Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6976 del 12/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/03/2021, (ud. 29/09/2020, dep. 12/03/2021), n.6976

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – rel. Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1668-2016 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA AURELIANA 25,

presso lo studio dell’avvocato ANTONIA SCIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FABIO RUSSO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6057/2015 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 18/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/09/2020 dal Consigliere Dott. MARIA ELENA MELE;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. MUCCI ROBERTO, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso, con le conseguenze di legge.

 

Fatto

RITENUTO

che:

Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, con sentenza n. 2309/2009 del 29.9.2009, a seguito dell’azione di responsabilità promossa dalla curatela fallimentare COSTAM srl, aveva condannato al risarcimento del danno, tra gli altri, P.A., quale componente del collegio sindacale della società.

L’Agenzia delle entrate notificava al P. avviso di liquidazione dell’imposta di registro relativa a tale pronuncia, quale obbligato in solido insieme alle altre parti in causa al pagamento dell’imposta.

Il P. proponeva ricorso avverso tale atto avanti alla Commissione tributaria provinciale di Caserta sul presupposto della propria estraneità ai fatti, sostenendo di non aver mai ricoperto la carica di sindaco della società e di aver proposto querela di falso nel giudizio civile avverso il certificato camerale dal quale risultava che egli avesse rivestito detta carica.

La Commissione provinciale rigettava il ricorso.

Avverso tale pronuncia il P. proponeva appello avanti alla Commissione tributaria regionale della Campania che, con sentenza n. 6057/23115 pronunciata il 21.4.2015 e depositata il 18.6.2015, accoglieva il gravame sulla base sia della ordinanza della Corte d’Appello di Napoli che sospendeva il processo civile in attesa dell’esito della querela di falso proposta dal P. avverso il certificato camerale dal quale risultava la sua accettazione della carica di sindaco, sia degli esiti del giudizio penale di primo grado instaurato a seguito di denuncia del P.. In tale processo, infatti, Francesco Cilea aveva ammesso di aver abusato del nome del P. ed era stato perciò condannato per aver falsificato la sottoscrizione dell’accettazione alla carica di sindaco della COSTAM da parte del P. medesimo.

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso, affidato a due motivi, avverso tale sentenza della Commissione tributaria regionale.

Il contribuente ha resistito con controricorso assistito da successiva memoria ex art. 380 bis.1, c.p.c. con la quale ha dedotto e documentato che la Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 1284, depositata il 21 marzo 2018, intervenuta nelle more del giudizio di cassazione, in parziale riforma della sentenza assoggettata a tassazione, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere nei confronti del P. a seguito della rinuncia da parte della curatela fallimentare alla domanda proposta nei confronti del medesimo.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate deduce la violazione del combinato disposto dell’art. 2909 c.c., art. 295 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39,D.P.R. n. 131 del 1986, art. 57, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in quanto, essendo stato il P. condannato dal tribunale in primo grado, nelle more del giudizio di appello, il medesimo non poteva essere considerato estraneo al giudizio di responsabilità civile al cui esito era stata pronunciata la sentenza sottoposta a tassazione. La CTR avrebbe dovuto sospendere il giudizio ex art. 295 c.p.c., applicabile anche al processo tributario, in attesa dell’esito del giudizio civile. Inoltre, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39, la proposizione nel giudizio civile della querela di falso avrebbe imposto la sospensione del giudizio tributario.

Il giudice di appello avrebbe basato il proprio convincimento su due pronunce, la sentenza penale di primo grado, e il provvedimento della Corte d’appello che sospendeva il giudizio di merito a fronte della proposizione della querela di falso, nonostante che entrambi i giudizi fossero ancora pendenti.

Inoltre, la CTR non avrebbe potuto fondare la decisione su una sentenza penale non definitiva, dovendo vagliarne in modo autonomo la rilevanza nell’ambito del giudizio tributario, tenuto altresì conto che le dichiarazioni confessorie rese nel procedimento penale dal reo, così come la prova testimoniale, non potevano trovare ingresso nel processo tributario.

Il primo motivo è infondato.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, la sospensione necessaria del processo, di cui all’art. 295 c.p.c., è applicabile anche al processo tributario qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità, tale che la definizione dell’uno costituisca indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati (Cass., Sez. 5, n. 21765 del 2017, Rv. 645619-01; Sez. 5, n. 31112 del 2019, Rv. 656285-02; Sez. 1, n. 12999 del 2019, Rv. 653913-01).

Nel caso di specie non ricorrono tali presupposti, non essendo ravvisabile detto rapporto di pregiudizialità tra il processo civile, concernente la responsabilità civile del contribuente e il giudizio tributario, avente ad oggetto l’applicazione dell’imposta di registro in relazione alla sentenza emessa all’esito del giudizio civile.

