Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7037 del 28/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 28/03/2011, (ud. 18/01/2011, dep. 28/03/2011), n.7037

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.G., domiciliato in ROMA piazza CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato MASSIMO URSO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A., già UNICREDITO ITALIANO S.P.A e successore di

UNICREDIT BANCA S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CRESCENZIO 103, presso lo studio dell’avvocato POMARICI ROMANO,

rappresentata e difesa dall’avvocato BOVE LUCIO, giusta procura

notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2 08/2 008 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 19/03/2008 R.G.N. 399/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2011 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;

udito l’Avvocato SCATAMACCHIA FABIO per delega URSO MASSIMO;

udito l’Avvocato BOVE LUCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il GL del Tribunale di Cosenza, con sentenza del 18.5.2000-25.5.2000, rigettava il ricorso col quale R.G. aveva chiesto che venisse dichiarato illegittimo (sotto diversi profili) il licenziamento intimatogli in data 4.8.1998 per superamento del periodo di comporto dal Credito Italiano s.p.a., di cui era dipendente.

Il gravame, proposto alla Corte di Appello di Catanzaro dal lavoratore licenziato, era rigettato con sentenza del 29.3.2001- 12.4.2001.

Proposto ricorso per cassazione, questa Corte, con sentenza nr. 14873 del 3.8.2004, accoglieva il terzo motivo di censura (attinente all’inadempimento dell’obbligo del datore di lavoro di specificare dettagliatamente le assenze, di fronte alla richiesta del lavoratore, L. n. 604 del 1966, ex art. 2), dichiarava assorbiti gli altri motivi di ricorso e annullava la pronunzia del giudice di secondo grado rinviando alla Corte di Appello di Reggio Calabria.

Con ricorso depositato in data 15.4.2005, R.G. riassumeva il giudizio di rinvio, chiedendo che -per l’inadempimento dell’obbligo imposto al datore di lavoro della L. n. 604 del 1966, ex art. 2, ovvero, comunque, per tutti gli altri motivi di illegittimità del recesso datoriale già evidenziati in precedenza venisse accolta, in riforma della sentenza del GL di Cosenza, la domanda proposta nel primo grado del giudizio, e cioè che fosse dichiarato inefficace ovvero annullato lo stesso recesso datoriale intimato in data 4.8.1998, con conseguente condanna del Credito Italiano Spa (ora Unicredito Italiano spa) alla reintegrazione nel posto di lavoro, al risarcimento del danno pari alle retribuzioni dovute dal giorno del recesso a quello di effettiva reintegrazione nonchè al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dovuti nello stesso periodo, oltre a interessi e rivalutazione.

Si costituivano sia Unicredito Italiano (già Credito Italiano) S.p.a. sia Unicredit Banca S.p.a..

11 primo chiedeva disattendersi ogni argomentazione posta a fondamento dell’atto di riassunzione e, per l’effetto, confermarsi la sentenza emessa nel primo grado del giudizio; il secondo chiedeva (evidenziando che neppure nell’atto di riassunzione era stata proposta domanda alcuna nei suoi confronti) dichiararsi il difetto di propria legittimazione passiva, con conseguente estromissione dal giudizio.

Con sentenza del 7-19 marzo 2008, l’adita Corte di Appello, dichiarato il R. decaduto dalla prova testimoniale ammessa con ordinanza del 20 aprile 2007, rigettava il gravame.

Ritenuta fondata l’eccezione di difetto di legittimazione dell’Unicredit Banca S.p.A., osservava, per un verso, che, pur tenendo presente il principio di diritto il enunciato nella sentenza di annullamento concernente l’obbligo del datore di lavoro di specificare dettagliatamente le assenze, richieste dal lavoratore L. n. 604 del 1966, ex art. 2, mancava la prova della richiesta, in quanto fondata su documento ritenuto inidoneo sotto vari profili a tal fine e che, pertanto, non poteva dichiararsi l’inefficacia del licenziamento per tale ragione, mentre, per altro verso, l’ampio superamento del periodo di comporto rendeva il licenziamento stesso del tutto legittimo.

