Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6970 del 12/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/03/2021, (ud. 17/09/2020, dep. 12/03/2021), n.6970

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27606 del ruolo generale dell’anno 2014

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

T.N.;

– intimato –

e nei confronti di:

Equitalia Sud s.p.a.;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Puglia, n. 207/22/2013, depositata in data 15

novembre 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 17

settembre 2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a T.N., esercente attività di lavoro autonomo quale titolare di un laboratorio di analisi chimiche, un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2002, era stato contestato un maggior reddito imponibile ai fini Irpef, Irap e Iva, derivante dallo scostamento dei redditi dichiarati rispetto a quelli calcolati secondo l’applicazione dei parametri relativi all’attività svolta, con irrogazione delle conseguenti sanzioni; avverso l’atto impositivo il contribuente aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Brindisi; il contribuente aveva quindi proposto appello avverso la pronuncia del giudice di primo grado;

la Commissione tributaria regionale ha parzialmente accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: la motivazione dell’atto impugnato, sebbene era stata “sinteticamente evidenziata dall’ufficio”, nel merito era “carente di prova” e “scarna di precisi riferimenti alla concreta e reale attività svolta dal contribuente nell’anno 2002”, oltre che “non affatto aderente al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), che disciplina i redditi determinati in base alle scritture contabili”; in particolare, ha evidenziato che doveva essere presa in considerazione la situazione concreta che aveva condizionato l’attività del contribuente svolta nel 2002 (ristrutturazione del laboratorio di analisi chimiche per scioglimento dell’associazione professionale e per il decesso del socio) nonchè la perizia di parte depositata nel corso del giudizio; l’accoglimento parziale da parte della Commissione del primo motivo di appello, comportava l’assorbimento degli altri motivi, “perchè, unitamente al primo, ha accertato anche il parziale fondamento di quelli riferiti ai punti 2, 3 e 4”;

l’Agenzia delle entrate ha, quindi, proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a quattro motivi di censura; T.N. e Equitalia Sud s.p.a. sono rimasti intimati; il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale dello Stato Dott. Umberto De Augustinis, ha depositato le proprie osservazioni scritte con le quali ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 per avere erroneamente ritenuto che l’avviso di accertamento non era motivato;

il motivo è infondato;

in realtà, la censura non coglie la ratio decidendi della pronuncia della Commissione tributaria regionale;

dall’esame, invero, del contenuto della pronuncia si evince che il giudice del gravame, sebbene abbia formalmente accolto il primo motivo di appello (relativo al difetto di motivazione) ha, in sostanza, ritenuto che la pretesa impositiva non fosse stata adeguatamente supportata da sufficienti elementi di prova, in particolare, ha posto l’attenzione, successivamente oggetto di specifico approfondimento motivazionale, alla concreta situazione dell’attività economica svolta dal contribuente; il ragionamento decisorio, dunque, è stato svolto sotto il profilo, come peraltro colto nello stesso motivo di ricorso in esame, della mancanza di prova della riferibilità dei parametri utilizzati dall’amministrazione finanziaria alla concreta situazione economica del contribuente, piuttosto che del difetto di motivazione dell’avviso di accertamento: è, quindi, il diverso piano della fondatezza nel merito della pretesa che è stato preso in considerazione dal giudice del gravame, tanto che, proprio in considerazione di tale aspetto, ha ritenuto di dovere accogliere parzialmente l’appello, riducendo la pretesa impositiva;

indice di tale impostazione di fondo della pronuncia in esame è la circostanza che il giudice del gravame non solo ha accolto parzialmente il primo motivo (il che avrebbe dovuto porsi in contrasto con una eventuale verifica del difetto di motivazione dell’atto impugnato) ma ha, anche, precisato che, unitamente al primo motivo, anche i successivi motivi secondo, terzo e quarto (relativi proprio alla questione della prova e della corretta applicazione della disciplina presuntiva in materia di accertamento analitico induttivo fondato sui parametri), erano da considerarsi parzialmente fondati;