Neppure ricorrevano i presupposti di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39 a mente del quale, ove sia proposta querela di falso, il giudice tributario sospende il giudizio fino al passaggio in giudicato della decisione in ordine alla querela stessa (o fino a quando non si sia altrimenti definito il relativo giudizio), trattandosi di accertamento pregiudiziale riservato ad altra giurisdizione, e di cui egli non può conoscere neppure incidenter tantum.

Il richiamo a tale disposizione è nella specie inconferente, dal momento che essa disciplina l’ipotesi in cui la querela di falso sia stata presentata nell’ambito del giudizio tributario, laddove, nella fattispecie la querela risulta presentata dal P. nell’ambito del giudizio civile di responsabilità. In ogni caso, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, in caso di presentazione di detta querela, “anche nel processo tributario il relativo giudice non deve semplicemente prenderne atto e sospendere il giudizio, ma è tenuto a verificare la pertinenza di tale iniziativa processuale in relazione al documento impugnato e la sua rilevanza ai fini della decisione” (Cass., Sez. 6-5, n. 28671 del 2017, Rv. 646429-01; Sez. 5, n. 8046 del 2013, Rv. 626256-01).

Neppure con riguardo al processo penale opera l’art. 295 c.p.c. in quanto, nell’ambito del contenzioso tributario, la sentenza penale costituisce semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario. Pertanto, anche nel caso in cui i fatti esaminati in sede penale coincidano con quelli che fondano l’accertamento, non può essere disposta la sospensione del processo tributario in attesa della definitività della predetta sentenza, come peraltro sancito dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20 (Sez. 5, n. 4924 del 2013, Rv. 625233-01). Tale conclusione discende dal rilievo per cui i due processi poggiano su un sistema probatorio sostanzialmente diverso, vigendo nel giudizio tributario le limitazioni probatorie sancite dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4 e potendo ivi valere anche le presunzioni, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.

D’altra parte, costante è l’affermazione di questa Corte secondo la quale il giudice tributario è tenuto a verificare autonomamente se le prove raccolte nel giudizio penale e riportate nel processo verbale di constatazione siano idonee a fondare il proprio convincimento in ordine ai fatti costitutivi della pretesa tributaria, senza che costituisca un limite il disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, sul giuramento e la prova testimoniale, in quanto valevole per la sola diretta assunzione della narrazione dei fatti della controversia da parte del giudice tributario, ma non anche da parte degli organi amministrativi di verifica. Pertanto, le dichiarazioni di terzi da questi raccolte, ancorchè in un procedimento penale, e inserite nel processo verbale di constatazione, sono pienamente utilizzabili come elementi di prova in quanto aventi natura di mere informazioni (Cass., Sez. 5, n. 4982 del 2020, Rv. 657373-01; Sez. 5, n. 4645 del 2020, Rv. 65734701)

Inoltre, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la sentenza penale, sia essa di assoluzione o di condanna, anche ove irrevocabile, costituisce oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice tributario il quale deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione deve operare (Cass., sez. 5, 17258 del 2019, Rv. 654693-01; Sez. 5, n. 10578 del 2015, Rv. 635637-01).

Nella specie, il giudice d’appello ha autonomamente valutato gli esiti del processo penale ritenendoli, con motivazione sintetica ma esaustiva, rilevanti ai fini della decisione.

Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 37 e art. 57, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente sostiene che non poteva essere esclusa la solidarietà passiva del contribuente in relazione all’imposta di registro, essendo stato condannato nel giudizio civile al risarcimento del danno e dovendo pertanto considerarsi parte processuale. Peraltro, l’eventuale riforma, totale o parziale, della sentenza soggetta a tassazione nei successivi gradi di giudizio non si riflette sull’avviso di liquidazione relativo a detta sentenza, ma fa sorgere un autonomo diritto del contribuente al conguaglio o al rimborso.

Il motivo è fondato.

Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 57, comma 1, dispone che “Oltre ai pubblici ufficiali, che hanno redatto, ricevuto o autenticato l’atto, e ai soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione, sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta le parti contraenti, le parti in causa, coloro che hanno sottoscritto o avrebbero dovuto sottoscrivere le denunce di cui agli artt. 12 e 19 e coloro che hanno richiesto i provvedimenti di cui agli artt. 633,796,800 e 825 c.p.c.”.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, tale disposizione, nella parte in cui prevede che sono tenute al pagamento dell’imposta di registro le parti in causa, deve intendersi riferita “a tutti coloro che abbiano preso parte al giudizio, nei confronti dei quali la pronuncia giurisdizionale si è espressa nella parte dispositiva e la cui sfera giuridica sia in qualche modo interessata dagli effetti di tale decisione, in quanto la finalità di detta norma è quella di rafforzare la posizione dell’erario nei confronti dei contribuenti in vista della proficua riscossione delle imposte, salvo il diritto per ciascuno di essi di rivalersi nei confronti di colui che è civilmente tenuto al pagamento” (Sez. 5, n. 12009 del 2020; n. 29158 del 2018, Rv. 651544-01).

