Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7024 del 17/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 17/03/2017, (ud. 15/02/2017, dep.17/03/2017),  n. 7024

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. PROTO Cesare Antonio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7564/2012 proposto da:

B.V., (OMISSIS), T.R.A. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEL TRITONE 169, presso lo

studio dell’avvocato RENATA SULLI, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MAURIZIO CORA, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.I.M.R., P.M., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CONCA D’ORO 300, presso lo studio

dell’avvocato GIOVANNI BAFILE, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FRANCESCO BAFILE, in virtù di procura a

margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 835/2011 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 15/09/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/02/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Francesco Saverio de Nardis per delega dell’Avvocato

Cora per i ricorrenti e l’Avvocato Giovanni Bafile per i

controricorrenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 26 giugno 1996, P.M. proprietario di un terreno sito in (OMISSIS), riportato in Catasto alla p.lla n. (OMISSIS) del foglio (OMISSIS), nonchè di un terreno e fabbricato riportati al foglio n. (OMISSIS) del NCEU ai nn. (OMISSIS), conveniva in giudizio i coniugi T. – B., comproprietari del contiguo fondo con edificio soprastante contraddistinto con il mappale n. (OMISSIS), nonchè dei terreni contrassegnati dai mappali nn. (OMISSIS) e (OMISSIS), lamentando che gli stessi avevano realizzato lungo il muro di confine: a) una piattaforma in calcestruzzo; b) una baracca con copertura in tegole; c) un manufatto in blocchi di cemento armato con tetto a spioventi; d) un serbatoio per il gas metano, tutti posti a distanza inferiore a quella di legge, dei quali chiedeva la rimozione.

Evidenziava altresì che i convenuti avevano adibito a deposito di beni personali una scala interna comune in violazione dell’art. 1102 c.c. e che nel muro perimetrale del loro edificio prospettante un’intercapedine esistente tra il muro di cinta ed il muro perimetrale di parte attorea, era stata realizzata una veduta, della quale andava disposta la eliminazione ovvero la regolarizzazione a luce.

Si costituivano i convenuti che insistevano per il rigetto delle domande proposte, ed in via riconvenzionale lamentavano che l’attore: a) aveva realizzato in aderenza del muro di confine un manufatto destinato a copertura del forno a legna in violazione delle distanze legali; b) aveva edificato un fabbricato in blocchetti di cemento a distanza sempre illegale dal confine, sulla cui copertura stata realizzando una nuova terrazza, idonea a costituire un’indebita servitù di veduta sul fondo dei convenuti; c) aveva altresì collocato un serbatoio del gas ed una condotta del gas a distanza inferiore a quella prescritta dal codice civile; e) infine aveva modificato l’adiacente copertura della sua proprietà, eliminando la preesistente linea di gronda, con il conseguente convogliamento delle acque meteoriche nella proprietà dei convenuti, che aveva subito gravi danni a seguito dell’imbibimento delle pareti.

Concludevano quindi affinchè fosse ordinata l’eliminazione delle opere realizzate in violazione delle distanze legali, e l’attore fosse condannato al risarcimento dei danni subiti.

Veniva disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti di S.R., moglie dell’attore e comproprietaria dei beni di quest’ultimo.

Il Tribunale di L’Aquila con la sentenza n. 412 del 6 giugno 2005, all’esito dell’istruttoria, condannava i convenuti alla rimozione del serbatoio per il gas, alla demolizione e ricostruzione a distanza non inferiore a tre metri dal confine del manufatto costruito con blocchi di cemento armato e con tetto a spioventi, nonchè a ricondurre a luce regolare la veduta esistente sul muro perimetrale al servizio del bagno del piano terra dei coniugi T. – B..

In accoglimento parziale della domanda riconvenzionale, condannava l’attore ed il coniuge alla rimozione del serbatoio del gas e della condotta che dal medesimo si dipartiva.

Infine dichiarava cessata la materia del contendere quanto alle altre doglianze di parte attrice.

A seguito di appello proposto dai convenuti, la Corte d’Appello di L’Aquila con la sentenza n. 835 del 15 settembre 2011 confermava integralmente la decisione gravata.