sicchè, il motivo di ricorso in esame, orientato a far valere la non correttezza della statuizione del giudice del gravame per avere ritenuto che l’avviso di accertamento era privo di motivazione non è aderente all’effettiva ragione della decisione, basata, come detto, sulla mancanza di verifica della concreta situazione nella quale aveva operato il contribuente nell’anno di riferimento;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729, c.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 29 per non avere fatto corretta applicazione del regime dell’onere della prova gravante sull’amministrazione finanziaria in caso di emissione di un avviso di accertamento in applicazione dei parametri;

il motivo è infondato;

questa Corte (Cass. Sez. Un., 18 dicembre 2009, n. 26635; Cass. civ., 30 dicembre 2019, n. 34726) ha precisato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito;

il giudice del gravame, diversamente da quanto sostenuto con il presente motivo di ricorso, ha fatto una corretta applicazione dei principi in materia di riparto dell’onere probatorio;

rispetto alla pretesa dell’amministrazione finanziaria fondata sull’applicazione dei parametri relativi all’attività economica svolta, il giudice del gravame ha, in realtà, ritenuto di dare parziale rilevanza alla prova contraria fornita dal contribuente alla luce della concreta situazione dallo stesso valorizzata, in particolare l’intervenuto decesso del socio, che aveva comportato lo scioglimento dell’associazione professionale e la conseguente ristrutturazione del laboratorio di analisi chimiche, ritenendo che tali circostanze fossero idonee a giustificare la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame;

sicchè, partendo dalla valenza di prova presuntiva semplice dello scostamento dai parametri, il giudice del gravame ha dato rilevanza, secondo una valutazione di merito non sindacabile in questa sede, alle prove contrarie offerte dal contribuente finalizzate ad evidenziare la concreta realtà economica nella quale lo stesso aveva operato nell’anno di riferimento;

pertanto, non sussiste alcuna violazione delle regole in materia di riparto dell’onere della prova;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione dell’art. 2697, c.c., con riferimento all’onere probatorio gravante sul contribuente alla luce del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e della L. n. 549 del 1995;

in particolare, si censura la sentenza per avere ritenuto che la prova contraria dedotta dal contribuente, consistente nella circostanza relativa alla morte del socio e nelle risultanze della perizia tecnica di parte, fosse idonea a contrastare la prova presuntiva dell’amministrazione finanziaria;

il motivo è infondato;

come è stato già evidenziato in sede di esame del secondo motivo di ricorso, la pronuncia del giudice del gravame ha dato rilevanza probatoria, al fine di contrastare la prova presuntiva dedotta dall’amministrazione finanziaria fondata sullo scostamento dai parametri riferibili all’attività svolta, alla circostanza di fatto consistente nel decesso del socio nonchè alle risultanze della perizia di parte, che, “in modo attendibile”, ha rielaborato il maggiore compenso stimato;

va quindi osservato che la sentenza censurata, come detto, ha fatto corretta applicazione del regime di riparto dell’onere di prova, avendo ritenuto che la prova contraria dedotta dal contribuente potesse essere idonea al fine di ridurre parzialmente il maggiore compenso stimato dall’amministrazione finanziaria mediante l’applicazione dei parametri;

in realtà, il presente motivo di censura prospetta una questione relativa, più che al corretto regime di riparto dell’onere di prova, alla valutazione del giudice del gravame dell’idoneità della prova contraria fornita dal contribuente al fine di contrastare, peraltro parzialmente, la pretesa dell’amministrazione finanziaria;

sotto tale profilo, il motivo di ricorso in esame comporta una censura della valutazione degli elementi di prova contraria, prospettabile in questa sede, solo ed entro i limiti della eventuale violazione dell’art. 116, c.p.c., ovvero per violazione dei principi in materia di prova presuntiva di cui all’art. 2727 c.c., profili in alcun modo presi in considerazione nel presente motivo di ricorso;

