Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7037 del 12/03/2020

Cassazione civile sez. VI, 12/03/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 12/03/2020), n.7037

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26517-2018 proposto da:

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTEZEBIO

28 SC. A INT. 6, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE BERNARDI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO DE GIORGIO;

– ricorrente –

contro

S.D.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato GIOVAN CANDIDO DI GIOIA,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA ROSARIA CALVIO;

– controricorrente –

e contro

M.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 269/2017 della CORTE D’APPELLO DI LECCE, SEZ.

DIST. di TARANTO, depositata il 17/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

L’avvocato D.G. ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 269/2017 del 17 luglio 2017, che ha accolto il gravame avanzato dall’avvocato S.D.M. contro la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Taranto il 17 febbraio 2011, ed ha così dichiarato l’avvocato D. tenuto al pagamento del compenso spettante all’avvocato S. per l’attività professionale svolta in un giudizio davanti al Giudice di pace di Orta Nova in favore dell’attore di quella causa, M.G..

Resiste con controricorso l’avvocato S.D.M., mentre rimane intimato senza svolgere attività difensive M.G..

La Corte d’Appello di Taranto ha ritenuto non decisiva la circostanza, valorizzata dal Tribunale, del conferimento da parte di M.G. della procura ad litem congiunta sia all’avvocato D.G. che all’avvocato S.D.M.. I giudici di secondo grado hanno posto in evidenza: l’assenza di “qualsivoglia contatto tra il M. e l’avv. S. prima dell’autenticazione della procura”, la predisposizione di tutti gli atti del giudizio da parte del D., l’espletamento dello jus postulandi da parte dello S. in esecuzione delle direttive impartite dal suo collega. Irrilevante, al fine di dimostrare il contratto di patrocinio tra il M. e lo S., è stato considerato l’assegno bancario tratto in favore dello stesso S. a firma illeggibile. Circa la lettera inviata dal D. l’11 gennaio 2002, in risposta alla richiesta di pagamento dei compensi inviata dallo S., la Corte di Taranto ha sottolineato come il D. invitasse il suo collega a far conoscere le sue competenze “anche” direttamente al M.. Ancora, i giudici di appello rappresentano come il M. avesse dichiarato di non aver mai inteso conferire incarico a difensore diverso dal D. e di non aver mai avuto contatti con l’avvocato S.. Da tali elementi, la Corte di Taranto ha tratto il proprio convincimento dell’obbligo di pagamento in capo all’avvocato D. del compenso spettante all’avvocato S..

Il primo motivo di ricorso censura l’omesso esame di fatti decisivi, con riguardo alle lettere a firma dell’avvocato S. del 7 giugno 2000, del 20 dicembre 2011, del 29 gennaio 2002 e del 1 febbraio 2003, in cui il M. viene definito “cliente”, o “comune cliente”, “raccomandato” dal D.. Si pone in evidenza peraltro come l’avvocato S. avesse inizialmente richiesto il pagamento del suo compenso solo al M., e mai all’avvocato D., cui si era invece rivolto dopo l’inadempimento dell’assistito.

Il secondo motivo di ricorso denuncia poi la nullità della sentenza impugnata per la mancata ammissione – di cui non vi è cenno nella decisione d’appello – della prova per interrogatorio formale e per testimoni articolata nella memoria istruttoria di primo grado, poi richiamata nella comparsa di risposta in appello, prova attinente alla “designazione dell’avvocato S. quale codifensore del M.”, alla comunicazione da parte del D. al collega S. della “scelta” operata dal M., al versamento del “fondo cassa” dal M. all’avvocato S., ed infine ai contatti frequenti nel corso di giudizio davanti al Giudice di pace tra il M. e lo S..

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Il ricorrente ha presentato memoria, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi.

I giudici di secondo grado, con apprezzamento di fatto rientrante fra le prerogative del giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità, se non nei limiti del richiamato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, hanno ritenuto raggiunta la prova del conferimento da parte dell’avvocato D. dell’incarico professionale all’avvocato S., inerente alla difesa di M.G. nel giudizio davanti al Giudice di pace di Orta Nova, desumendo tale prova dalla mancanza di “contatti” tra il M. e lo S. prima dell’autenticazione della procura”, dalla predisposizione di tutti gli atti del processo ad opera del D., dall’espletamento delle attività difensive da parte dello S. in esecuzione delle direttive impartite dal suo collega, dal tenore della lettera inviata dal D. l’11 gennaio 2002 e dalle dichiarazioni rese dal M..