Quanto al mancato accoglimento della domanda di rimozione del fabbricato realizzato dall’attore con blocchetti di cemento, e giustificato dal Tribunale per l’avvenuta usucapione del diritto a tenerlo in loco, a fronte della deduzione degli appellanti secondo cui non vi era la prova che il manufatto avesse le sue attuali dimensioni sin dai primi anni 70, la Corte d’Appello riteneva che le prove offerte, ed in particolare le risultanze della CTU confortavano la conclusione della preesistenza dell’opera e da un’epoca ampiamente idonea a consentire l’acquisto per usucapione. Pertanto in presenza di tale quadro probatorio, sarebbe stato specifico onere dei convenuti attori in riconvenzionale, dimostrare che invece l’attuale consistenza dell’opera risaliva ad un’epoca inferiore al ventennio dalla domanda.

Inoltre non poteva darsi seguito alla richiesta di riapertura di tutti i mezzi istruttori già raccolti in primo grado, come ad esempio alla richiesta di rinnovazione della CTU, atteso che anche per quanto concerne i documenti sussistono precise limitazioni alla loro produzione per la prima volta in grado di appello.

Del pari andava disatteso il motivo di appello concernente la rimozione del serbatoio dei convenuti, in quanto, sebbene sia in astratto permessa la collocazione di tale manufatto in un cortile, la CTU aveva evidenziato che non risultavano rispettate le condizioni che permettono di reputare legittima tale collocazione.

In merito alla riduzione a luce regolare della veduta, l’appello era fondato sulla presenza di tale apertura, e faceva leva su di una perizia giurata la quale ad avviso dei giudice di secondo grado, non poteva avere valore di prova, dovendosi quindi ritenere corretta la valutazione assunta sul punto dal Tribunale.

Avverso la indicata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione T.R.A. e B.V., sulla base di sette motivi, illustrati anche con memorie ex art. 378 c.p.c..

P.M. e S.I.M.R. hanno resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 e 1158 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nella parte in cui la Corte distrettuale ha confermato il rigetto della domanda riconvenzionale di demolizione del fabbricato in cemento di proprietà degli attori, sul presupposto che fosse stato acquisito per usucapione il diritto a mantenerlo ad una distanza inferiore a quella di legge.

Si sostiene che è inammissibile l’acquisto per usucapione di una siffatta servitù in quanto l’ordinamento non può accordare tutela ad una situazione che attraverso l’inerzia del confinante, determina l’aggiramento dell’interesse pubblico cui sono preordinate le norme violate.

Si assume altresì che dall’esame della planimetria allegata alla concessione in sanatoria rilasciata al dante causa del controricorrente, successivamente annullata d’ufficio, emergerebbe che lo stato dei luoghi era differente rispetto a quello attuale, sicchè non poteva in ogni caso ritenersi maturata l’usucapione ventennale, risalendo la costruzione dell’attore, nella sua odierna conformazione ad epoca successiva al 1990.

Il motivo è infondato.

Preliminarmente deve essere disattesa la tesi di parte ricorrente secondo cui non sarebbe data la possibilità di usucapire il diritto a mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella di legge, ivi inclusa quella disposta da un regolamento locale, dovendosi dare seguito alla più recente giurisprudenza di questa Corte, che superando le perplessità manifestate nel passato ha negli ultimi anni, a più riprese affermato che deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (Cass. n. 4240/2010; Cass. n. 22824/2012; Cass. n. 3979/2013).

Deve pertanto escludersi la dedotta violazione di legge.

Quanto invece alla seconda parte del motivo che investe più direttamente l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito, che ha ritenuto essere stata offerta la prova da parte dell’attore della maturazione del tempo utile ad usucapire, il motivo è evidentemente privo del requisito di specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, posto che, pur invocandosi l’efficacia probatoria di una planimetria allegata alla domanda di concessione in sanatoria del dante causa del P., si omette, oltre che di riprodurne il contenuto in ricorso, altresì di indicare da chi e quando tale documento sia stato ritualmente prodotto in giudizio e la sede nella quale lo stesso sia eventualmente reperibile, con la conseguente inammissibilità della deduzione difensiva.

2. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 356 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Deduce parte ricorrente che, se era onere degli appellanti dimostrare la fondatezza delle censure mosse alla sentenza di primo grado, era però specifico dovere del giudice di appello quello di analizzare e riesaminare compiutamente i dati contenuti all’interno della relazione peritale, provvedendo alla sua rinnovazione.

Il motivo è evidentemente inammissibile.

In primo luogo, si rileva che appaiono del tutto generiche ed indimostrate le eventuali erroneità nelle quali sarebbe incorso il CTU nella redazione del proprio elaborato e che avrebbero dovuto indurre il giudice di appello a procedere alla rinnovazione della CTU, così che in difetto di tali indicazioni, il motivo è evidentemente articolato in violazione della prescrizione di cui all’art. 366, anche con specifico riferimento al n. 6 della norma in questione che avrebbe imposto alla parte di riportare in ricorso le parti della consulenza d’ufficio delle quali si ravvisa l’erroneità.