con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 e ss., nonchè del D.P.C.M. 29 gennaio 1996 e D.P.C.M. 27 marzo 1997, per avere fondato la decisione sulla perizia di parte e ritenuto corretto il maggior compenso stimato, rielaborato dalla suddetta perizia, cui, tuttavia, la parte avrebbe potuto adeguarsi spontaneamente solo in sede di dichiarazione dei redditi, al fine di evitare l’accertamento induttivo di tipo presuntivo, usufruendo, in tal modo, della riduzione dei risultati della determinazione parametrica dei redditi in base al “fattore di adeguamento”, previsto dal D.P.C.M. 27 marzo 1997, art. 5;

il motivo è infondato;

in primo luogo, va osservato che il motivo difetta di specificità, in quanto, pur facendo richiamo al contenuto della perizia di parte, cui ha fatto riferimento il giudice del gravame, non ne riproduce il contenuto al fine di consentire a questa Corte di apprezzare la rilevanza della censura prospettata;

peraltro, va altresì considerato che la pronuncia del giudice del gravame non si è fondata unicamente sul contenuto della suddetta perizia di parte, ma, come già osservata in sede di esame dei precedenti motivi di ricorso, sulla particolare circostanza concreta prospettata dal contribuente quale prova contraria alla pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria;

inoltre, nessuna critica specifica viene rivolta al contenuto intrinseco della perizia di parte, presa in considerazione dal giudice del gravame e le cui risultanze sono state valutate attendibili dal giudice del gravame, in quanto, come visto, parte ricorrente prospetta una questione di violazione di legge, relativa alla circostanza che il maggior compenso stimato nella perizia avrebbe potuto essere utilizzato solo in sede di dichiarazione, ma non anche nella fase successiva di accertamento ovvero contenziosa; tale ultimo profilo di censura non è corretto;

il D.P.C.M. 27 marzo 1997, art. 5 prevedeva che: “Ai fini delle imposte sui redditi l’accertamento in base ai parametri, determinati secondo le disposizioni dei precedenti articoli, non può essere effettuato nei confronti dei contribuenti che indicano nella dichiarazione dei redditi ricavi o compensi di ammontare non inferiore a quello derivante dall’applicazione dei predetti parametri, ridotto in base al “fattore di adeguamento” determinato secondo i criteri indicati nella nota tecnica e metodologica”;

in realtà, la suddetta disposizione aveva la funzione di limitare l’azione accertativa dell’amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente che avesse indicato nella dichiarazione dei redditi ricavi o compensi non superiora a quelli derivanti dall’applicazione dei paramenti anche ove, eventualmente, maggiormente inferiori, purchè nel rispetto della formula del fattore di adeguamento riportata in allegato;

ciò non implica, quindi, che, ove il contribuente non si fosse adeguato già in sede di dichiarazione dei redditi ai limiti previsti, anche mediante l’utilizzo della formula di adeguamento, non sia possibile verificare la sussistenza di situazioni concrete nelle quali lo stesso si è venuto a trovare nell’anno di riferimento e che hanno giustificato una riduzione dei ricavi rispetto a quelli ricavabili mediante l’applicazione dei parametri;

con riferimento, infine, alla questione relativa alla omessa pronuncia sulla eccezione di inutilizzabilità dei dati di cui alla perizia prodotta dal contribuente, va rilevato che parte ricorrente si limita a dedurre di avere sollevato la questione della non utilizzabilità del documento, senza, tuttavia, riprodurre l’atto nel quale la stessa era stata proposta;

peraltro, va osservato che, secondo questa Corte (Cass. civ., 13, novembre 2018, n. 29087, ha precisato che “Nell’ambito del processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato D.Lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi previsto a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio dal giudice anche nel caso di rinvio meramente interlocutorio dell’udienza o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva”;

dall’esame della sentenza si evince che il contribuente aveva prodotto il documento in data 17 gennaio 2013, quindi in data antecedente ai venti giorni liberi dalla successiva udienza del 7 febbraio 2013;

in conclusione, i motivi di ricorso sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso;

nulla sulle spese, attesa la mancata costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2021

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