Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6972 del 11/03/2019

Cassazione civile sez. I, 11/03/2019, (ud. 20/02/2019, dep. 11/03/2019), n.6972

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 23725/2016 proposto da:

Comune di Torino, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Viale Bruno Buozzi n. 87, presso lo studio

dell’avvocato Colarizi Massimo, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Lacognata Maria, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.E., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in Roma,

Piazzale delle Medaglie d’Oro n. 7, presso lo studio dell’avvocato

Fumai Antonella, rappresentati e difesi dagli avvocati Vecchione

Giorgio, Vecchione Riccardo, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, in persona del

Rettore pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

B.E., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in Roma,

Piazzale delle Medaglie d’Oro n. 7, presso lo studio dell’avvocato

Fumai Antonella, rappresentati e difesi dagli avvocati Vecchione

Giorgio, Vecchione Riccardo, giusta procura in calce al

controricorso al ricorso incidentale;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

contro

C.F.M., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n, 1049/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 21/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/02/2019 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. CAPASSO LUIGI, che ha chiesto il rigetto

del ricorso principale ed incidentale.

Fatto

CONSIDERATO

Che:

1.- Nel novembre 2014 i genitori, indicati in epigrafe, di alunni delle scuole comunali elementari e medie nel Comune di Torino convennero in giudizio lo stesso Comune e il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) per fare accertare il loro diritto di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto domestico (portato da casa o confezionato autonomamente) e, in particolare, di consumarlo all’interno dei locali adibiti a mensa scolastica e nell’orario destinato alla refezione; di ordinare al Ministero di impartire ai dirigenti scolastici le opportune disposizioni e al Comune di astenersi dal porre limiti e divieti ostativi all’esercizio del suddetto diritto di scelta.

2.- Nel contraddittorio con gli enti convenuti, il Tribunale di Torino ha rigettato le domande, rilevando l’insussistenza di un diritto soggettivo come quello azionato, non essendo configurabile nè un diritto alla prestazione del servizio mensa con modalità diverse da quelle previste dalla normativa vigente ovvero di un servizio alternativo interno alle scuole per coloro che intendono consumare il pasto domestico, nè un diritto alla stessa istituzione del servizio mensa, essendo le famiglie libere di optare per il “modulo” (cd. tempo breve) oppure per il tempo pieno o prolungato che prevedono il servizio mensa e, in tal caso, essendo libere di prelevare (o fare uscire) i figli da scuola durante l’orario della mensa scolastica e di riaccompagnarli (o farli rientrare) per le attività pomeridiane, senza che sia configurabile una disparità di trattamento o una discriminazione tra gli alunni che hanno optato per il tempo pieno e prolungato e gli altri, trattandosi di una libera scelta dei genitori; il tribunale ha anche escluso la violazione dei principi costituzionali di gratuità dell’istruzione inferiore (art. 34 Cost., comma 2), essendo previste tariffe ridotte e anche l’esonero dal pagamento del servizio mensa per le fasce reddituali più svantaggiate e, comunque, il costo della mensa può essere evitato non usufruendo del servizio.

3.- Il gravame dei privati è stato parzialmente accolto dalla Corte d’appello di Torino, con sentenza del 21 giugno 2016, che ha accertato il diritto dei genitori di scegliere per i figli tra la refezione scolastica e il pasto domestico da consumare nelle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione, ma si è astenuta dal dettare “le modalità pratiche per dare concreta attuazione alla sentenza”, non potendo il suddetto diritto “risolversi nel consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica”, statuizione che – ad avviso della Corte implicherebbe “l’adozione di una serie di misure organizzative, anche in funzione degli aspetti igienico/sanitari, in relazione alla specifica situazione logistica dei singoli istituti interessati”, valutazioni discrezionali riservate all’amministrazione ed esulanti dalla cognizione del giudice ordinario.

