Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7049 del 12/03/2021

Cassazione civile sez. II, 12/03/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 12/03/2021), n.7049

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22029/2019 proposto da:

E.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO, 45,

presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO DELL’UNTO, rappresentato e

difeso dall’avvocato CLAUDICO SANTARELLI, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1858/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 14/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– la Corte d’appello di Bologna confermò la decisione del Tribunale della medesima città, con la quale era stata disattesa l’opposizione proposta dall’odierno ricorrente, in contraddittorio con il Ministero dell’Interno e la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, avverso il provvedimento di diniego in sede amministrativa della domanda di protezione internazionale dal predetto avanzata;

ritenuto che il richiedente ricorre sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria, avverso la statuizione e che il Ministero resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo e il secondo motivo, tra loro correlati, il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di legge per essere stato negato il diritto alla protezione sussidiaria, specificandosi il contrasto con il D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7, 8 e art. 14, lett. b), assumendo, in sintesi, che la Commissione amministrativa aveva errato nel negarne il riconoscimento, nonostante la forte conflittualità, la negazione di diritti primari, le scorribande criminali, le oppressioni e persecuzioni nei confronti dei cristiani registrati in Nigeria, tale da configurare un conflitto armato interno e, comunque, una situazione di indiscriminata violenza; nè a lenire il pericolo era bastevole affermare, come aveva fatto il Giudice, che la vicenda narrata riportava a un conflitto privato, nè quest’ultimo si era peritato di accertare la situazione interna del Paese di provenienza, essendosi limitato a non credere al racconto del richiedente, che, invece, aveva “portato a proprio favore dei fatti – la situazione di disordine, le risse, le violenze, la situazione di paura ed il clima di aggressione in cui quotidianamente viveva – utili per dimostrare la sussistenza dei motivi per chiedere la protezione sussidiaria in quanto sussiste il grave danno”;

considerato che il complesso censuratorio è inammissibile, valendo quanto segue:

a) la Corte locale, con valutazione di merito in questa sede incensurabile, ha escluso in radice, nel dettaglio e con argomenti ben persuasivi, l’attendibilità del narrato (il ricorrente aveva raccontato che dopo la morte del padre gli zii paterni lo volevano costringere a convertirsi con la forza dal cristianesimo all’islamismo e la madre, che lo aveva cresciuto nella tradizione cristiana, era stata uccisa dai cognati), privo di appigli di attendibilità e ciò solo fa escludere la ricorrenza di un dovere d’ulteriore approfondimento istruttorio sulla vicenda (senza contare che la narrazione, proprio a cagione della sua flagrante vacuità non avrebbe comunque permesso attingimento di conferme di sorta) e il ricorrente piuttosto che contrapporre evidenze processuali tali da smentire le conclusioni della Corte d’appello si limita a riportare i principi della materia e a insistere nella propria versione;

b) piuttosto palesemente le critiche, largamente, peraltro rivolte alla decisione amministrativa, appaiono dirette al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360, c.p.c., vigente n. 5, difatti, invece che porre in rilievo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo o l’assenza di giustificazione argomentativa della decisione, esse si contrappongono inammissibilmente al ragionato esame della Corte territoriale;

c) il giudizio d’inattendibilità della narrazione soggettiva risulta sorretto da argomenti che non possono in alcun modo considerarsi mero simulacro; nè, si ripete, sulla base della scarna e approssimativa narrazione era ipotizzabile un qualunque approfondimento istruttorio;

d) quanto alla situazione di Edo State, la decisione ha preso in esame COI aggiornate, dalle quali è dato escludere la sussistenza di quella situazione di violenza diffusa e incontrollata evocata dal ricorrente; in definitiva risulta evidenziata una condizione di sottosviluppo e d’instabilità del Paese, diffusa, peraltro, purtroppo in molte regioni del mondo, ma non la situazione di particolare criticità dalla quale può conseguire il diritto alla protezione sussidiaria;

e) il Giudice del merito, quindi, ha deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

considerato che il terzo motivo, con il quale si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per essere stato negato il diritto alla protezione umanitaria, assumendosi che la Corte locale non aveva preso in considerazione la domanda, nonostante che il richiedente, sia davanti alla Commissione che al Tribunale, aveva “dimostrato di essere una persona coerente dato che in entrambe le sedi ha ribadito il suo racconto senza alcuna contraddizione”, confermando le violente pressioni perchè ripudiasse il cristianesimo e nonostante la già descritta situazione interna del Paese d’origine, è inammissibile, essendo diretto, piuttosto che a dimostrare la sussistenza di soggettiva vulnerabilità, esclusa dalla Corte locale, la intrinseca attendibilità del narrato e la violenza diffusa e incontrollabile in Edo state, entrambe le evenienze, come si è visto, motivatamente escluse dal Giudice;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il soccombente ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore del costituito Ministero nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della qualità della causa, del suo valore e delle attività svolte;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del Ministero controricorrente, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese anticipate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021

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