Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7003 del 25/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 25/03/2011, (ud. 10/11/2010, dep. 25/03/2011), n.7003

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

FONDAZIONE TEATRO DELL’OPERA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope

legis;

– ricorrente –

contro

K.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARCELLO

PRESTINARI 15, presso lo studio dell’avvocato FUSILLO ANTONIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PUSILLO ALESSANDRO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8882/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/11/2009 R.G.N. 6520/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato BRUNI ALESSANDRA (per AVVOCATURA);

udito l’Avvocato FUSILLO ALESSANDRO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. La Fondazione Teatro dell’Opera chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Roma, pubblicata il 30 novembre 2009, che, accogliendo l’appello, l’ha condannata al pagamento al direttore d’orchestra G.K. della somma di 664.680,02 Euro, a titolo di risarcimento danni.

2. Il maestro K. sottoscrisse con il Teatro dell’Opera tredici contratti di scrittura artistica per il 1986-1987, sei dei quali non poterono avere seguito per mutamenti della programmazione del teatro.

Le parti composero la controversia che ne derivò con la scritturazione del K. per altre quattro opere nel corso del 1990.

Vennero stipulate una serie di transazioni, la cui efficacia era subordinata all’approvazione da parte dei Ministeri vigilanti.

Approvazione che non venne mai concessa.

3. Il maestro convenne in giudizio il teatro per inadempimento per colpa grave in ordine ai contratti transattivi del 1990. La causa si risolse favorevolmente per lui in primo grado, mentre in secondo grado risultò vittorioso il teatro e la Cassazione respinse il ricorso contro la decisione di appello.

4. Il K. propose però un nuovo ricorso nel 2005 con il quale chiedeva il pagamento dei compensi per le prestazioni dovute in forza dei contratti originari, del 1986-87.

5. Il Teatro dell’Opera rimase contumace.

6. Il Tribunale dichiarò inammissibile il ricorso per nullità della procura rilasciata al difensore.

7. La Corte d’Appello, accogliendo l’appello del maestro K., ha riformato la decisione. Rigettata l’eccezione di nullità, ha accolto la domanda, condannando il teatro a corrispondere all’appellante, a titolo di risarcimento del danno, la somma di 664.680,02 Euro, oltre accessori e spese.

8. Il Teatro ricorre per cassazione articolando sei motivi di ricorso. Il maestro K. si difende con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.

9. Con il primo motivo si denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 324 cod. proc. civ., in quanto la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto infondata l’eccezione di giudicato sollevata dalla difesa del teatro. Anche il secondo motivo verte su questo tema, ma sotto il profilo del vizio di motivazione.

10. La tesi sostenuta dalla fondazione è che il diritto di credito azionato in entrambi i giudizi “si basava sullo stesso fatto costitutivo, poichè unica fonte dell’asserita pretesa risarcitoria era ed è costituita dai contratti stipulati nel 1986-1987, successivamente oggetto di transazione novativa”. Il relativo quesito di diritto è: se in relazione ad un’unica fonte contrattuale come titolo di pretesa, sussista o meno giudicato nell’ipotesi in cui la pretesa sia fatta valere in un secondo giudizio con una diversa prospettazione giuridica, ma con identità di petitum e causa petendi.

11. La tesi non è fondata perchè il diritto azionato nei due giudizi non è lo stesso e petitum e causa petendi sono diversi. Con il primo giudizio il maestro agiva “per sentire accertare e dichiarare l’inadempimento contrattuale per colpa grave del teatro relativamente ai quattro contratti 4402, 4403, 4404 e 4405 stipulati nel 1990” e “condannarlo per questo al pagamento della somma complessiva di L.. 570.000.000 quale compenso pattuito per le sue prestazioni professionali” (così il ricorso per cassazione della fondazione, pag. 3). Con il secondo giudizio il K. sostenne che per effetto della caducazione dei contratti di transazione su indicati si era verificata una reviviscenza dei contratti stipulati in precedenza, nel 1986-87; risolti questi ultimi – secondo il K. – per fatto e colpa dell’ente convenuto, con conseguente danno per il direttore d’orchestra, che questi chiedeva liquidarsi in 664.680,02 Euro.

