Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6995 del 12/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/03/2021, (ud. 29/10/2020, dep. 12/03/2021), n.6995

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1441/1COCZO R.G. proposto da:

Azzani Pietro Metalli sas di A.G. & C.,

A.G., P.I., rappresentati e difesi dagli avv.ti

Domenico D’Arrigo, Giuseppe Cerasaniti (Ndr: testo originale non

comprensibile) con domicilio eletto in Roma, via M. Prestinari n. 13

presso lo studio dell’avv. Giuseppe Ramadori;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 232/63/11, depositata

l’11 ottobre 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 ottobre

2020 dal Consigliere Enrico Manzon.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 232/63/11, depositata l’11 ottobre 2011, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, respingeva l’appello proposto da Azzani Pietro Metalli sas di A.G. & C., A.G. e P.I. avverso la sentenza n. 21/12/10 della Commissione provinciale tributaria di Brescia che ne aveva respinto i ricorsi contro gli avvisi di accertamento e le cartelle esattoriali per imposte dirette ed IVA 2006.

La CTR, per quanto in questo giudizio rileva, osservava in particolare che:

– vi erano prove più che sufficienti per ritenere asseverata la base fattuale delle riprese fiscali portate dagli atti impositivi impugnati, sostanzialmente imperniate sulla falsità delle fatture emesse da soggetto terzo ( P. di D.M.) ed utilizzate dalla società contribuente;

– doveva altresì affermarsi che la società medesima fosse pienamente consapevole e compartecipe della frode, tanto che il suo legale rappresentante aveva patteggiato la pena per il correlato reato contestatogli nel parallelo processo penale;

– che i costi derivanti dalla accertata falsa fatturazione non potevano essere dedotti dalla base imponibile delle imposte dirette di periodo, risultando inapplicabile la disposizione di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis;

– che in base al modulo attuativo speciale c.d. del reverse charge, applicabile nel caso di specie per la tipologia delle operazioni in contesto (commercio di materiali ferrosi di risulta), l’IVA doveva essere versata direttamente dalla società contribuente, quale cessionaria delle merci.

Avverso la decisione hanno proposto ricorso per cassazione i contribuenti deducendo cinque motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Il PG ha concluso per il parziale accoglimento del quinto motivo e per il rigetto degli altri motivi.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Appare opportuno esaminare congiuntamente anzitutto il primo ed il terzo motivo, trattandosi di mezzi con i quali – analogamente – i ricorrenti, secondo la previgente previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamentano il vizio di motivazione della sentenza impugnata, rispettivamente in ordine alla falsità soggettiva delle fatture passive oggetto delle riprese fiscali ed alla deduzione dei costi relativi alle fatture medesime.

Tali censure sono inammissibili e comunque infondate.

Va ribadito che:

– “La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (Cass., n. 19547 del 04/08/2017, Rv. 645292 – 01);

– “Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass., n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).

L’articolazione delle censure collide con i limiti del giudizio di questa Corte fissati dai citati consolidati arresti giurisprudenziali, poichè esse attingono chiaramente al meritum causae, il giudizio sul quale è riservato al giudice tributario di appello, chiedendone inammissibilmente una “revisione”.

Peraltro va sottolineato che la CTR lombarda, ben oltre il “minimo costituzionale” (Cass., Sez. U, n. 8053/2014), ha diffusamente e puntualmente argomentato in ordine alle prove indiziarie relative alla falsità soggettiva (dal lato del soggetto emittente) delle fatture in oggetto nonchè sulla indeducibilità dei relativi costi, affermando, con considerazioni stringenti ed immuni da vizi logici, il mancato assolvimento del relativo onere probatorio da parte della società contribuente.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti si dolgono della violazione/falsa applicazione degli artt. 56 e 109 TUIR, poichè la CTR ha escluso la deduzione dei costi relativi alle fatture di acquisto dall’impresa individuale P..

La censura è inammissibile.

Va ribadito che:

– “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017);

– “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015).