Per la cassazione di tale pronuncia, ricorre R.G. con nove motivi. Resiste con controricorso Unicredit S.p.A. (nuova denominazione di UniCredito Italiano S.p.A.) già Credito Italiano S.p.A., ed allo stato anche come successore di Unicredit Banca S.p.A. (a seguito di fusione per incorporazione con effetto dal 1 novembre 2008). Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, il R., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394 c.p.c. lamenta che la Corte di Appello di Reggio Calabria, quale giudice del rinvio, anzichè applicare il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 14873/04, lo avrebbe completamente disatteso, stravolgendo l’accertamento e la valutazione dei fatti già acquisiti al processo e, quindi, coperti dal giudicato.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 394 c.p.c. sostiene che, anche a volere ritenere corretto l’assunto del Giudice a quo secondo cui la pronuncia n. 14873/04 avrebbe cassato la sentenza della Corte di Catanzaro non per violazione o falsa applicazione di legge ma per vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, il Giudice del rinvio non poteva compiere un nuovo e diverso accertamento dei fatti come accertati definitivamente e sui quali si era fondata la sentenza di annullamento.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 384, 394, 414, 416, 421 e 437 c.p.c. e art. 2719 c.c., sostenendo che l’impugnata sentenza avrebbe violato il principio – affermato da questa Corte – secondo il quale, “in ipotesi di annullamento per omesso esame di un punto decisivo della controversia, il giudice di rinvio, mentre può valutare liberamente i fatti già accertati e indagare anche su altre circostanze ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronunzia da emettere in sostituzione di quella cassata, deve tuttavia tener conto delle preclusioni e decadenze già verificatesi senza che il divieto di assumere nuove prove, non necessitate dalla sentenza di annullamento, sia superabile nel rito del lavoro con l’esercizio dei poteri ufficiosi di cui agli artt. 421 e 437 c.p.c., in quanto tali poteri concernono solo i primi due gradi del giudizio e non si estendono alla fase di cassazione, di cui il giudizio di rinvio costituisce uno stadio (Cass. 16/03/1992. n. 3211).

Con il quarto motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la dedotta decadenza dalla tardiva eccezione di mancato invio della lettera del 20.08.1998, con la quale venivano chiesti i motivi del licenziamento ed il numero delle assenze collezionate ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 2.

I motivi, così sinteticamente esposti, da trattarsi congiuntamente per evidente connessione, non possono trovare accoglimento.

Invero, la Corte di Reggio Calabria si è fatto carico di dare riscontro, in maniera esauriente e corretta, a tutte le argomentazioni del ricorrente a sostegno delle proprie ragioni, ivi comprese quelle più specificamente svolte in questa sede. Ha, innanzitutto, premesso che la Corte di Cassazione, nella sentenza rescindente, aveva esposto il contenuto dei vari motivi di ricorso, fra cui il terzo (ossia l’unico accolto, essendo stati gli altri dichiarati assorbiti), con il quale il R., denunciando la illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966 (art. 2) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, (nullità del licenziamento per assoluta genericità delle presunte assenze contestate) nonchè la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti e rilevabili d’ufficio (art. 360 c.p.c., n. 5), lamentava la genericità del licenziamento intimato e la mancata indicazione in esso delle specifiche assenze contestate – enunciando il principio di diritto per cui, in base alle regole dettate dalla L. n. 604 del 1966, art. 2, “qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore … ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento”, con la conseguenza che, “nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta”, il licenziamento deve considerarsi illegittimo, rinviando alla Corte di Appello di Reggio Calabria per gli accertamenti di merito da compiere in ottemperanza al principio di diritto enunciato.

Ha, quindi, rilevato che – “se la Corte di Cassazione avesse ritenuto defintivamente assodato in fatto che: 1) era stata presentata dal R., nei termini di legge, richiesta di esplicitare i motivi del licenziamento sotto il profilo dell’indicazione dei giorni di assenza; 2) il datore di lavoro, una volta comunicatagli tale richiesta, non aveva indicato le assenzalLnel modo dettagliato indicato nello stesso enunziato principio di diritto- l’annullamento non sarebbe stato con rinvio ad altro giudice di merito di secondo grado, in quanto la stessa Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, avrebbe potuto decidere la causa nel merito (non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto), dichiarando illegittimo il licenziamento intimato al R. e concedendo le chieste tutele reintegratorie e di condanna”.

