Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7015 del 11/04/2016


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 7015 Anno 2016
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: MANNA FELICE

SENTENZA
sul ricorso 9992-2014 proposto da:
VERNILLO ELVIRA, NEGRO TAMARA, CHEZZA LUIGI,
STEFANO ROCCO, DE VMS GIUSEPPE, DE VITIS
SALVATORE, OZZA ANTONIO, DE VITIS DANIELA,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TARO 25, presso lo studio
dell’avvocato DEBORA MAGARAGG1A, rappresentati e difesi dagli
avvocati DAVIDE SALVATORE PIERRL PIERLUIGI
DELL’ANNA giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti contro

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Data pubblicazione: 11/04/2016

MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
controriconvnte

avverso il decreto n. 931/2013 della CORTE D’APPELLO di
POTENZA dell’i /10/2013, depositata il 17/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
04/02/2016 dal Presidente Relatore Dott. FELICE MANNA;
udito l’Avvocato Pierluigi Dell’Anna difensore dei ricorrenti che insiste
per l’accoglimento del ricorso.

Ric. 2014 n. 09992 sez. M2 – ud. 04-02-2016
-2-

IN FATTO
Con ricorso del 12.3.2012 Elvira Vernillo, Tamara Negro, Rocco Stefano,
Antonio Ozza, Giuseppe De Vitis, Daniela De Vitis, Luigi Chezza, Assunta
Stefano e Salvatore De Vitis adivano la Corte d’appello di Potenza per

indennizzo, ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n.89, in relazione
all’art. 6, paragrafo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(CEDU), del 4.11.1950, ratificata con legge n. 848/55. Processo presupposto
una procedura fallimentare aperta innanzi al Tribunale di Lecce nel 1993, cui
essi avevano partecipato in veste di creditori ammessi allo stato passivo.
Resisteva il Ministero.
Con decreto del 17.10.2013 la Corte d’appello di Potenza, stimata in otto
anni la durata ragionevole del procedimento presupposto e calcolata in dieci
armi quella eccedente il limite di ragionevolezza, liquidava in favore dei
ricorrenti la somma di £ 5.000,00 per ciascuno, in ragione di un moltiplicatore
annuo di € 500,00. Ciò tenuto conto dell’entità dei crediti azionati e del
comportamento processuale complessivo delle parti, che aveva rivelato un
modesto interesse alla rapida definizione della procedura concorsuale.
Per la cassazione di tale decreto Elvira Vernillo, Tamara Negro, Rocco
Stefano, Antonio Ozza, Giuseppe De Vitis, Daniela De Vitis, Luigi Chezza,
Assunta Stefano e Salvatore De Vitis propongono ricorso, affidato ad un
unico motivo.
Disposta ed effettuata la rinnovazione della notifica del ricorso
all’Avvocatura generale dello Stato, quest’ultima ha resistito con
controricorso.
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ottenere la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento d’un equo

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.

Con l’unico motivo è dedotta la violazione degli artt. 2 legge Pinto, 6,

paragrafo I CEDU, 2056 c.c. e 111 Cost., in connessione col vizio d’omesso
esame di un fatto controverso, in relazione, rispettivamente ai nn. 3 e 5

I ricorrenti sostengono che non si vede quale iniziativa avrebbero potuto
adottare per una sollecita definizione della procedura fallimentare, e
contestano il non elevato importo dei loro rispettivi crediti, che al contrario
erano tutt’altro che bagatellari (v. pag. 3 del ricorso: si tratterebbe di crediti
mai inferiori a 17 milioni del vecchio conio). Lamentano, inoltre, l’esigua&
della liquidazione, in contrasto con il parametro ordinario (750 euro per i
primi tre anni e 1000 per gli altri), richiamandosi espressamente a Cass. n.
18323/12 e ad altri precedenti della stessa Corte d’appello di Potenza. Si
dolgono, inoltre, della durata di 8 anni, ritenuta congrua, contro i 7 armi di
durata massima normalmente considerati dalla giurisprudenza EDU e di
questa Corte.
2. – Il motivo, che cumula in sé due censure, è solo parzialmente fondato.
2.1. – Per quanto riguarda l’ammontare annuo dell’indennizzo, come già
osservato in svariate fattispecie affatto analoghe (v. per tutte, Cass. n.
21849/14 che segue), “questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è
vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri
di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo
cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno
e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale
deve essere, di regola, non inferiore ad euro 750,00 per ogni anno di ritardo,
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dell’art. 360 c.p.c..

in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a
euro 1.000,00 per quelli successivi), permane tuttavia, in capo allo stesso
giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto
riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di