12. Il diritto azionato, la domanda e le ragioni giuridiche della stessa sono diversi e, quindi, manca il presupposto del ragionamento della fondazione costituito dalla asserita identità di fatti costitutivi del diritto, petitum e causa petendi.

13. Connessi sono anche il terzo ed il quarto motivo. Con il terzo si denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 1353 cod. civ.. Il quesito proposto è: “se l’inefficacia degli accordi stipulati in via di transazione novativa (con soggetto di diritto pubblico), per mancato avveramento della condizione sospensiva pattiziamente apposta dalle parti e ad esse non imputabile, comporti automaticamente la reviviscenza dei rapporti pregressi, ormai definitivamente estinti con la transazione medesima e quindi se sia conseguentemente ammissibile e proponibile la richiesta volta ad ottenere il risarcimento del danno”. Con il quarto si assume che sarebbero stati violati gli artt. 1362 e 1365 c.c., perchè sarebbe stata violata la clausola delle transazioni per cui “il presente contratto annulla altri contratti di scrittura stipulati nel 1987 e costituisce il risultato, sotto il profilo economico, di una transazione tra le parti”.

14. Non si comprende come e perchè sarebbe stata violata dalla Corte la norma indicata a fondamento del motivo e cioè l’art. 1353 c.c..

Tale disposizione si limita ad affermare che le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto ad un avvenimento futuro ed incerto. Nel caso in esame è pacifico che le parti hanno sottoposto le transazioni ad una condizione che non si è realizzata. L’inefficacia delle transazioni ripropone, ineluttabilmente, i problemi del rapporto oggetto della transazione e le questioni attinenti al risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento dei contratti originari.

15. Quanto alla violazione delle norme dettate dagli artt. 1362 e 1365 c.c. nella interpretazione della clausola contrattuale su riportata, il problema ermeneutico, peraltro delineato in modo generico, si sarebbe posto qualora il contratto (e, al suo interno, quella clausola) avesse acquisito efficacia, cosa che nel caso in esame non si è verificata.

16. Con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c., in combinato disposto con gli artt. 82 e 125 c.p.c.. Viene qui riproposta la posizione che portò il Tribunale a dichiarare la nullità del ricorso perchè il potere del difensore di certificare l’autografia della procura non sussiste per le procure rilasciate all’estero.

17. La tesi si basa sul presupposto che la procura al difensore fosse stata rilasciata all’estero, ma tale presupposto non è stato provato. Come ha ben messo in rilievo la Corte d’Appello, quando l’autenticazione viene effettuata da un difensore che esercita l’attività sul territorio italiano, il rilascio del mandato e la relativa autenticazione devono presumersi avvenuti in Italia, senza che tale r presunzione possa ritenersi superata per il solo fatto che il cliente non sia italiano e risieda all’estero (cfr. al riguardo cass. 13/3/2007 n. 5840, Cass. 1/8/2001 n. 10485).

Gli argomenti della fondazione sono che il K. è di nazionalità austriaca, risiede stabilmente all’estero e dispone di un collegio di avvocati composto anche da difensori esercenti all’estero. Le prime due circostanze non sono decisive, perchè il fatto che una persona sia straniera e risieda all’estero non esclude di per sè che egli si sia recato nella studio dell’avvocato italiano e gli abbia conferito in quella sede il mandato per una causa da svolgersi in Italia.

L’ultima circostanza è anche destituita di supporto probatorio.

18. Con il sesto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione 184 bis c.p.c., in relazione a art. 1337 c.c., ai fini della proposizione della eccezione di prescrizione.

19. L’inefficacia delle transazioni e la vigenza dei contratti preesistenti ha fatto si che la controversia introdotta nel 2005 abbia riguardato diritti risalenti al 1987, per i quali si poneva un problema di prescrizione. Tuttavia, la prescrizione non opera automaticamente, ma solo su eccezione di parte (art. 2938 c.c.: “il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta”).

Nel caso in esame la prescrizione non fu tempestivamente eccepita dalla fondazione che ne aveva l’onere.

20. La fondazione assume che avrebbe omesso di eccepire la prescrizione perchè erano in corso trattative di bonario componimento della lite. Per tale motivo ha chiesto di essere rimessa in termini.