4.- Ad avviso della Corte, l’interesse all’accertamento richiesto era determinato dal fatto che le amministrazioni scolastiche negavano agli appellanti la possibilità, in termini generali, di consumare il cibo portato da casa all’interno delle scuole nelle quali è istituito il servizio di refezione scolastica; la nozione di istruzione, soprattutto nelle classi elementari e medie, non coincide con la sola attività di insegnamento, ma comprende anche il momento della formazione che si realizza mediante lo svolgimento di attività didattiche ed educative, tra le quali importante è il momento dell’erogazione del pasto, il quale rientra nel cd. “tempo scuola” (è citata la circolare ministeriale n. 29 del 5 marzo 2004, dalla quale si evince che i tre segmenti orari – un orario obbligatorio, uno facoltativo e uno destinato all’erogazione del servizio di mensa e dopo mensa – non vanno considerati separati, ma “concorrono a costituire un modello unitario del processo educativo da definire nel Piano dell’offerta formativa”); pertanto, il rimanere a scuola nell’orario del pasto (cd. “tempo mensa”) e condividerlo in comune tra gli alunni costituisce un diritto soggettivo perfetto perchè inerente al diritto all’istruzione nel significato che si è detto, desumibile dall’ordinamento costituzionale (art. 34 Cost.) e di settore, pure in mancanza di un obbligo dell’ente scolastico di istituire il servizio mensa, il quale altrimenti verrebbe a configurarsi come oneroso e obbligatorio per tutti gli alunni che optano per il tempo lungo o prolungato, mentre esso è comunque a domanda individuale, facoltativo per gli utenti e comunque “necessario a garantire lo svolgimento delle attività educative e didattiche”, in funzione strumentale all’attuazione del diritto all’istruzione obbligatoria e gratuita per almeno otto anni.

5.- Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso, in via principale, il Comune di Torino che ha presentato anche memoria e, in via incidentale, il Ministero dell’istruzione, cui si sono opposti i privati con controricorso e memoria. Il PG ha presentato requisitoria scritta, chiedendo il rigetto dei ricorsi.

6.- Il ricorso del Comune di Torino è articolato in cinque motivi.

6.1.- Il primo motivo, per violazione dell’art. 112 c.p.c., rimprovera alla sentenza impugnata di avere arbitrariamente modificato il contenuto della domanda proposta in una pretesa principale accolta, quella di fruire il pasto domestico nei locali scolastici, e in una pretesa ulteriore e accessoria rigettata, quella di consumarlo nei locali adibiti alla mensa, mentre si trattava di una domanda unica, volta ad affermare il diritto di fruire il pasto domestico nei locali scolastici adibiti alla mensa e nell’orario riservato alla refezione.

6.2.- Il secondo motivo, per violazione e falsa applicazione del D.L. 28 febbraio 1983, n. 55, art. 6, conv. in L. 26 aprile 1983, n. 131, D.Lgs. 19 febbraio 2004, n. 59, artt. 4, 7 e 10, nonchè della L.R. Piemonte 28 dicembre 2007, n. 28, e del D.M. 31 dicembre 1983, imputa alla Corte di merito di avere inteso la nozione di “mensa scolastica” (e quindi il cd. “tempo mensa”) come generico consumo in ambito scolastico di cibo preparato individualmente, anzichè come servizio pubblico organizzato dall’amministrazione comunale, a domanda individuale, mediante l’erogazione di pasti collettivi confezionati secondo regole predefinite, anche sotto il profilo della sicurezza e tracciabilità, in locali igienicamente idonei; di conseguenza, non potrebbe predicarsi l’esistenza di un obbligo dell’amministrazione di apprestare mezzi e risorse per consentire agli alunni che non si avvalgono del servizio mensa di consumare, nei locali della scuola, cibi non somministrati dal gestore del servizio di refezione scolastica.

6.3.- Il terzo motivo, per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 55 del 1983, art. 6 cit., D.Lgs. n. 59 del 2004, artt. 4,7 e 10 cit., 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59, e del D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275, critica la configurazione di un diritto soggettivo degli allievi di introdurre cibo preparato individualmente nei locali scolastici, da consumare nell’orario destinato alla mensa comune, senza considerare la normativa di settore, la quale distingue il “tempo scuola” (obbligatorio e facoltativo) dall’eventuale “tempo mensa” che è escluso dal primo, nè considerare che l’offerta formativa comprensiva del servizio mensa è elaborata dalle scuole e condivisa dalle famiglie e la sua attuazione sarebbe pregiudicata se si ammettesse la possibilità di introdurre varianti individuali; inoltre, la funzione pedagogica del “tempo mensa” è predicabile solo in termini di ristorazione collettiva nel contesto di un’offerta formativa a tale scopo organizzata.

6.4.- Il quarto motivo, per violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, All. E), L. n. 59 del 1997, art. 21 cit., nonchè del D.Lgs. n. 59 del 2004 cit. e del D.P.R. n. 275 del 1999 cit., anche in relazione agli artt. 2,33,97 e 117 Cost., lamenta la mancata considerazione che l’esercizio del diritto di consumare il pasto domestico nelle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione, in alternativa alla refezione scolastica, comporta specularmente l’obbligo di facere nei confronti della pubblica amministrazione e l’adozione di misure organizzative specifiche, in violazione del divieto di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 4, interferendo nella libertà di autodeterminazione delle istituzioni scolastiche.