Del tutto coerentemente il Giudice a quo ha ritenuto che, avendo la sentenza rescindente escluso la possibilità di decidere la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., aveva per ciò stesso considerato necessari ulteriori accertamenti in fatto demandando pertanto al giudice di rinvio di verificare, in ossequio al principio di diritto enunciato, se, da un lato, l’odierno ricorrente avesse effettivamente formulato, nei termini di legge, rituale richiesta di specificazione dei motivi del licenziamento (ossia, nella specie, di analitica indicazione delle singole assenze computate nel comporto) e se, dall’altro lato, il datore di lavoro avesse regolarmente ricevuto tale richiesta e non vi avesse ottemperato. Pertanto, in ottemperanza al compito demandatole, la Corte territoriale ha accertato che in concreto nessuna valida prova era stata fornita dal R. in ordine all’ipotizzato invio della richiesta di motivazione di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 2 ed al suo rituale ricevimento da parte dell’Istituto di Credito, posto che, dalla attenta disamina dell’incartamento processuale, era emerso che la lettera dattiloscritta, datata 20 agosto 1998, di richiesta dei motivi del licenziamento, che risultava materialmente inserita nel fascicolo di parte attrice come documento 5, non risultava tuttavia indicata nell’indice del fascicolo (in cui tale documento 5 non era menzionato). Inoltre, essa non era mai stata richiamata nel ricorso introduttivo nonchè nelle note e nei verbali di causa del giudizio di primo grado (ove il R. aveva fatto unicamente riferimento, nel censurare la genericità del licenziamento intimato, alla richiesta di specificazione delle assenze contenuta nella lettera del 7 settembre 1998 di esperimento del tentativo di conciliazione), risultando citata per la prima volta (in maniera peraltro assolutamente generica: “la società datoriale, di fronte ad una espressa richiesta del lavoratore, non ha specificato i giorni di assenza neanche in sede di conciliazione della controversia ex art. 410 c.p.c., con conseguente violazione dell’obbligo di buona fede” – cfr. lettera allegata del 28.08.1998) solo nell’atto di appello.

Da tale dato documentale nonchè dal comportamento processuale dell’odierno ricorrente (che – come puntualizzato nella impugnata pronuncia -, chiamato a fornire i dovuti chiarimenti sulla autenticità di tale documento nonchè a depositare gli originali della lettera, dell’avviso di spedizione e dell’avviso di ricevimento, lasciò senza seguito l’invito rivoltogli) il Giudice di rinvio ha concluso, con attenta ed articolata motivazione, che, nella specie, la fotocopia così inserita nel fascicolo dell’odierno ricorrente non solo appariva di dubbia autenticità ma doveva ritenersi essere stata fraudolentemente inserita nella documentazione di parte successivamente alla definizione del giudizio di merito (tanto da imporsi la trasmissione degli atti del procedimento alle competenti Autorità penali e disciplinari per i provvedimenti di rispettiva competenza) e che, in ogni caso, alcuna valida prova era stata fornita dalla parte che ne era onerata sia dell’autenticità e della rituale e tempestiva formulazione della relativa richiesta e sia, e soprattutto, del suo effettivo ricevimento da parte del datore, attesa la totale inattendibilità della fotocopia dell’avviso di ricevimento allegato. Nè può condividersi l’assunto, secondo cui l’accertamento compiuto dal Giudice di rinvio, in ordine alla mancanza di una valida prova sulla circostanza che il R. avesse espressamente inviata, nel termine di legge, la richiesta di ottenere la specifica indicazione delle assenze collezionate e che tale richiesta fosse stata ricevuta dal datore (che non vi avrebbe ottemperato), sarebbe impedito dalle preclusioni e decadenze in cui la società sarebbe incorsa per non avere contestato e disconosciuto nel giudizio di merito la fotocopia della richiesta. Invero, come compiutamente accertato in sede di rinvio, l’acquisizione di tale documento avvenne a mezzo della irrituale attività processuale del R. che la inserì nel proprio fascicolo successivamente alla costituzione in giudizio ed alla definizione del giudizio di primo grado, sicchè trova piena giustificazione l’avvenuta contestazione, da parte della società, in occasione del giudizio di rinvio.

