Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6973 del 17/03/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 17/03/2017, (ud. 22/02/2017, dep.17/03/2017),  n. 6973

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2837/2016 proposto da:

T.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ITALO CARLO

FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato ANGELO COLUCCI,

rappresentato e difeso dagli avvocati MARIO DE GIORGIO, GIUSEPPE

DELLOSSO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA FALLIMENTO DI R.G., elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI 27, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRA ABBATE, rappresentata e difesa

dall’avvocato NICOLA GRIPPA, in virtù di procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 503/2015 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. DI

TARANTO, depositata il 23/11/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/02/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie di parte controricorrente.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

A seguito del fallimento di R.G., ed allo scioglimento del curatore dal contratto preliminare concluso dal fallito con il ricorrente, quest’ultimo conveniva in giudizio la curatela fallimentare dinanzi al Tribunale di Taranto, affinchè fosse condannata al rilascio in suo favore del terreno, oggetto del preliminare di permuta di cosa presente con cosa futura, sul quale nelle more era stato edificato dal fallito un manufatto.

La curatela in via riconvenzionale chiedeva la condanna dell’attore al pagamento dell’indennità ex art. 936 c.c..

Il Tribunale accoglieva, con sentenza non definitiva n. 1709/2009, entrambe le domande e, dopo avere ordinato il rilascio del bene in favore del T., condannava questi altresì al pagamento dell’indennità dovuta, il cui importo era determinato con la successiva sentenza definitiva in Euro 41.316,55, per il valore dei materiali e della manodopera, ed in Euro 82.050,00 per l’aumento di valore del fondo, oltre rivalutazione monetaria ed interessi dal 30/11/2009.

La Corte d’Appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto, con la sentenza n. 503 del 23/11/2015, rigettava l’appello proposto da T.B. ed in accoglimento dell’appello incidentale della curatela, rideterminava il valore dei materiali e della manodopera nel maggiore importo di Euro 54.254,95.

In particolare, quanto alla doglianza dell’appellante, secondo cui si sarebbe dovuto tenere conto anche dei costi necessari per rendere il fabbricato conforme alla normativa antisismica, oltre a rilevare la tardività della deduzione, avanzata dalla parte solo in comparsa conclusionale in primo grado, evidenziava che non vi era prova che il fabbricato non fosse conforme alla normativa antisismica, occorrendo altresì considerare che la stima dell’ausiliare d’ufficio teneva conto del valore del fabbricato al rustico, al netto delle spese necessarie per eliminare gli ammaloramenti nel frattempo riscontrati, in maniera tale da riportare il bene in condizioni da poter essere definitivamente completato, sicchè si poteva presumere che i costi detratti dall’indennità ricomprendessero ogni esborso necessario.

Per quanto ancora rileva in questa sede, riconosceva il diritto agli interessi ed alla rivalutazione delle somme dovute dall’appellante, trattandosi di obbligazione di valore, e reputava legittima la compensazione delle spese, attesa la reciproca soccombenza delle parti.

In merito, infine, all’appello incidentale, riteneva che nell’indennità da corrispondere, andassero computate anche le spese di progettazione, direzione tecnica ed oneri amministrativi sostenuti dal fallito per la realizzazione del manufatto.

T.B. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di quattro motivi.

La curatela fallimentare ha resistito con controricorso.

I primi due motivi che possono essere congiuntamente esaminati, attesa la connessione delle questioni coinvolte, ad avviso del Collegio sono infondati.

La decisione della Corte distrettuale con la quale è stata disattesa la richiesta dell’appellante di tenere conto ai fini del calcolo dell’indennità anche dei costi necessari per rendere conforme il manufatto alla normativa antisismica, risulta supportata da una doppia ratio decidendi, essendosi, da un canto, sostenuto che la deduzione era tardiva, in quanto la questione era stata sollevata dal T. solo nella comparsa conclusionale che aveva preceduto la sentenza non definitiva, e non anche durante lo svolgimento delle operazioni peritali, e dall’altro, che mancava la prova che il manufatto fosse stato edificato in violazione della invocata normativa, e dovendosi altresì ritenere che i costi indicati dal CTU come necessari per eliminare gli ammaloramenti del bene medio tepore verificatisi, in maniera tale da “riportare la costruzione in uno stato accettabile per poterla definitivamente completare”, includevano anche quelli oggetto della richiesta dell’appellante. In presenza di una duplice ratio decidendi, è evidente che la fondatezza dell’impugnazione presuppone che entrambe le rationes siano destituite di fondamento, con la conseguenza che laddove le censure non appaiano in grado di inficiare la correttezza di una delle argomentazioni autonomamente idonee a supportare la decisione, diviene inammissibile la disamina in merito alla correttezza dell’altra ratio.

Nel caso di specie, e passando immediatamente alla valutazione del secondo motivo di ricorso, reputa il relatore che le critiche sollevate dal T. non si configurino come idonee ad inficiare il ragionamento della Corte distrettuale in ordine alla infondatezza della pretesa del ricorrente sul piano sostanziale (e ciò a prescindere dal diverso profilo della ritualità della doglianza dal punto di vista processuale, che è invece oggetto del primo motivo di ricorso).

La Corte distrettuale con giudizio in fatto, insindacabile in questa sede, come confermato dagli ancor più angusti limiti dettati dalla novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha ritenuto che non fosse emersa la prova della contrarietà della costruzione alle prescrizioni della normativa antisismica, e che in ogni caso, nell’ambito dei costi che il CTU aveva detratto dall’importo dovuto a titolo di indennità alla curatela, dovevano ritenersi inclusi anche quelli necessari ad assicurare il rispetto della detta normativa, essendosi, come sopra riportato, fatto riferimento a tutte le spese necessarie per assicurare che il fabbricato fosse ricondotto in condizioni tali da poter essere completato.