6.5.- Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 59 del 2004 cit. e del D.P.R. n. 89 del 2009 cit., per la omessa considerazione che l’introduzione di vari e differenziati pasti domestici nei locali scolastici inficia il diritto degli alunni e dei genitori alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo comprensivo del servizio mensa, con rischi di violazione dei principi di uguaglianza e di non discriminazione in base alle condizioni economiche, oltre che del diritto alla salute, tenuto conto dei rischi igienico-sanitari di una refezione individuale e non controllata.

7.- Il ricorso incidentale del MIUR è articolato in due complessi

motivi.

7.1.- Il primo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, art. 45, art. 4 dello Statuto regionale del Piemonte, D.Lgs. n. 59 del 2004, art. 7, comma 3, e artt. 2,33,34,97 e 111 Cost., nonchè della circolare MIUR n. 29 del 5 marzo 2004, della L.R. 29 aprile 1985, n. 45, e del D.M. 31 dicembre 1983, per avere omesso di considerare che il vigente ordinamento scolastico non prevede un “diritto al tempo pieno” nelle scuole primaria e secondaria di primo grado, ma la facoltà delle scuole di attuare, nella loro autonomia e compatibilmente con le disponibilità di organico e in presenza delle necessarie strutture, il tempo pieno e il tempo prolungato, essendo il “tempo mensa”, pur compreso nel “tempo scuola”, distinto dall’attività didattica e non obbligatorio (sono citati il D.Lgs. n. 59 del 2004, art. 7,comma 3, e art. 10, comma 3, e la circolare MIUR n. 29 del 2004, secondo cui l’orario riservato alla mensa “si aggiunge” al monte ore obbligatorio e facoltativo); che il suddetto ordinamento prevede una pluralità di modelli organizzativi, tutti ugualmente idonei a garantire il diritto all’istruzione e alla formazione obbligatoria, a norma dell’art. 34 Cost.; che il tempo pieno costituisce solo un’opzione discrezionale che le istituzioni scolastiche hanno la facoltà di attivare e le famiglie di scegliere ma, una volta operata la scelta, le famiglie hanno l’obbligo di aderire al progetto formativo prescelto, così come proposto e organizzato dalla scuola, in tutti i suoi elementi, incluso il “tempo mensa” che ne costituisce parte integrante, previo pagamento di un contributo che si giustifica trattandosi di prestazione aggiuntiva e facoltativa; che infatti, ove si riconoscesse all’utenza la facoltà, in alternativa alla fruizione della mensa, di consumare a scuola il pasto domestico, ovvero il diritto ad una fruizione individualizzata della mensa, sarebbe messo a rischio il progetto formativo, comprensivo dell’educazione alimentare, predisposto dall’istituzione scolastica, il quale solo nella sua interezza e omogeneità potrebbe perseguire efficacemente gli obiettivi prefissati e garantire l’esercizio effettivo del diritto allo studio. In altri termini, se è vero che il “tempo mensa” è parte integrante del “tempo scuola”, è anche vero che la relativa azione educativa può essere messa in atto dall’istituzione scolastica solo attraverso il servizio di refezione scolastica, in quanto sarebbe difficile coordinare le regole alimentari suggerite dal servizio di ristorazione collettiva con le regole diverse e non conosciute indotte dal pasto domestico fornito dalle diverse famiglie.

7.2.- Con il secondo motivo il MIUR denuncia violazione e falsa applicazione, oltre che del D.P.R. n. 275 del 1999 cit. e del D.Lgs. n. 59 del 2004 cit., della L. n. 2248 del 1865, art. 4, All. E), e L. n. 59 del 1997, art. 21 cit., nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per non avere valutato le controindicazioni sanitarie all’attuazione dell’adottata declaratoria juris, nè considerato che nel servizio di refezione scolastica l’aggiudicatario della gara di appalto si obbliga al rispetto dei capitolati tecnici definiti dal committente ed è responsabile dei prodotti somministrati agli alunni, oltre a gestire i locali destinati alla refezione; in tale contesto l’ipotesi del pasto portato da casa e consumato dagli alunni in locali pubblici pone il problema dell’individuazione del responsabile della sicurezza dei prodotti ed espone il gestore del servizio a responsabilità per pericoli non direttamente gestiti; inoltre, il consumo del pasto individuale in appositi locali si risolve in una prestazione gratuita per i beneficiari ma onerosa per la collettività e, in particolare, per l’amministrazione che dovrebbe sostenere i relativi costi organizzativi e, in definitiva, per le famiglie che pagano il contributo per il servizio mensa di cui si avvalgono.

