Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7005 del 25/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 25/03/2011, (ud. 11/01/2011, dep. 25/03/2011), n.7005

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTRANTO 39,

presso lo studio dell’avvocato CARDILLI RAFFAELE, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato MORO GIANCARLO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

AUCHAN S.P.A., (già LA RINASCENTE S.P.A), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F.

GONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato MANZI ANDREA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BORTOLUZZI ANDREA,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 428/2007 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 08/10/2007 R.G.N. 669/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato CARDILLI RAFFAELLE;

udito l’Avvocato REGGEO D’ACI ANDREA per delega MANZI ANDREA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 26/6 – 8/10/07 la Corte d’Appello di Venezia respinse l’appello proposto da C.R. avverso la sentenza emessa il 18/3/05 dal Tribunale di Padova, con la quale gli era stata rigettata la domanda diretta alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli il 2/2/00 dalla Rinascente spa ed alla conseguente reintegra nel posto di lavoro col ristoro dei danni subiti, e compensò per metà le spese del grado, condannando l’appellante al pagamento della residua metà.

La Corte territoriale addivenne a tale decisione dopo aver appurato che all’esito dell’istruttoria svolta in prime cure era stata provata la sussistenza dei fatti addebitati all’appellante, vale a dire l’aver consegnato al personale della sicurezza, in qualità di capo- reparto del settore di vendita di computers, telefoni, articoli fotografici, musicali e libri, un verbale di distruzione di merce obsoleta in cui era segnalato un numero di articoli (146) nettamente inferiore a quello effettivamente inviato al macero (371) e all’esistenza in questo di materiale in ottimo stato e rivendibile.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il C., affidando l’impugnazione a due motivi di censura. Resiste la Auchan S.p.A. (già La Rinascete s.p.a.) con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 2106 e 2727 c.c. e art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 oltre che l’omessa e contraddittoria motivazione circa più punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ponendo il seguente quesito di diritto: “il procedimento disciplinare può dirsi rispettato per il caso in cui il datore di lavoro irroghi una sanzione sulla base di un presupposto diverso, nella sua struttura materiale, dalla realtà fattuale?” In pratica, il ricorrente si duole del fatto che i giudici dell’appello avrebbero acriticamente ratificato, in spregio alle risultanze istruttorie, le allegazioni della datrice di lavoro miranti ad accreditare la tesi di una sua dolosa preordinazione nell’attuazione dei comportamenti contestatigli e posti a base del licenziamento. In particolare il C. segnala il problema irrisolto rappresentato dal fatto che gli elenchi del materiale allegati dalla controparte erano composti da sette pagine anzichè da nove, quante erano quelle trasmessegli dai due sottoposti affinchè procedesse alle incombenze di sua competenza, per cui era risultato non provato un presupposto di fatto su cui poggiava l’azione disciplinare, con conseguente violazione del diritto di difesa:

invero, la mancanza delle due pagine dava adito, secondo il suo assunto, a non pochi dubbi sulla stessa effettività del contestato scostamento tra il numero complessivo dei prodotti che sarebbero stati inviati al macero (371) e quello dei prodotti indicati nella lista di riferimento (146) da lui redatta, nè una tale incertezza di fondo avrebbe potuto essere colmata con l’utilizzo delle prove testimoniali, mentre più correttamente i giudici del merito avrebbero potuto avvalersi dei loro poteri ufficiosi per ordinare alla controparte l’esibizione dei documenti mancanti. Nè potevano sottacersi, a dire del ricorrente, quei comportamenti della controparte posti in essere in violazione dei principi di correttezza e buona fede, quali la mancata comparizione nella fase del tentativo obbligatorio di conciliazione, la produzione incompleta dei suddetti documenti e, da ultimo, l’interferenza sul teste T., il quale aveva dichiarato di aver concordato il giorno prima il contenuto della propria deposizione con la rappresentante legale della società. Il motivo è infondato.

Anzitutto, occorre rilevare che il fatto oggetto della contestazione disciplinare non era per nulla diverso dalla realtà fattuale, se per questa deve logicamente intendersi quella emersa all’esito degli accertamenti complessivamente svolti, vale a dire quelli risultati dall’esame della prova documentale, composta di sette liste su nove dei prodotti consegnati per il macero, e della prova testimoniale, che consentì ai giudici di merito di appurare la assoluta discrepanza dei dati tra la merce da destinare al macero, come risultante apparentemente dalle predette liste (146 articoli), e quella realmente predisposta per lo stesso fine ma non riportata nei suddetti elenchi (371 articoli in tutto, tra i quali beni ancora vendibili per un valore di lire venti milioni circa e beni che potevano essere resi ai rispettivi fornitori in base a specifici accordi commerciali). Dalla stessa istruttoria era, altresì, emerso che nel materiale inviato al macero figuravano confezioni di telefoni “cordless” integre, ma vuote, che nel corso dell’inventario effettuato il 10/1/2000 erano risultati mancanti beni del reparto della telefonia mobile e che da parte del C. non erano state fornite spiegazioni sulle ragioni per le quali parte del materiale era stato dichiarato non funzionante.