21. L’art. 184 bis c.p.c., introdotto nel 1990 e abrogato nel 2009 (dalla L. n. 69 del 2009 che peraltro ha riproposto la disposizione nell’art. 153 c.p.c., comma 2), ma applicabile ratione temporis a questo processo, sotto il titolo “Rimessione in termini” dispone(va):

22. “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’art. 294, comma 2 e 3”.

23. I due commi dell’art. 294 richiamati dispongono: “Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell’impedimento, e, quindi, provvede sulla rimessione in termini delle parti (secondo comma). I provvedimenti previsti nel comma precedente sono pronunciati con ordinanza” (terzo comma).

24. E’ necessaria, pertanto, un’istanza di parte al giudice. Il giudice deve valutare la verosimiglianza di quanto esposto ed ammettere eventuali prove. Deve quindi pronunciarsi con ordinanza.

Nel caso in esame, la fondazione non da conto di aver formulato tale istanza, ma si limita ad affermare, genericamente, di “aver opportunamente evidenziato di non essersi costituito in giudizio in quanto pendevano trattative con la controparte”.

25. I motivi che vengono addotti a sostegno della richiesta, poi, oltre che generici perchè non vengono precisati tempi e contenuti delle trattative, sono del tutto inadeguati.

26. L’art. 184 bis richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una “causa non imputabile” alla parte. L’art. 294 richiede la prova dell’impedimento. I concetti di causalità, di non imputabilità e impedimento indicano che la omissione da cui è derivata la decadenza deve essere stata determinata da un fattore estraneo alla volontà della parte. Rimangono fuori da quest’area scelte discrezionali, dettate da ragioni di opportunità. Tale è sicuramente la scelta, certo non imposta da fattori cogenti, di non eccepire la prescrizione del diritto perchè erano in corso trattative con la controparte.

27. Una rimessione in termini in casi in cui la scelta che ha determinato la decadenza sia stata di questo tipo, oltre a travalicare i limiti della norma, rendendola possibile fonte di abusi, violerebbe i principi enunciati dall’art. 111 Cost., perchè introdurrebbe un motivo di irragionevole durata del processo e, soprattutto, si porrebbe in contrasto con le condizioni di parità che devono essere garantite alle parti dinanzi al giudice.

28. Questa ricostruzione trova conferma nella nuova disciplina della materia introdotta, con l’aggiunta di un art. 153 c.p.c., comma 2, dalla medesima legge che ha abrogato l’art. 184 bis c.p.c. (L. 18 giugno 2009, n. 69). Tale intervento ha ampliato la portata dell’istituto con una duplice operazione. In primo luogo, la norma è stata estratta dal titolo primo (“del procedimento davanti al Tribunale”) del libro secondo (“del processo di cognizione”) del codice di rito e collocata all’interno della disciplina dei “termini” dettata nel libro primo dedicato alle “disposizioni generali”. In secondo luogo, laddove si parlava di giudice istruttore, ora si parla di giudice senza connotazioni. In tal modo il principio è stato esteso al di là della sua portata originaria. Per il resto è rimasto lo stesso: si è quindi riaffermato che la parte che chiede la rimessione deve dimostrare di essere incorsa in decadenze “per causa ad essa non imputabile”, così come si è confermato il rinvio all’art. 294 (per la statuizione che la rimessione di termini può essere disposta solo a favore della parte minore incolpevolmente in decadenza cfr. ex pluris: Cass. 3.7.2008 n. 18203).

29. In conclusione, deve affermarsi il presente principio di diritto:

“la rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall’art. 184 bis, che in quella di più ampia portata ora prevista dall’art. 153 c.p.c., comma 2, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte e sia dipesa da un impedimento, cioè dall’intervento ostativo di un fattore estraneo alla volontà della parte”. Non rilevano dunque di ceto a tal fine scelte discrezionali, dettate da ragioni di opportunità, come quella di non eccepire la prescrizione di un diritto per non compromettere una trattative.

30. Il ricorso, quindi, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

PQM

Per tale motivo

in termini.