Si è altresì precisato che l’obbligazione solidale ex art. 57 cit., nell’ipotesi di processo con pluralità di parti, quando si tratti di litisconsorzio facoltativo, non grava sui soggetti che non siano parti del rapporto sostanziale oggetto del giudizio, assumendo rilievo non la sentenza in quanto tale, ma il rapporto racchiuso in essa, quale indice di capacità contributiva. (Cass., Sez. 5, n. 12009 del 2020; n. 1710 del 2018, Rv. 648742-01; n. 21134 del 2014, Rv. 632570-01).

Ai fini della verifica della debenza o meno dell’imposta nascente da una sentenza, è dunque necessario avere riguardo esclusivamente alla situazione sostanziale che ha dato causa alla sentenza registrata.

Nel caso di specie, il P. non può essere considerato estraneo al rapporto sostanziale oggetto del giudizio civile, avendo la sentenza sottoposta a registrazione riconosciuto la sua responsabilità nei confronti della società ed avendolo conseguentemente condannato al risarcimento del danno.

In senso contrario non assume rilevanza la circostanza che la sentenza emessa nel giudizio civile non sia ancora definitiva. Secondo il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 37, la sentenza la quale, anche parzialmente, definisce il giudizio è soggetta a tassazione, ancorchè non passata in giudicato in quanto impugnata od ancora impugnabile. Conseguentemente, l’ufficio del registro provvede legittimamente alla liquidazione dell’imposta, emettendo il relativo avviso, che è impugnabile per vizi, formali o sostanziali, suoi propri, sicchè la riforma, totale o parziale, della sentenza assoggettata ad imposta nei successivi gradi di giudizio, e fino alla formazione del giudicato, non incide sul predetto avviso di liquidazione. L’eventuale riforma, piuttosto, integra un autonomo titolo per l’esercizio dei diritti al conguaglio o al rimborso dell’imposta medesima il quale però deve essere fatto valere in via autonoma e non nel procedimento relativo all’avviso di liquidazione (Sez. 6 – 5, ord. n. 12023 del 2018, Rv. 648482-01; Sez. 6-5, ord. n. 12736 del 2014, Rv. 631094-01).

Tali conclusioni non mutano neppure nel caso di sospensione della sentenza sottoposta a registrazione, dal momento che il presupposto del tributo non è collegato all’efficacia esecutiva della medesima, bensì all’esistenza di un titolo giudiziale soggetto a registrazione. In tal senso depone il chiaro tenore letterale del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 37 secondo il quale “gli atti dell’autorità giudiziaria in materia di controversie civili, che definiscono anche parzialmente il giudizio (…) sono soggetti all’imposta anche se al momento della registrazione siano stati impugnati o siano ancora impugnabili, salvo conguaglio o rimborso in base a successiva sentenza passata in giudicato”.

Tale previsione non può ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. in quanto la sentenza, finchè non sia riformata con altra decisione passata in cosa giudicata, denuncia direttamente o indirettamente un trasferimento di ricchezza assoggettabile all’imposta di registro (in tal senso si era espressa la Corte Cost. con le ordinanze n. 198 del 1976 e n. 203 del 1988 in relazione al R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, art. 11 il quale già imponeva la tassazione di sentenze suscettibili di gravame).

Soltanto la sua riforma definitiva esclude che l’imposta sia ancora dovuta. Questa Corte ha infatti affermato che, a ritenere diversamente, si determinerebbe la conseguenza irragionevole di obbligare il contribuente ad un pagamento il quale dovrebbe essere immediatamente restituito, in violazione dei principi di uguaglianza e capacità contributiva, equiparandosi l’ipotesi di presenza – pur se ancora non definitiva, comunque attuale – del presupposto impositivo, all’ipotesi di definitivo accertamento della relativa insussistenza (Cass., Sez. 5, n. 3617 del 2020, Rv. 657390-01).

Tale ipotesi non ricorre, tuttavia, nel caso di specie. E’ pur vero che, come documentato dal contribuente, nelle more del giudizio di cassazione è intervenuta la sentenza della Corte d’Appello di Napoli che ha dichiarato cessata la materia del contendere nei confronti del P. a seguito della rinuncia da parte della Curatela alla domanda proposta nei suoi confronti. Tuttavia, mancando l’attestazione di definitività di tale pronuncia, cui non può supplire la documentazione prodotta dal contribuente, non ricorrono nella specie i presupposti individuati da questa Corte per escludere la debenza dell’imposta.

In conclusione, il ricorso va accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, u.p. col rigetto del ricorso proposto dal contribuente.

Le spese di lite dei gradi di merito, tenuto conto degli esigui riferimenti giurisprudenziali sulle questioni trattate rispetto all’epoca della introduzione della lite, vanno interamente compensate tra le parti, mentre quelle del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

PQM

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario proposto dal contribuente. Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di merito. Condanna la parte resistente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida, in complessivi Euro 5.800,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021

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