A ciò deve altresì aggiungersi che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 1754/2012) il mancato esercizio, da parte del giudice di appello, del potere discrezionale di invitare le parti a produrre la documentazione mancante o di ammettere una prova testimoniale non può essere sindacato in sede di legittimità, al pari di tutti i provvedimenti istruttori assunti dal giudice ai sensi dell’art. 356 c.p.c., salvo che le ragioni di tale mancato esercizio siano giustificate in modo palesemente incongruo o contraddittorio (conf. ex multis Cass. n. 7700/2007; Cass. n. 13647/2000).

Ne discende che la parte al fine di contestare la valutazione espressa sul punto dal giudice di appello avrebbe dovuto espressamente denunziare la presenza di un vizio motivazionale nella sentenza gravata, non potendo, come invece accaduto, prospettare la censura sub specie di violazione di legge.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui la sentenza ha confermato la condanna alla rimozione del serbatoio del gas di proprietà dei convenuti, evidenziandosi che gli stessi ricorrenti avevano sostenuto la legittimità di tale manufatto, avendo avanzato legittime istanze istruttorie finalizzate a confortare quanto dedotto.

Con il quarto motivo di ricorso si denunzia l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, in merito alla condanna alla regolarizzazione della luce, assumendosi che la decisione della Corte d’Appello circa la superfluità del rinnovo della CTU contrasterebbe con quanto emergeva dalla consulenza tecnica di parte, dalla quale risulterebbe che la finestra esisteva sin dalla data dell’acquisto del bene ad opera dei ricorrenti.

Entrambi i motivi vanno disattesi.

Gli stessi mirano nella sostanza a contestare la valutazione in fatto operata da parte del giudice di merito, sin in merito alla illegittima collocazione del serbatoio sia in ordine alla collocazione a distanza illegale della veduta a vantaggio della proprietà dei convenuti, aspirando surrettiziamente ad un diverso apprezzamento delle circostanze fattuali, compito questo che esula da quelli attribuiti al giudice di legittimità.

A ciò deve altresì aggiungersi che, quanto alla collocazione del serbatoio, la sentenza impugnata ha argomentato per la conferma della decisione del Tribunale sulla scorta delle indagini espletate dal CTU le quali avevano evidenziato il difetto delle condizioni che avrebbero reso legittima la apposizione nel cortile del manufatto, sicchè a fronte di tale argomentazione, era specifico onere dei ricorrenti curare di trascrivere in ricorso la parte della CTU relativa a tale accertamento, onde consentire a questa Corte di rilevarne l’erroneità, e ciò sempre in ottemperanza di quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

A ciò deve altresì aggiungersi che la parte lamenta la mancata valutazione di legittime istanze istruttorie, senza però riprodurne minimamente il contenuto, in violazione del costante principio di questa Corte per il quale, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività degli elementi di giudizio assuntivamente non valutati od erroneamente valutati o non consentiti, è necessario che il ricorrente indichi puntualmente ciascuna delle risultanze o richieste istruttorie alle quali fa riferimento e ne specifichi il contenuto mediante loro sintetica, ma esauriente esposizione ed, all’occorrenza, integrale trascrizione nel ricorso, non essendo idonei all’uopo il semplice richiamo ai documenti prodotti ed alle richieste formulate nella fase di merito e, tanto meno, i richiami per relationem agli atti della precedente fase del giudizio, inammissibili in sede di legittimità, laddove il giudice dev’essere posto in grado di compiere il controllo demandatogli sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non gli è consentito di sopperire con indagini integrative (neppure attraverso la lettura della stessa sentenza impugnata). In particolare, per quanto attiene alle questioni relative alla mancata ammissione delle prove testimoniali nella fase di merito, deve il ricorrente per Cassazione indicare i testi e riportare l’oggetto dei capitoli di prova e le ragioni per le quali ciascuno dei testi indicati sarebbe stato qualificato a riferire sugli argomenti dedotti nelle domande da rivolgergli ai fine di consentire, anche in questo caso, il vaglio di decisività del mezzo istruttorio in discussione. In particolare, ove sia denunciato in sede di legittimità il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, il ricorrente deve, alla luce del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, in maniera da permettere il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse (cfr. ex multis Cass., Sez. 6-L, ordinanza n. 1(OMISSIS)15 del 30 luglio 2010, Rv. 614538).

