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione poteva essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo” (Cass. n. 27950/2017; negli stessi termini Cass. n. 7118/2018, Cass. nn. 3473 e 6146 del 2019; Cass. nn. 4195, 7705, 9491, 9806 del 2020).

5.1. Il principio di diritto è stato affermato valorizzando la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale, anche nelle pronunce successive ai primi arresti di questa Corte (Corte di Giustizia 20.6.2019, causa C- 72/18 Ustariz Arostegui; 11.4.2019, causa C- 29/18, Cobra Servizios Auxiliares; 21.11.2018, causa C- 619/17, De Diego Porras; 5.6.2018, causa C 677/16, Montero Mateos), ha dato continuità alla propria interpretazione della clausola 4 dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE ribadendo che:

a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana);

b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);

d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi);

5.2. La stessa Corte di Giustizia, chiamata a pronunciare in fattispecie nelle quali veniva in rilievo il mancato riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata in epoca antecedente la procedura di stabilizzazione prevista dalla L. n. 296 del 2006, ha evidenziato che la clausola 4 “osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da ragioni oggettive ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere” (Corte di Giustizia 18.10.2012 in cause riunite da C- 302/11 a C-305/11, Valenza e negli stessi termini Corte di Giustizia 4.9.2014 in causa C – 152/14 Bertazzi).

5.3. Infine la stessa Corte di Giustizia, sempre in relazione alle procedure di stabilizzazione ex lege n. 296 del 2006, ha esaminato anche la questione, prospettata in quel caso dal giudice del rinvio pregiudiziale, della necessità di evitare discriminazioni alla rovescia, ossia in danno degli assunti a tempo indeterminato, ed ha evidenziato che l’obiettivo, pur potendo costituire una “ragione oggettiva” ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro, “non può comunque giustificare una normativa nazionale sproporzionata come quella controversa nel procedimento principale, la quale esclude totalmente e in ogni circostanza la presa in considerazione dei periodi di servizio svolti da lavoratori nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato ai fini della determinazione della loro anzianità in sede di assunzione a tempo indeterminato e, dunque, del loro livello di retribuzione” (Corte di Giustizia Bertazzi, cit., punto 16).

6. La sentenza impugnata non si è discostata dai principi sopra sinteticamente riassunti e, correttamente, ha ritenuto violato il principio di non discriminazione, evidenziando che non era emersa la prova di ragioni oggettive che giustificassero la diversità di trattamento, dovendo le stesse essere attinenti “alle modalità di svolgimento della prestazione e non potendo consistere nel carattere temporaneo del rapporto di lavoro; nel fatto che il datore di lavoro sia una Pubblica Amministrazione; nella circostanza che il trattamento deteriore sia previsto da una norma interna generale ed astratta, quale una legge o un contratto collettivo, nè, infine, nella sola diversità delle modalità di reclutamento” (pag. 6 della motivazione).

Il ricorso, nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di non avere effettuato alcuna comparazione fra le mansioni svolte prima e dopo la stabilizzazione, non coglie esattamente il decisum, ed è pertanto in parte qua inammissibile, perchè la motivazione, seppure estremamente sintetica sul punto, lì dove esclude che fossero emerse ragioni attinenti alle modalità di svolgimento della prestazione, presuppone un accertamento di fatto su dette modalità ed una valutazione delle stesse in termini di identità e non di diversità.

Ne discende che non è scrutinabile la censura con la quale si sostiene che, in realtà, gli attuali controricorrenti non avrebbero offerto alcun elemento di prova dal quale desumere la comparabilità con gli assunti a tempo indeterminato. Si tratta, infatti, di argomenti con i quali, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, si sollecita un giudizio di fatto e non di diritto, ossia una diversa valutazione delle risultanze probatorie, riservata al giudice del merito.