Il mezzo in esame è all’evidenza formulato in contrasto con i principi di diritto derivanti da tali arresti giurisprudenziali, non ponendosi con lo stesso una questione di errata interpretazione delle disposizioni legislative evocate nè della loro non corretta applicazione nel caso di specie, ma soltanto in ultima analisi una critica al giudizio fattuale del giudice tributario di appello sulla deduzione dei costi de quibus, peraltro già, altrettanto inammissibilmente, censurata con il primo ed il terzo mezzo.

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti lamentano la violazione/falsa applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, poichè la CTR ha affermato l’indeducibilità dei costi rivenienti dalle fatture de quibus, nonostante che non vi sia stato un accertamento vincolante sulla riconducibilità dei costi stessi ad un reato e comunque in quanto tale deduzione debba farsi rientrare nel novero dei “diritti costituzionalmente riconosciuti”, in particolare dall’art. 53 Cost..

La censura è fondata, ancorchè non nella sua formulazione originaria, bensì, anche, in considerazione delle ragioni, peraltro rilevabili ex officio, esposte nella memoria illustrativa depositata dalla difesa dei ricorrenti.

Dopo il deposito della sentenza di appello e dopo la proposizione del ricorso per cassazione, vi è stata infatti la novellazione della disposizione legislativa di riferimento nel caso di specie, essendosi in particolare modificato il testo della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, che, innovativamente, prevede ora che “Nella determinazione dei redditi di cui al TUIR, art. 6, comma 1, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p., ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dello cit. codice, art. 425, fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi del cit. codice, art. 425, fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi” (testo introdotto con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1).

Peraltro contestualmente (D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 3) si è altresì preveduto che “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis, previgente non si siano resi definitivi. Resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2, anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive”.

Questa Corte ha, consolidatamente, interpretato tali disposizioni legislative nel senso che “In tema di imposte sui redditi, la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012, che, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, consente all’acquirente, anche quando consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, di dedurre i costi di beni e servizi non utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma per essere commercializzati, a meno che non contrastino coi principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, si applica, ai sensi del citato D.L., art. 8, comma 3, anche ad atti, fatti o attività posti in essere prima della sua entrata in vigore” (ex multis, v. Cass., n. 4645 del 21/02/2020, Rv. 657347 – 02).

A causa di tale jus superveniens e della correlativa, uniforme, giurisprudenza di legittimità, la sentenza impugnata va dunque cassata, dovendo il giudice del rinvio fare applicazione delle disposizioni legislative delle quali non poteva tenere conto il primo giudice tributario di appello, in quanto successivamente emanate, particolarmente alla luce del principio di diritto di cui all’arresto giurisprudenziale citato.

In particolare il giudice territoriale dovrà rinnovare il giudizio di merito sul punto decisionale de quo, non arrestandosi alla questione della falsità soggettiva delle fatture alle quali si riferiscono i costi in contesto, ma verificando in concreto se tali costi abbiano le caratteristiche di “effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità” in via generale prescrittte ai fini della deducibilità dalla base imponibile delle II.DD. dall’art. 109, TUIR.

Con il quinto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – i ricorrenti deducono la violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, e art. 74, comma 7, poichè la CTR ha applicato la norma sull’indetraibilità dell’IVA in caso di fatture soggettivamente inesistenti, pur trattandosi di un caso nel quale era applicabile l'”inversione contabile” (reverse charge).

In ordine a tale mezzo va rilevato che con la memoria illustrativa la difesa dei ricorrenti ha dato atto che, con provvedimento n. 5066 in data 15 marzo 2018, l’Agenzia delle entrate, Ufficio locale, ha annullato in autotutela (parziale) l’atto impositivo impugnato nella parte relativa alla ripresa per IVA e sanzioni correlate.

Tale circostanza è stata peraltro pienamente confermata dalla difesa erariale, che ha anche depositato una nota in tal senso della Agenzia delle entrate, DRE Lombardia, in data 15 gennaio 2018. Deve pertanto dichiararsi la cessazione della materia del contendere in ordine a tale censura.

In conclusione, dichiarata cessata la materia del contendere relativamente al quinto motivo del ricorso, accolto il quarto motivo, rigettati il primo, il secondo ed il terzo motivo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR lombarda per nuovo esame ed anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte, dichiara cessata la materia del contendere in ordine al quinto motivo del ricorso, accoglie il quarto motivo, rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021

 

 

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