In conclusione, fermo il principio di diritto enunciato dalla sentenza di rinvio, secondo cui l’eventuale illegittimità del licenziamento può essere dichiarata nella ipotesi in cui il datore di lavoro, successivamente alla comunicazione del licenziamento, non abbia ottemperato alla espressa richiesta del lavoratore di specifica indicazione delle assenze maturate (ritenuta equivalente alla richiesta di specificazione dei motivi L. n. 604 del 1966, ex art. 2:

in tal senso anche Cass. 10 gennaio 2008, n. 278), non è revocabile in dubbio che, come compiutamente accertato dal Giudice di rinvio, nella specie è risultato definitivamente acclarato che il R. non ha fornito, come era suo onere, la prova di avere avanzato, nel termine di legge di 15 giorni, alcuna richiesta di specificazione delle assenze maturate, talchè, in mancanza del presupposto di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 2, l’intimato licenziamento deve considerarsi, sotto l’esaminato profilo, legittimo. Tanto chiarito, vanno esaminati gli ulteriori motivi di ricorso, che prescindono dalle ora esposte conclusioni.

Con il quinto ed il sesto motivo, il ricorrente denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamenta che, dopo la scadenza del periodo di comporto, vi sarebbe stato un ritorno, da parte sua, in azienda, non contestato dal datore. Tale comportamento del datore di lavoro – ad avviso del ricorrente – andrebbe interpretato come rinuncia della società a far valere il licenziamento; in ogni caso ricorrerebbe, nella specie, una tardività nel recesso, sulla cui valenza il Giudice a quo non avrebbe fornito adeguata motivazione. Le censure sono prive di fondamento, essendosi il Giudice d’appello fatto carico delle stesse, motivando esaurientamente la propria decisione. Ed infatti, dopo avere evidenziato come fosse pacifico che il recesso era avvenuto dopo circa dieci mesi dall’avvenuto superamento del periodo di comporto, ha correttamente osservato che, in base al condivisibile pressocchè consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr, ex plurimis, Cass. nr. 253 del 1.12.2004-7.1.2005), mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa air incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole “spatium deliberandi” che va riconosciuto al datore di lavoro perchè egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che in quest’ultima evenienza, la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative.

Nella concreta fattispecie, la Corte di merito ha osservato che: a) dopo il superamento in data 9.10.1997 del periodo di comporto, il R. aveva continuato ad essere ammalato per altri tre mesi senza che il datore di lavoro recedesse; b) che tale lasso di tempo non poteva ritenersi eccessivamente lungo ed, anzi, il suo decorso senza l’intimazione del licenziamento era ampiamente giustificato, occorrendo considerare (data anche la peculiare struttura burocratica dell’ente creditizio e la sua articolazione territoriale) il tempo necessario per calcolare – nella sede periferica ove lavorava il R. – i singoli periodi di malattia computabili, sommarli, comunicarli alla direzione centrale, decidere se avviare o meno la procedura di licenziamento, valutando se – nonostante il periodo di comporto fosse già maturato – residuasse una prognosi di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore in rapporto agli interessi aziendali; e) che peraltro, in data 12.1.1998 il R. riprendeva servizio e proseguiva l’attività lavorativa per circa tre mesi e 17 giorni sino al 28 aprile del 1998; d) che, in siffatto contesto, l’atteggiamento prudente sino ad allora manifestato dal datore di lavoro (ossia la decisione di attendere – prima del recesso – il decorso di un ulteriore periodo di malattia al fine di accertare definitivamente l’irrecuperabilità del R. nell’organizzazione aziendale) appariva giustificato, poichè il lavoratore era ritornato in servizio e, dunque, poteva legittimamente prospettarsi una prognosi favorevole di compatibilità della presenza in azienda del lavoratore, benchè di frequente assente per malattia;

c) che ciò indubbiamente non significava che l’Istituto di credito, accettando la prestazione lavorativa resa a decorrere dal 12.1.1998, avesse definitivamente rinunziato del tutto ad avvalersi nel prosieguo della facoltà di recedere dal rapporto di lavoro, ma solo che, essendo cessato il periodo di malattia, si decideva di sospendere il giudizio aspettando i successivi sviluppi della vicenda, al fine di verificare se la situazione potesse ritenersi normalizzata; f) che in data 28.4.1998 il R. asseriva di avere subito un infortunio sul lavoro, cadendo mentre percorreva le scale dell’edificio ove era ubicato l’Istituto di credito, e la sua assenza per malattia, si protraeva sino a quando, in data 4.8.1998, il datore di lavoro gli intimava il licenziamento; g) che anche in tal caso il termine di poco più di tre mesi trascorso dal 28.4.1998 sino al recesso non era da considerarsi eccessivamente lungo, posto che, dopo la ripresa del servizio, iniziava un nuovo periodo di malattia (tra l’altro provocato da un dedotto infortunio sul lavoro) la cui durata non era predeterminata, sicchè si imponeva un ulteriore periodo di riflessione sull’evoluzione della situazione al fine di verificare la capacità di recupero, da parte del R., delle condizioni fisiche.

