Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6959 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. II, 11/03/2021, (ud. 18/12/2020, dep. 11/03/2021), n.6959

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22041/2019 proposto da:

C.M., rappresentato e difeso dall’avv. LUIGI NATALE, e

domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 25/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/12/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con il decreto impugnato il Tribunale di Napoli rigettava il ricorso proposto da C.M. avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale con il quale era stata respinta la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione il C. affidandosi a quattro motivi.

Il Ministero dell’Interno ha depositato memoria per la partecipazione all’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’apparenza e la perplessità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto non credibile la sua storia personale.

La censura è inammissibile. Il ricorrente aveva narrato di essere omosessuale e di aver intrattenuto una relazione con un ragazzo per diverso tempo; di esser poi stato scoperto in atteggiamenti intimi da un cugino del suo fidanzato, che avrebbe riferito la cosa al capo villaggio; quest’ultimo avrebbe ordinato che i due ragazzi fossero picchiati a morte, ma entrambi sarebbero riusciti a fuggire. Da questo momento il richiedente non avrebbe saputo più nulla del suo compagno ed avrebbe cominciato il viaggio che lo avrebbe poi portato dal Senegal, suo Paese di origine, attraverso il Mali, il Niger e la Libia, fino all’Italia. Il Tribunale ha ritenuto la storia non credibile, evidenziando che il ricorrente non aveva riferito nulla di specifico sui propri sentimenti verso il compagno e non aveva saputo spiegare perchè i due ragazzi avessero potuto intrattenere una relazione omosessuale durata circa tre anni in un clima fortemente omofobo, tra l’altro vivendo la loro relazione anche in locali pubblici. Inoltre, il giudice di merito afferma che l’orientamento sessuale dichiarato dal richiedente sarebbe dubbio perchè lo stesso non avrebbe più intrattenuto rapporti con altri uomini, dopo aver lasciato il fidanzato. Queste considerazioni non sono in alcun modo condivisibili, in quanto attingono alle modalità personali con cui la persona vive il proprio orientamento sessuale e non evidenziano alcuna contraddizione della narrazione. Del tutto plausibile, infatti, è che due ragazzi omosessuali vogliano vivere la loro sessualità ed il loro rapporto in piena libertà, anche in un contesto repressivo, e che una persona non voglia intrattenere rapporti con altri, dopo aver perso il compagno con cui era legato. Sotto questo profilo, peraltro, va osservato che non appare lecito chiedere alla persona di inclinazione omosessuale una sorta di giustificazione psicologica di detto orientamento, che rientra nella sfera di libera esplicazione della sua personalità e dunque, in quanto tale, non può essere soggetto ad alcuna indagine direttamente incidente sulle modalità con cui la persona abbia scoperto o vissuto la propria sessualità. Tuttavia nel caso specifico il giudice di merito evidenzia anche talune incongruenze relative al percorso seguito dal richiedente nel suo allontanamento dal Senegal: in particolare, egli aveva inizialmente dichiarato che la sua meta finale era l’Italia, ma poi si era contraddetto, affermando che quando si trovava in Libia egli avrebbe desiderato recarsi in Gambia per lavorare. Da queste incoerenze, che non risultano specificamente attinte dal motivo in esame, il giudice di merito ha ricavato la conclusione che la causa della migrazione fosse da identificare nel desiderio del richiedente di migliorare le proprie condizioni di vita, e quindi in una motivazione economica. Peraltro il Tribunale evidenzia anche che il richiedente è stato riascoltato in sede giudiziaria e, alla specifica richiesta di chiarire meglio la propria storia personale, avrebbe risposto di non voler aggiungere alcunchè a quanto riferito alla Commissione, mostrando un atteggiamento scarsamente collaborativo. La valutazione di inattendibilità del racconto, quindi, si fonda su due argomenti, il secondo dei quali -relativo, appunto, alla incoerenza della storia del viaggio di allontanamento dal Senegal ed alla condotta poco collaborativa del C. – non viene attinto dalla censura in esame ed è sufficiente a tener ferma la conclusione cui è pervenuto il Tribunale.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8,11 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento dello status di rifugiato.

La censura è inammissibile, a fronte da un lato della sua estrema genericità, posto che il richiedente nulla di specifico allega a dimostrazione della sua condizione di soggetto perseguitato, e dall’altro della valutazione di non credibilità della sua storia personale, a fronte della quale appare del tutto giustificato il diniego tanto dello status che della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, art. 14 ed del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente denegato il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. c).

La censura è inammissibile. Il Tribunale ha escluso la sussistenza, in Senegal, di una situazione di violenza generalizzata rilevante ai sensi della disposizione da ultimo richiamata, in base ad informazioni aggiornate e specifiche tratte da fonti idonee, debitamente citate nella motivazione del decreto impugnato (cfr. pag. 9). Il ricorrente richiama alcune fonti informative, senza tuttavia evidenziare quale specifica informazione da esse ricavabile contraddirebbe la ricostruzione di fatto operata dal giudice di merito, dimostrando la non adeguatezza, o lo scarso aggiornamento, delle fonti da quest’ultimo utilizzate. Sul punto, occorre ribadire che “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 26728 del 21/10/2019, Rv. 655559). Ove manchi tale specifica allegazione, è precluso a questa Corte procedere ad una revisione della valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito. Solo laddove nel motivo di censura vengano evidenziati precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il predetto giudice ha deciso siano state effettivamente superate da altre e più aggiornate fonti qualificate, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede.

In definitiva, va data continuità al principio secondo cui “In tema di protezione internazionale, il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate” (v. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4037 del 18/02/2020, Rv. 657062).

Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 ed del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè il Tribunale non avrebbe riconosciuto la protezione umanitaria.

La censura è inammissibile. Il ricorrente si duole del fatto che il giudice di merito non abbia considerato la sua giovane età, la sua condizione di orfano di padre e la buona integrazione sociale da lui raggiunta in Italia, senza tuttavia aver cura di specificare in cosa detta integrazione si sostanzierebbe. Allega inoltre un generico pericolo di subire trattamenti inumani in caso di rimpatrio, senza tuttavia indicare il motivo di tale rischio; ed accenna, infine, all’assenza di legami stabili in patria, anche in questo caso senza aver cura di specificare la deduzione. L’inclinazione omosessuale, invece, rimane sullo sfondo, e questo comprova, indirettamente, il giudizio di non credibilità formulato dal giudice di merito sulla storia personale del richiedente.

In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, in assenza di notificazione di controricorso da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 18 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

 

 

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