Analoga carenza si profila in merito al quarto motivo di ricorso che del pari omette di riprodurre la parte della CTP che, a detta dei ricorrenti, avrebbe fornito la prova delle circostanze contrarie a quelle ritenute veritiere dal giudice di appello, nonchè in ordine al contenuto dell’atto di acquisito (dovendosi in ogni caso rilevare che, risalendo tale atto al 1984, ed anche ove volesse darsi provata l’esistenza a tale data della veduta come denunziata in citazione, alla successiva data della introduzione della presente causa – 1996 – non sarebbe in ogni caso decorso il tempo utile al maturare dell’usucapione del diritto a mantenere la veduta, così che la parte ricorrente sarebbe stata in ogni caso onerata di dimostrare il diverso titolo che giustificava il diritto a conservare la veduta della quale è stata disposta la eliminazione o meglio la regolarizzazione a luce).

4. Il quinto motivo di ricorso denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 844, 873 ed 890 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, relativamente al rigetto della domanda riconvenzionale di abbattimento della diversa struttura realizzata dall’attore e consistente nella copertura del forno a legna in aderenza al muro comune. Si assume che la Corte d’Appello ha omesso di considerare quanto rilevato dal CTU in punto di illegittimità delle opere, e sebbene gli appellanti avessero con dovizia di argomentazioni ribadito che si trattava di una vera e propria costruzione che era tenuta al rispetto delle distanze legali.

Il sesto motivo lamenta altresì che la Corte di Appello non abbia accolto la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni scaturenti dall’illegittima modifica del tetto della proprietà di parte attrice, con la conseguente rovina degli intonaci interni ed esterni della proprietà dei ricorrenti.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono inammissibili.

Ed, invero, è pacifico che a fronte del rigetto di tali capi della domanda riconvenzionale dei convenuti, gli stessi hanno proposto appello come d’altronde si ricava dalla lettura del secondo periodo della pag. 3 della sentenza impugnata.

Tuttavia, i giudici di appello hanno del tutto omesso di statuire in ordine a tali motivi di gravame, limitandosi unicamente a statuire in merito alla diversa costruzione dell’attore di cui si lamentava parimenti l’illegittimità, nonchè in ordine alla rimozione del serbatoio del gas ed alla riconduzione a luce regolare della finestra di proprietà dei convenuti.

Trattasi all’evidenza di un vizio di omessa pronuncia che andava pertanto denunziato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e non già invocando la violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3.

Nè peraltro risulta espressamente dedotta la nullità della sentenza prospettandosi l’error in procedendo atteso che i ricorrenti si limitano unicamente a denunziare la violazione delle norme sostanziali che sorreggevano la fondatezza delle loro pretese.

Ne discende che i motivi sono inammissibili.

Ed, infatti come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 17931/2013, ancorchè il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, debba essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge.

Nel caso in esame deve ribadirsi che, pur in presenza di una situazione che astrattamente legittimerebbe la denunzia di omessa pronuncia su di un motivo di impugnazione, i ricorrenti si sono limitati a denunziare la sola violazione della legge sostanziale, in evidente violazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite. Deve quindi darsi continuità a quanto ribadito in numerose occasioni da questa Corte, e cioè che l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (così ex multis Cass. n. 22759/2014; Cass. n. 13482/2014; Cass. n. 24533/2013).

5. Il settimo motivo di ricorso denunzia invece in questo caso la violazione e falsa applicazione dell’art. 112, sebbene con erroneo riferimento alla previsione di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendosi che la decisione gravata non aveva statuito in ordine alla richiesta di eliminazione del manufatto in blocchetti di cemento in corso di realizzazione da parte dell’attore, e sul questi quale stava anche per realizzare una terrazza.

Il motivo è chiaramente privo di fondamento, in quanto la decisione della Corte, con la quale è stato rigettato il motivo di appello formulato dagli odierni ricorrenti, confermandosi l’acquisizione per usucapione del diritto a conservare la costruzione a distanza inferiore a quella di legge, questione che è poi oggetto del primo motivo di ricorso, ha riguardato proprio il fabbricato in blocchetti di cemento armato, come si ricava in maniera inequivoca dalla lettura della pag. 3 della sentenza della Corte aquilana che descrive il manufatto come realizzato in blocchetti di cemento armato a circa 50 cm. dal confine.

Ne consegue che non sussiste il vizio di omessa pronuncia.

6. Il ricorso deve pertanto essere integralmente rigettato, e per l’effetto i ricorrenti, in base al principio di soccombenza, sono tenuti al rimborso delle spese di lite in favore dei controricorrenti, come liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2017

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