Quindi, la prova testimoniale attentamente valutata dalla Corte territoriale, così come si evidenzia dalla lettura della motivazione impugnata, consente di ritenere superata ogni residuale ragione di dubbio sul contenuto numerico degli articoli che potevano essere indicati nelle due liste mancanti all’appello, anche a non voler considerare l’argomentazione del giudice d’appello, altrettanto logica, che verosimilmente esse non potessero riportare l’elencazione dei restanti 225 articoli risultati eccedenti rispetto ai 146 dichiarati, per cui nemmeno può ritenersi che la dedotta mancanza di due documenti su nove rappresentasse realmente un elemento decisivo ai fini della valutazione del comportamento contestato al C. e posto a base del provvedimento disciplinare.

Non va, infatti, dimenticato che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 cod. proc. civ., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.” (ex plurimis Cass. Sez. Lav. n. 15355 del 9/8/2004).

Come spiegato in precedenza, la motivazione che sorregge la decisione impugnata è basata sulla verifica dei riscontri incrociati tra esiti documentali ed esiti delle prove orali condotta secondo un criterio assolutamente logico, come tale immune da vizi di legittimità che possano inficiarne l’intrinseca validità. Altrettanto corretta è la decisione nella parte in cui rileva che non vi è prova sul fatto che l’incompletezza della documentazione prodotta in atti dalla datrice di lavoro potesse ascriversi ad un suo comportamento negligente o sleale, così come nessuna conseguenza processuale poteva trarsi dalla sua mancata presentazione al tentativo obbligatorio di conciliazione, mentre nessun sospetto era stato avanzato dalla difesa del lavoratore sull’attendibilità del teste T..

2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2104, 2106 c.c., artt. 146 e 151 c.c.n.l. del settore commercio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ponendo il seguente quesito di diritto: “Un dipendente con funzioni direttive (caporeparto) che non ha commesso personalmente alcuna infrazione sul piano disciplinare, può essere licenziato per i comportamenti negligenti posti in essere dai collaboratori dal medesimo coordinati in virtù di un’ipotizzata “culpa in vigilando” per il caso in cui i predetti collaboratori non abbiano subito alcuna sanzione, nemmeno conservativa?” Il motivo è infondato.

Invero, è agevole osservare che il dubbio posto col quesito dal ricorrente non ha ragion d’essere per la semplice ragione che attraverso lo stesso viene presupposto un dato di fatto, vale a dire il licenziamento per presunti comportamenti posti in essere dai collaboratori del ricorrente, che non trova alcun riscontro nella sentenza impugnata, per cui lo stesso quesito si rivela assolutamente inconferente. Infatti, nella sentenza impugnata fu trattato il licenziamento dell’odierno ricorrente per fatti ascrivibili al suo operato e non a quello dei suoi collaboratori.

Quanto ai residui dubbi sollevati con lo stesso motivo in ordine alla proporzionalità della sanzione inflitta, seppur non riportati direttamente nel quesito finale, è agevole rilevare che l’inosservanza ai compiti di vigilanza, così come contestata al C., è risultata provata e particolarmente grave, come emerso nella fattispecie all’esito della valutazione del materiale istruttorio condotta con metodo logico-giuridico immune da censure, a nulla rilevando il fatto che a carico dei suoi collaboratori non fossero stati mossi addebiti; anzi, quest’ultima circostanza mette in maggior risalto il suo grado di responsabilità connesso all’autonomia di cui godeva e all’importanza apicale delle sue funzioni di controllo, il cui mancato svolgimento in relazione ad un numero così elevato di merce non dichiarata e di considerevole valore non poteva non incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario che avrebbe dovuto contraddistinguere costantemente il suo rapporto con la società, così come puntualmente evidenziato dal giudice d’appello con argomentazioni congrue e del tutto logiche, immuni, come tali, da rilievi di legittimità nel presente giudizio.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condannala ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3500,00 per onorario e di Euro 25,00 per esborsi, oltre spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2011

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