(Cass. n. 18617 del 2010; Cass. n. 17922 del 2010); che, nel caso di specie, la
Corte d’appello ha ritenuto di potersi discostare dagli ordinari criteri di
liquidazione dell’indennizzo, adottando quello di euro 500,00 per i primi tre
anni di ritardo, e quello di euro 600,00 per i successivi; che la Corte d’appello,
pur evocando il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis introdotto dal D.L.
n. 83 del 2012, art. 55 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012,
erroneamente ritenuto applicabile al caso di specie, si é attenuta ai criteri
elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (decisioni Volta, et autres
c. Italia, del 16 marzo 2010 e Falco et autres c. Italia, del 6 aprile 2010) e
recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., 18 giugno 2010, n.
14753; Cass., 10 febbraio 2011, n. 3271; Cass., 13 aprile 2012, n. 5914),
relativamente a giudizi amministrativi protrattisi per oltre dieci anni, per i
quali questa Corte é solita liquidare un indennizzo che, rapportato su base
annua, corrisponde a circa 500,00 euro per la durata del giudizio; che tale
approdo consente di escludere che un indennizzo di 500,00 euro per i primi
tre anni di ritardo e di 600,00 euro per ciascun anno successivo, possa essere
di per sé considerato irragionevole e quindi lesivo dell’adeguato ristoro che la
giurisprudenza della Corte Europea intende assicurare in relazione alla
violazione del termine di durata ragionevole del processo”.

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positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione

La procedura fallimentare non crea nei creditori insinuati un’ansia da
ritardo maggiore rispetto a quella collegata alla pendenza d’un processo
dichiarativo, ove si consideri che l’apprensione per il realizzo del credito
dipende di norma non dalla durata della procedura e dalle variabili connesse,

accompagna al (pur ontologicamente diverso) stato d’insolvenza. Nel
processo esecutivo il creditore teme i tempi e l’esito quantitativo
dell’espropriazione; in quello dichiarativo egli ha da temere, siccome incerto,
anche l’accertamento del suo credito, sicché in quest’ultimo caso il paterna
d’animo non può certo essere inferiore.
Del tutto consono alla connessione normativa tra la giurisprudenza EDU e
l’istanza nazionale di cui alla legge n. 89/01, dunque, è la misura
dell’indennizzo annuo fissato dalla Corte d’appello.
2.2. – Il provvedimento impugnato non è condivisibile, invece, li dove ha
elevato ad otto anni la durata massima ragionevole della procedura. Alla base
di tale esito decisorio vi è un’erronea interpretazione di Cass. n. 28318/09
(citata a pag. 3 del decreto), che ha indotto la Corte d’appello potentina a
ritenere che ai 7 anni di durata massima della procedura fallimentare potesse
aggiungersi legittimamente un ulteriore anno per la fase di riparto dell’attivo.
La citata sentenza di questa Corte recita altrimenti: “va conclusivamente

affermato che alla luce dell’orientamento sopra riportato e degli elementi
dianzi sintetizzati concernenti la procedura fallimentare, qualora non
emergano elementi a conforto della particolare semplicità della medesima,
può quindi identificarsi, in linea tendenziale, in anni sette il termine di
ragionevole durata, entro il quale essa dovrebbe essere definita. Ciò tenuto
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ma dalla sproporzione tra massa passiva e massa attiva che solitamente si

conto della ragionevole durata per tre gradi di giudizio (sei anni) dei
procedimenti incidentali nascenti dal fallimento nonché dell’ulteriore termine
necessario per il riparto dell’attivo (un anno).”.

In altri termini, detta sentenza non afferma che alla durata congrua di una

frazione di tempo ulteriore di un anno per la fase di riparto, ma che il tutto
debba durare non più di sette anni, esplicitando nel modo anzi detto le ragioni
che conducono a ritenere ragionevole nel massimo tale durata complessiva.
Pertanto, nella specie la durata eccedente della procedura va maggiorata di
un altro anno.
3. – Sulla base delle considerazioni svolte il decreto impugnato deve essere
cassato nei limiti anzi detti, e ricorrendone le condizioni di cui all’art. 384, 2°
comma, seconda ipotesi, c.p.c., la causa va decisa nel merito, liquidando in
favore di ciascun ricorrente, in aggiunta a quanto già liquidato dalla Corte
territoriale, l’indennizzo di E 500,00 in ragione dell’ulteriore anno di ritardo.
4. – Ferme ovviamente le spese di merito, non oggetto d’impugnazione,
quelle del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo,
seguono la soccombenza del Ministero resistente, con distrazione in favore
dei difensori antistatari.
P. Q. M.
La Corte accoglie in parte il ricorso, cassa il decreto impugnato e
decidendo nel merito condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in
favore di ciascun ricorrente dell’importo ulteriore di E 500,00, nonché delle
spese, che liquida in E 600,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali

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procedura fallimentare, stimabile fino a sette anni, possa aggiungersi una

forfettarie ed accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori
antistatari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile

2 della Corte Suprema di Cassazione, il 4.2.2016.

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