21. L’art. 184 bis c.p.c., introdotto nel 1990 e abrogato nel 2009 (dalla L. n. 69 del 2009 che peraltro ha riproposto la disposizione nell’art. 153 c.p.c., comma 2), ma applicabile ratione temporis a questo processo, sotto il titolo “Rimessione in termini” dispone(va):

22. “La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’art. 294, comma 2 e 3”.

23. I due commi dell’art. 294 richiamati dispongono: “Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell’impedimento, e, quindi, provvede sulla rimessione in termini delle parti (secondo comma). I provvedimenti previsti nel comma precedente sono pronunciati con ordinanza” (terzo comma).

24. E’ necessaria, pertanto, un’istanza di parte al giudice. Il giudice deve valutare la verosimiglianza di quanto esposto ed ammettere eventuali prove. Deve quindi pronunciarsi con ordinanza.

Nel caso in esame, la fondazione non da conto di aver formulato tale istanza, ma si limita ad affermare, genericamente, di “aver opportunamente evidenziato di non essersi costituito in giudizio in quanto pendevano trattative con la controparte”.

25. I motivi che vengono addotti a sostegno della richiesta, poi, oltre che generici perchè non vengono precisati tempi e contenuti delle trattative, sono del tutto inadeguati.

26. L’art. 184 bis richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una “causa non imputabile” alla parte. L’art. 294 richiede la prova dell’impedimento. I concetti di causalità, di non imputabilità e impedimento indicano che la omissione da cui è derivata la decadenza deve essere stata determinata da un fattore estraneo alla volontà della parte. Rimangono fuori da quest’area scelte discrezionali, dettate da ragioni di opportunità. Tale è sicuramente la scelta, certo non imposta da fattori cogenti, di non eccepire la prescrizione del diritto perchè erano in corso trattative con la controparte.

27. Una rimessione in termini in casi in cui la scelta che ha determinato la decadenza sia stata di questo tipo, oltre a travalicare i limiti della norma, rendendola possibile fonte di abusi, violerebbe i principi enunciati dall’art. 111 Cost., perchè introdurrebbe un motivo di irragionevole durata del processo e, soprattutto, si porrebbe in contrasto con le condizioni di parità che devono essere garantite alle parti dinanzi al giudice.

28. Questa ricostruzione trova conferma nella nuova disciplina della materia introdotta, con l’aggiunta di un art. 153 c.p.c., comma 2, dalla medesima legge che ha abrogato l’art. 184 bis c.p.c. (L. 18 giugno 2009, n. 69). Tale intervento ha ampliato la portata dell’istituto con una duplice operazione. In primo luogo, la norma è stata estratta dal titolo primo (“del procedimento davanti al Tribunale”) del libro secondo (“del processo di cognizione”) del codice di rito e collocata all’interno della disciplina dei “termini” dettata nel libro primo dedicato alle “disposizioni generali”. In secondo luogo, laddove si parlava di giudice istruttore, ora si parla di giudice senza connotazioni. In tal modo il principio è stato esteso al di là della sua portata originaria. Per il resto è rimasto lo stesso: si è quindi riaffermato che la parte che chiede la rimessione deve dimostrare di essere incorsa in decadenze “per causa ad essa non imputabile”, così come si è confermato il rinvio all’art. 294 (per la statuizione che la rimessione di termini può essere disposta solo a favore della parte minore incolpevolmente in decadenza cfr. ex pluris: Cass. 3.7.2008 n. 18203).

29. In conclusione, deve affermarsi il presente principio di diritto:

“la rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall’art. 184 bis, che in quella di più ampia portata ora prevista dall’art. 153 c.p.c., comma 2, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte e sia dipesa da un impedimento, cioè dall’intervento ostativo di un fattore estraneo alla volontà della parte”. Non rilevano dunque di ceto a tal fine scelte discrezionali, dettate da ragioni di opportunità, come quella di non eccepire la prescrizione di un diritto per non compromettere una trattative.

30. Il ricorso, quindi, deve essere rigettato. Le spese devono essere poste a carico della parte che perde il giudizio.

P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la fondazione ricorrente alla rifusione, in favore della controparte, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30,00, nonchè 10.000,00 Euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2011

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