Da tale complesso di avvenimenti e situazioni, del tutto logica e conforme a diritto è la conseguenza tratta dalla Corte di merito secondo cui, allorquando, in data 4.8.1998, il datore di lavoro decise di porre fine al rapporto di lavoro, “ormai la morbilità , se si può adoperare tale termine, che affliggeva il R., era divenuta tale da rendere quest’ultimo non più utilmente e convenientemente reinseribile nell’apparato produttivo (alla data del 4.8.1998, nel periodo dal 4.8.1995 allo stesso 4.8.1998 – ossia in un triennio pari come durata, anche se non coincidente dal punto di vista cronologico, alla vigenza del CCNL di categoria , utilizzato come termine esterno del comporto frazionato – le assenze discontinue assommavano a 717 giorni, ben più dei 540 giorni attinenti al comporto secco di 18 mesi previsto dallo stesso CCNL di categoria)”, senza che potesse avere rilievo la richiesta, in data 28.5.1998, di fruizione delle ferie, depositata dopo che già in data 9.10.1997, in base al conteggio effettuato dall’Istituto di credito, era stato superato (come ha ammesso il R. nell’eccepire l’intempestività del recesso) il termine di comporto della durata di giorni 540. Infondato è anche il settimo motivo con cui il ricorrente, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene che non andavano conteggiate le assenze riconducibili agli incidenti verificatisi il 29 aprile 1986 ed il 28 aprile 1998. In proposito, la Corte territoriale ha correttamente osservato che, in relazione a quest’ultimo infortunio, il ricorrente era decaduto dalla prova diretta a dimostrare una responsabilità dal datore di lavoro, sicchè la richiesta detrazione non era consentita;

ciò in conformità all’orientamento di questa Corte, secondo cui le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 cod. civ., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro, e sono pertanto normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nel citato art. 2110, la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all’uso o all’equità. La suddetta computabilità nel periodo di comporto non si verifica, peraltro, nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di noci vita insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (Cass. n. 3351/1996).

Quanto al primo incidente, la cui responsabilità, secondo il ricorrente, doveva essere imputata al datore di lavoro, il quale lo aveva esposto ad un rischio imponendogli l’espletamento di una prestazione vietata dall’art. 124 del CCNL -con conseguente esclusione dei giorni di assenza, dal computo del periodo di comporto- il Giudice a quo ha osservato che nella pregressa sede giudiziaria (Tribunale di Castrovillari e Corte d’appello di Catanzaro) era stato definitivamente acclarato che non vi era stata alcuna inosservanza di detto articolo.

Va disatteso anche l’ottavo motivo con cui il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c. sostiene che, in violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede, il datore di lavoro avrebbe dovuto informarlo dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto e della facoltà di godere di un periodo di aspettativa retribuita prevista dall’art. 100 del CCNL di categoria.

Infatti, nel rapporto di lavoro i principi di correttezza e buona fede rilevano, come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 cod. civ.), ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata ; ne consegue che, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l’onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al furie di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa , come previsto dal contratto collettivo stesso (cfr., in tal senso Cass. nr. 3351/1996, nr. 5091/1998).

Non condivisibile è infine l’ultimo motivo con cui il ricorrente sostiene che, prevedendo il CCNL di categoria il solo comporto secco non poteva farsi ricorso a quello frazionato.

Invero, -come rimarcato dal Giudice a quo – in base ad orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato (cfr Cassazione Sezione Lavoro nr. 1742 del 12.4.1989, nr. 1757 del 18.2.1995 e nr. 14633 del 23.6.2006), nel caso in cui la contrattazione collettiva non preveda il comporto per sommatoria dei vari periodi discontinui di malattia, il giudice può far ricorso all’equità integrativa ai sensi dell’art. 2110 cod. civ. e, quindi determinare sia il termine esterno (facendolo coincidere con il termine di vigenza del CCNL, nel caso di specie triennale), sia il termine interno (da identificarsi nella stessa misura prevista dal CCNL per il comporto secco, ossia nel caso di specie, tenuto conto dell’anzianità di anni 20, 18 mesi cioè 540 giorni).

Per quanto precede, il ricorso va rigettato.

Le alterne vicende processuali inducono a compensare le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2011

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