6.1. Inammissibile è la censura di “insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia” prospettata con il primo motivo, perchè la sentenza impugnata è stata depositata il 16 maggio 2014, nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato al D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nel ribadire i limiti del vizio previsto dal riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè le modalità attraverso le quali lo stesso deve essere dedotto, hanno in recente decisione (Cass. S.U. n. 34476/2019 che richiama in motivazione Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018), qui richiamata ex art. 118 disp. att. c.p.c., dato continuità all’orientamento secondo cui l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè il vizio, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Hanno aggiunto che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma, sicchè nella fattispecie risulta evidente l’inammissibilità della censura, sia perchè formulata senza il rispetto delle forme indicate da Cass. S.U. n. 8053/2014, sia perchè la stessa addebita alla Corte territoriale non l’omesso esame di un fatto (che il giudice d’appello ha, come si è detto, esaminato lì dove ha escluso che fossero emerse ragioni attinenti alle modalità della prestazione), bensì l’erronea valutazione delle risultanze processuali dalle quali, a detta del ricorrente, non poteva essere desunta la prova dell’identità delle mansioni.

7. Perimenti inammissibile è la critica con la quale si denuncia la violazione della normativa contrattuale che, pur attribuendo valore all’anzianità di servizio, subordina la progressione stipendiale alla previa verifica positiva dell’attività prestata per l’ente.

A prescindere dall’erroneità dell’indicazione della clausola contrattuale (nel sito ARAN risulta che il CCNL per il biennio economico 96/97 è stato sottoscritto per il personale non dirigenziale degli enti di ricerca il 21.11.1996 e all’art. 4 non contiene la clausola invocata dal ricorrente; il 5 marzo 1998 risulta sottoscritto il CCNL per la dirigenza del comparto enti ricerca che, però, all’art. 4 della Sez. II reca la disciplina del periodo di prova e non della progressione stipendiale), va detto che la sentenza impugnata non ha riconosciuto il diritto alla progressione stipendiale nè ha condannato l’ente al pagamento di differenze retributive, ma ha solo dichiarato il diritto degli appellanti “al riconoscimento dell’anzianità di servizio” ai medesimi effetti per i quali la stessa rileva per gli assunti a tempo indeterminato. La censura, pertanto, è priva della necessaria riferibilità al decisum.

8. Infine il ricorso è infondato nella parte in cui, con il primo motivo, denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e deduce che era onere degli originari ricorrenti allegare e dimostrare la sussistenza della discriminazione e, quindi, la ricorrenza di tutte le condizioni in presenza delle quali il trattamento differenziale può essere ritenuto non giustificato da ragioni oggettive.

La clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE (secondo cui “per quanto concerne le condizioni di impiego, le lavoratrici ed i lavoratori a tempo determinato non dovranno essere trattati in maniera meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato assimilabili, unicamente per il fatto di avere un contratto od un rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che ciò sia giustificato da ragioni obiettive”) è stata recepita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 6, secondo cui “Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine” e, successivamente, nel D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 25, che, nell’abrogare la previgente disciplina del contratto a tempo determinato, ha ribadito il principio di non discriminazione riferito all’intero “trattamento economico e normativo”, fatta sempre salva l’obiettiva incompatibilità con la natura a termine del rapporto.

Sul piano contrattuale, quindi, è posta a carico del datore di lavoro una obbligazione, ossia quella di riservare all’assunto a tempo determinato le medesime condizioni previste per i dipendenti a tempo indeterminato comparabili, sicchè l’onere probatorio, in caso di denunciato inadempimento, si ripartisce fra i contraenti sulla base della regola generale indicata dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 13533/2001) e, pertanto, spetterà al datore di lavoro dimostrare o di avere esattamente adempiuto la prestazione, assicurando l’uniformità imposta dal diritto nazionale e Eurounitario, o di non essere tenuto a farlo per la sussistenza di ragioni oggettive che consentono di derogare alla regola generale. Queste ultime costituiscono un fatto impeditivo all’applicabilità del regime ordinario della necessaria equiparazione del rapporto a termine a quello a tempo indeterminato, con la conseguenza che l’onere della prova non può che gravare sul soggetto che lo allega, per sottrarsi all’adempimento.

9. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, da distrarre quanto ai controricorrenti P. e S., in favore dell’Avv. Michele Denicolò, che ha reso la prescritta dichiarazione nelle conclusioni del controricorso.

Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, perchè la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate, quanto ai controricorrenti P. e S., in Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge e con distrazione, quanto ai controricorrenti F., G. e N. in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2021

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