8.- E’ opportuno premettere che la questione di giurisdizione del giudice adito, introdotta nel giudizio di primo grado dal MIUR e implicitamente rigettata dal tribunale con decisione di rigetto delle domande attoree nel merito, si è esaurita nei successivi gradi di giudizio. La relativa eccezione, infatti, era stata riproposta in appello dal MIUR in via incidentale e implicitamente rigettata dalla Corte di Torino, che ha deciso la causa nel merito con sentenza impugnata in sede di legittimità dal MIUR e dal Comune di Torino solo sul merito, sebbene con argomentazioni deducenti il superamento dei limiti interni alla giurisdizione del giudice ordinario.

8.1.- Si è evidenziata in dottrina la progressiva “dequotazione” della rilevanza delle questioni di giurisdizione, all’esito di un lungo percorso (le cui tappe principali sono segnate da Cass. S.U. 9 ottobre 2008, n. 24883, in tema di giudicato implicito, e S.U. 20 ottobre 2016, n. 21260, in tema di impugnazioni opportunistiche sulla giurisdizione) che ha avuto l’effetto di favorire l’avvicinamento tra le giurisdizioni, ma anche la possibilità, non più rara e sporadica, che entrambi i giudici (ordinari e amministrativi) debbano decidere cause che sarebbero altrimenti estranee alla propria competenza giurisdizionale.

Nel caso di specie, peraltro, la Corte torinese ha implicitamente argomentato in ordine alla sussistenza della propria giurisdizione, rilevando che l’azione proposta aveva ad oggetto l’accertamento mero – che, se fondato, si può aggiungere, sarebbe suscettibile di attuazione con lo strumento amministrativo dell’ottemperanza, a norma dell’art. 112, lett. c), cod. proc. amm.- di un diritto prospettato dagli attori come fondamentale, non interferente con la cd. class action pubblica di cui al D.Lgs. 20 dicembre 1999, n. 198.

8.2.- Com’è noto, a far radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non è la mera attinenza alla materia indicata dal legislatore, a norma dell’art. 103 Cost., ma il fatto che la controversia “abbia ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri” (Cass. S.U. 25 febbraio 2011, n. 4614), tanto più che nel presente giudizio (diversamente da quello definito dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 3 settembre 2018, n. 5156, su cui ci si soffermerà più avanti) non sono impugnati direttamente provvedimenti amministrativi, come invece accaduto in alcuni, non recenti, precedenti in materia di istruzione pubblica (Cass. S.U. 10 luglio 2006, n. 15614, in tema di rimozione del crocifisso nelle aule; S.U. 5 febbraio 2008, n. 2656, in tema di divieto di svolgere le lezioni di educazione sessuale). Neppure può sottacersi che già il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, escludeva dalla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie riguardanti i rapporti individuali di utenza con i gestori di servizi pubblici (seppure costituiti da soggetti privati), conclusione a maggior ragione valida a seguito dell’intervento limitativo della giurisdizione esclusiva ad opera della Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 2004) e dell’affermazione della giurisdizione ordinaria sull’azione di classe prevista dal codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 140 bis) per la tutela di diritti individuali di utenti, singolarmente identificati, di servizi pubblici (Cass. S.U. 30 settembre 2015, n. 19453); conclusione neppure smentita dall’art. 133, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., che riguarda i rapporti concessori tra l’amministrazione pubblica e i concessionari di pubblici servizi, nonchè l’impugnazione di provvedimenti amministrativi nell’ambito di procedimenti disciplinati dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, in materia di servizi pubblici.

9.- E’ proprio all’impugnazione di provvedimenti amministrativi, cioè della delibera del Comune di Benevento concernente l’istituzione e il regolamento del servizio di refezione scolastica, che si riferisce la decisione del Consiglio di Stato n. 5156 del 2018, confermativa della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli, che l’aveva annullata ritenendola “affetta da eccesso di potere per irragionevolezza, in quanto misura inidonea e sproporzionata rispetto al fine perseguito” – nella parte in cui vietava la permanenza nei locali scolastici, nel proprio territorio, agli alunni delle scuole materne ed elementari che intendevano consumare cibi portati da casa o acquistati autonomamente, non essendo loro consentito di consumare pasti diversi da quelli forniti dall’impresa appaltatrice del servizio.