In disparte evidenti profili di genericità del ricorso, nella parte in cui omette di individuare quali siano le norme in materia di prevenzione sismica che siano state violate da parte del fallito nella realizzazione del fabbricato (e ciò soprattutto a fronte di una descrizione del manufatto così come operata da parte dell’ausiliario), e di difetto di conformità del ricorso alla prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (avendo la parte riportato in ricorso solo stralci dell’elaborato peritale, sul quale si fonda la decisione gravata), deve ritenersi che l’affermazione secondo cui i costi de quibus siano ricompresi in quelli che l’ausiliare d’ufficio ha determinato per riportare il fabbricato in condizioni tali da poter essere completato, costituisce una valutazione tipicamente riservata al giudice di merito, che si fonda proprio sulla disamina della consulenza tecnica d’ufficio, e che appare anche logicamente giustificata dalla considerazione che nella fattispecie il manufatto non era stato ancora completato, ben potendosi quindi compiere eventuali interventi per assicurarne la conformità alla normativa urbanistica.

I primi due motivi si palesano quindi come complessivamente immeritevoli di accoglimento.

Del pari infondato è il terzo motivo, con il quale si contesta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione agli artt. 345 e 99 c.p.c., in quanto per la somma dovuta a titolo di indennità, sarebbero stati riconosciuti, oltre alla rivalutazione, anche gli interessi, sebbene in citazione mancasse un’espressa richiesta di attribuzione di questi ultimi.

Si deduce che solo in sede di precisazione delle conclusioni si sarebbe fatto riferimento al diritto agli interessi, con la conseguenza che la sentenza gravata sarebbe in parte qua affetta da ultrapetizione.

Ed, invero costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza della Corte quello per il quale nelle obbligazioni di valore, quale quella di risarcimento del danno determinato da un fatto illecito, gli interessi per il ritardo nel pagamento della somma dovuta costituiscono una componente implicita nella domanda risarcitoria e, come tali, non solo spettano di pieno diritto al danneggiato, anche in assenza di un’espressa richiesta, ma sono dovuti anche in mancanza di una prova rigorosa del mancato guadagno, potendo tale prova essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice ricorrendo a criteri presuntivi ed equitativi, previa valutazione delle circostanze attinenti al caso specifico (cfr. ex multis Cass. n. 10825/2007; Cass. n. 24858/2005).

Quanto all’obbligazione oggetto di causa deve ritenersi pacifico che trattasi di obbligazione di valore, analogamente a quanto previsto per la simile indennità di cui all’art. 938 c.c., per la quale questa Corte ha avuto modo di precisare che l’indennità dovuta dal costruttore al proprietario del suolo, nell’ipotesi di accessione invertita di cui all’art. 938 c.c., è oggetto di un debito di valore, mirando non solo a ricostituire il patrimonio del proprietario, ma anche a ricompensarlo dei potenziali incrementi di valore non documentabili, con la conseguenza che il giudice, nel liquidare detta indennità, deve riconoscere sulla relativa somma, anche d’ufficio, gli interessi compensativi, a far data dalla domanda (Cass. n. 3706/2013).

Con specifico riferimento poi all’indennità di cui all’art. 936 c.c., si segnala Cass. n. 8657/2006, la quale nel ribadire la sua natura di debito di valore, ha aggiunto che solo laddove il giudice in primo grado non abbia provveduto a riconoscere sulla relativa somma gli interessi compensativi richiesti dall’occupante, costituisce onere del creditore – al fine di evitare la formazione del giudicato interno – gravare con impugnazione incidentale tale mancata attribuzione, riconoscendosi però che in ogni caso i negati interessi, costituiscono una componente del credito azionato, sibbene suscettibili di una propria precisa individualità, concettuale e contabile.

Orbene, combinando tali affermazioni, deve ritenersi che gli interessi de quibus costituiscono una componente del credito indennitario azionato, e che vanno riconosciuti d’ufficio dal giudice, anche in assenza di una specifica domanda, imponendosi una reazione da parte del creditore solo nel diverso caso in cui siano stati illegittimamente negati.

Ne consegue che la doglianza di ultrapetizione è del tutto priva di fondamento, essendo sufficiente la sola originaria domanda volta ad ottenere la corresponsione dell’indennità in oggetto a giustificare anche la condanna al pagamento degli interessi.

Infine del pari infondato appare il quarto motivo con il quale il ricorrente si duole dell’avvenuta compensazione delle spese di lite.

Il giudice di primo grado, con valutazione condivisa dalla Corte distrettuale, ha giustificato tale conclusione in ragione della reciproca soccombenza tra le parti, e la doglianza del ricorrente osserva che sarebbe stato omesso il fatto decisivo rappresentato dalla circostanza che, mentre la curatela aveva chiesto il rigetto della domanda di rilascio, il T. non aveva contestato il diritto della curatela al versamento dell’indennità, il che escludeva la configurabilità della soccombenza reciproca.

Le critiche non colgono nel segno.

Ed, invero, la valutazione della soccombenza deve essere riguardata con riferimento all’esito oggettivo del giudizio, potendo il comportamento delle parti avere rilevanza al fine di riscontrare se ricorra la diversa ipotesi di compensazione delle spese legata, nella formulazione dell’art. 92 c.p.c., applicabile ratione temporis, alla ricorrenza di giusti motivi, sicchè nella vicenda in esame è evidente che entrambe le parti siano risultate soccombenti rispetto alla domanda della controparte (e non potrebbe poi sottacersi il fatto che, se è vero che il ricorrente ha riconosciuto il diritto all’indennità in favore della controparte, è altrettanto vero che ne ha reiteratamente contestato le modalità di determinazione, spiegando a tal fine anche appello).

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2017

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