La conclusione raggiunta dalla sentenza impugnata si uniforma all’interpretazione che della questione di diritto presceglie questa Corte, secondo cui, al fine di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura “ad litem” e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico, il quale può essere anche diverso da colui che ha rilasciato la procura. Più in generale, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. Ciò comporta che il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo (Cass. Sez. 3, 03/08/2016, n. 16261; Cass. Sez. 2, 29/09/2004, n. 19596; Cass. Sez. 1, 02/06/2000, n. 7309; Cass. Sez. 3, 04/02/2000, n. 1244).

Il richiamato principio, ai fini dell’individuazione del soggetto obbligato a corrispondere il compenso al difensore per l’attività professionale richiesta, opera altresì quando, come nel caso in esame, sia stato conferito un incarico difensionale ad un avvocato da parte di un altro avvocato ed in favore di un terzo, e nonostante la presenza di una procura congiunta, ben potendosi intendere superata la presunzione di coincidenza del contratto di patrocinio con la procura alle liti, ove risulti provato, sia pur in via indiziaria, il distinto rapporto interno ed extraprocessuale di mandato esistente tra i due professionisti e che la procura rilasciata dal terzo in favore di entrambi era solo lo strumento tecnico necessario all’espletamento della rappresentanza giudiziaria, indipendentemente dal ruolo di dominus svolto dall’uno rispetto all’altro nell’esecuzione concreta del mandato (arg. da Cass. Sez. 2, 27/07/1987, n. 6494; Cass. Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass. Sez. 2, 20/11/2013, n. 26060).

Quanto, in particolare, al primo motivo, occorre evidenziare come l’interpretazione di questa Corte abbia già chiarito che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe certamente determinato un esito diverso della controversia) (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745). Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439).

Il primo motivo di ricorso, viceversa, si sostanzia nel lamentare l’omesso o l’erroneo esame di elementi istruttori (in particolare, alcune lettere, ed in particolare le espressioni in esse adoperate, che dovrebbero far intendere che il M. era “cliente” dell’avvocato S.), con riguardo ad un più complesso fatto storico (la conclusione del contratto di patrocinio) che è stato comunque preso in considerazione dalla Corte d’Appello, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

Nè la denuncia di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, può ammissibilmente svolgersi, come fatto nel primo motivo del ricorso di D.G., auspicando che la Corte di Cassazione proceda motu proprio ad un complessivo riesame delle risultanze istruttorie costituite dai documenti prodotti, in maniera da far desumere alla medesima Corte in via inferenziale, mediante un diretto e rinnovato studio del materiale di causa, una diversa conclusione circa la sussistenza dell’incarico professionale conferito direttamente da M.G. all’avvocato S.D.. A norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, fare ricorso a presunzioni ex art. 2727 c.c., e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Gli argomenti indicati depongono perciò per la infondatezza anche del secondo motivo. I capitoli della prova per interrogatorio e per testimoni riportati in ricorso non rivelano comunque decisività ai fini della prova dell’incarico professionale all’avvocato S.D., essendo volti a dimostrare unicamente che la “designazione” dello stesso provenisse dal M., o che questi avesse versato al medesimo avvocato S. il “fondo spese” e avesse poi avuto contatti diretti col legale, ma non (e ciò davvero rileverebbe) che il M. avesse direttamente richiesto la prestazione della sua opera difensiva allo S., così obbligandosi, quale soggetto del mandato di diritto sostanziale, alla corresponsione del relativo compenso.

L’omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’assenza di motivazione su un fatto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito. Pertanto, la ritenuta irrilevanza delle prove dedotte dal ricorrente può argomentarsi per implicito dalle ragioni svolte dalla Corte di Taranto a sostegno della decisione raggiunta. E’ infondata così la denuncia di nullità della sentenza impugnata, in quanto quest’ultima contiene le argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione, e non denota alcuna anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (ancora Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

Il ricorso va perciò rigettato e il ricorrente va condannato a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione, mentre non occorre provvedere al riguardo per l’altro intimato M.G., che non ha svolto attività difensive.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020

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