Ad avviso del Consiglio di Stato, “la scelta restrittiva radicale del Comune – di suo non supportata da concretamente dimostrate ragioni di pubblica salute o igiene nè commisurata ad un ragionevole equilibrio – di interdire senz’altro il consumo di cibi portati da casa (attraverso lo strumentale e previsto divieto di permanenza nei locali scolastici degli alunni che intendono pranzare con alimenti diversi da quelli somministrati dalla refezione scolastica) limita una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori, vale a dire la scelta alimentare: scelta che – salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro – è per sua natura e in principio libera, e si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici. Occorre pertanto – prosegue la sentenza n. 5156 del 2018 – per poter legittimamente restringere da parte della pubblica autorità una tale naturale facoltà dell’individuo o per esso della famiglia, che sussistano dimostrate e proporzionali ragioni inerenti quegli opposti interessi pubblici o generali. Queste ragioni, vertendosi di libertà individuali e nell’ambiente scolastico, non possono surrettiziamente consistere nelle mere esigenze di economicità di un servizio generale esternalizzato e del quale non si intende fruire perchè non intrinseco, ma collaterale alla funzione educativa scolastica; e che invece, nella situazione restrittiva data, verrebbe senz’altro privilegiato a tutto scapito della libertà in questione”. Pertanto, “la restrizione praticata con l’impugnato regolamento, che nemmeno si preoccupa di ricercare un bilanciamento degli interessi, manifestamente non corrisponde ai canoni di idoneità, coerenza, proporzionalità e necessarietà rispetto all’obiettivo – dichiaratamente perseguito – di prevenire il rischio igienico-sanitario. E l’assunto che “il consumo di parti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale” si manifesta irrispettoso delle rammentate libertà e comunque è apodittico”. In conclusione – ad avviso del giudice amministrativo d’appello – “la sicurezza igienica degli alimenti portati da casa non può essere esclusa a priori attraverso un regolamento comunale: ma va rimessa al prudente apprezzamento e al controllo in concreto dei singoli direttori scolastici, mediante l’eventuale adozione di misure specifiche, da valutare caso per caso, necessarie ad assicurare, mediante accurato vaglio, la sicurezza generale degli alimenti”.

10.- I ricorsi sollecitano la soluzione di questione di massima di particolare importanza, sulla quale il Collegio ritiene di investire il Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, per le ragioni che si espongono di seguito.

10.1.- La pretesa azionata dai genitori è di fare accertare nel giudizio il diritto, ritenuto inviolabile, alla cd. autorefezione nell’orario e nei locali adibiti alla mensa scolastica, ancorato all’art. 34 Cost. (in tema di istruzione pubblica), art. 32 Cost.(interpretato come fonte di libertà nelle scelte alimentari), art. 35 Cost. (in tema di tutela dei genitori lavoratori) e art. 3 Cost..

Se l’istruzione pubblica inferiore è obbligatoria e gratuita e comprende il diritto di fruire delle attività scolastiche che si svolgono nel pomeriggio, nel caso in cui sia attivato il cd. tempo pieno e/o prolungato, e se il cd. “tempo mensa” costituisce un momento importante di condivisione e socializzazione che rientra nell’orario scolastico annuale (cd. “tempo scuola”) definito dalla legge (è citato il D.P.R. 20 marzo 2009, n. 89, art. 5, con riguardo all’istruzione secondaria di primo grado, cui può aggiungersi il D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, art. 130, comma 2, lett. b), allora – secondo questa tesi – si dovrebbe riconoscere anche il diritto degli alunni di portare cibi da casa e consumarli a scuola, senza costringerli a usufruire del servizio di mensa scolastica da essa erogato, il quale altrimenti da facoltativo, attivabile a domanda individuale, quale è (cfr. D.Lgs. 13 aprile 2017, n. 63, art. 6), diventerebbe obbligatorio. L’effetto sarebbe di costringere gli alunni a rinunciare ai contenuti educativi dell’offerta formativa scolastica connessa all’opzione “tempo pieno” o “prolungato”, con violazione anche del principio di gratuità dell’istruzione inferiore. Si assume la non coincidenza del “tempo mensa” con il servizio di mensa scolastica, al quale non potrebbe attribuirsi alcuna funzione pedagogica, diversamente – secondo quanto si può intuire – dal “tempo scuola” cui sarebbe inerente invece la libertà alimentare individuale, non attuabile efficacemente se si costringessero i genitori a prelevare (o fare uscire) i figli da scuola durante l’orario della mensa scolastica e a riaccompagnarli a scuola nel pomeriggio (si parla di “disagio logistico”).

La citata sentenza del Consiglio di Stato, che ha annullato per eccesso di potere l’impugnato regolamento di un Comune, è intesa in tal senso come ricognitiva del diritto di cui si chiede l’accertamento nel presente giudizio, tanto più che la stessa sentenza ha osservato che “non risulta, ad esempio, inibito agli alunni il consumo di merende portate da casa, durante l’orario scolastico: per analogia, si potrebbe addurre infatti anche per queste la sollevata problematica del rischio igienico-sanitario”.

Si deve puntualizzare che la proposta domanda di accertamento è stata accolta dalla Corte torinese limitatamente al diritto di portare cibi da casa e consumarli a scuola nell’orario della mensa scolastica, ma è stata rigettata con riguardo alla pretesa di consumarli nei locali adibiti alla refezione scolastica. Tale statuizione non è stata impugnata dai privati con ricorso incidentale, sebbene nella memoria essi ritengano ingiusta l’esclusione dal locale refettorio degli alunni ammessi a consumare il pasto domestico nella scuola e, tuttavia, rispettosa del riparto di giurisdizione la decisione di non consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica.

10.2.- Alla tesi sopra esposta si contrappone quella, illustrata nei motivi di ricorso, delle amministrazioni ricorrenti, le quali ritengono che, alla luce della vigente legislazione primaria e dei principi costituzionali, non sia configurabile un diritto soggettivo degli alunni che optano per il tempo pieno di portare e di consumare a scuola cibi propri, inteso come bene finale della vita – il cui eventuale accertamento non sarebbe suscettibile di ottemperanza sottraendosi al servizio mensa offerto dalla scuola.

In tal senso il “tempo mensa” è ritenuto sottratto all’obbligo di frequenza scolastica e coincidente con il servizio di refezione scolastica, la cui fruizione è espressione di una facoltà delle famiglie, rientrando nell’ampio margine di discrezionalità riservato alle istituzioni scolastiche determinare le modalità di fruizione dello stesso, nei limiti di compatibilità con le strutture e le risorse disponibili (cfr. D.Lgs. n. 63 del 2017, art. 6, comma 2, cit.), senza possibilità di prevedere modalità di fruizione individuali e diverse rispetto a quelle offerte.

Ad avviso delle amministrazioni ricorrenti, l’accertamento richiesto andrebbe ad incidere direttamente e impropriamente sulle modalità di organizzazione del servizio di refezione scolastica, potendo “comportare l’adozione di un sistema di refezione almeno in parte diverso” da quello in essere, come rilevato dalla stessa Corte torinese. Si dovrebbe inoltre tenere conto che nel costo complessivo del servizio di refezione scolastica sono inclusi sia i costi diretti, come il corrispettivo pagato agli appaltatori del servizio, sia i costi indiretti rappresentati dagli oneri riflessi e aggiuntivi per l’organizzazione, la pulizia e la manutenzione dei locali, oltre a quelli per il personale adibito al servizio. All’obiezione secondo cui agli alunni è concesso di consumare merende portate da casa si potrebbe replicare che si tratta di facoltà, esercitata durante il tempo dedicato alla ricreazione, che non interferisce con il servizio pubblico della refezione scolastica.

In questa prospettiva il diritto degli utenti è configurabile piuttosto in termini di eguale e libero accesso al servizio di refezione scolastica, ovvero di partecipazione al procedimento amministrativo, al fine di influire sulle scelte organizzative rimesse alle istituzioni scolastiche nella loro autonomia.

11.- In conclusione, la questione di massima di particolare importanza sulla quale si ritiene opportuno l’intervento delle Sezioni Unite è la seguente: se sia configurabile un diritto soggettivo perfetto dei genitori degli alunni delle scuole elementari e medie, eventualmente quale espressione di una libertà personale inviolabile, il cui accertamento sia suscettibile di ottemperanza, di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica e il pasto portato da casa o confezionato autonomamente e di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell’orario destinato alla refezione scolastica, alla luce della normativa di settore e dei principi costituzionali, in tema di diritto all’istruzione, all’educazione dei figli e all’autodeterminazione individuale, in relazione alle scelte alimentari (artt. 2 e 3 Cost., art. 30 Cost., comma 1, art. 32 Cost., art. 34 Cost., commi 1 e 2).

PQM

rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2019

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