Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6956 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. II, 11/03/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 11/03/2021), n.6956

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22705/2019 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO SOTTILE,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 3087/2019 del TRIBUNALE di

BOLOGNA, depositato il 03/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/11/2020 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Bologna confermò la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione internazionale avanzata da M.S.;

ritenuto che il richiedente ricorre sulla base di tre motivi avverso la statuizione del Tribunale e che il Ministero dell’Interno, tardivamente costituitosi, non ha svolto difese;

ritenuto che con il primo e il secondo motivo, tra loro correlati, il ricorrente lamenta “violazione ex art. 360, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 14, D.Ls. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e art. 2 e 3 CEDU, oltre al difetto di motivazione, travisamento dei fatti e omesso esame dei fatti decisivi”, nonchè ancora “violazione D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14 – omessa valutazione di fatti decisivi”, assumendo, in sintesi, che il Giudice non aveva applicato il principio dell’onere della prova attenuato, nè valutato le dichiarazioni della ricorrente “alla luce di quanto stabilito dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”, in presenza di fatti narrati linearmente, che il Tribunale aveva interpretato erroneamente e prescindendo dalla situazione socio-politica del Bangladesh, nè era consentito dalla legislazione interna imporre al richiedente la protezione far rientro in una zona delimitata del proprio paese, giudicata sicura; la decisione non aveva esaminato il fatto decisivo costituito dal danno grave derivante dalla situazione di violenza indiscriminata del Paese d’origine; non aveva ulteriormente approfondito i profili della narrazione che apparivano generici, così venendo meno al dovere di cooperazione istruttoria; non aveva considerato che il richiedente aveva riferito circostanziatamente di luoghi e date, nè della buona fede e degli sforzi dal medesimo compiuti;

considerato che il complesso censuratorio è inammissibile, valendo quanto segue:

a) il ricorrente ha raccontato di essere emigrato dal Bangladesh per sottrarsi alle minacce dei creditori, che, quando aveva solo quindici anni, gli avevano prestato il denaro per curare il padre e il Tribunale, con valutazione di merito in questa sede incensurabile, ha negato in radice l’attendibilità del narrato (inverosimile l’assunzione di debiti a quell’età, la malattia del padre era dimostrata da un certificato medico radicalmente inattendibile); ciò solo fa escludere la ricorrenza di un dovere d’ulteriore approfondimento istruttorio sulla vicenda (senza contare che la narrazione, proprio a cagione della sua flagrante vacuità e irrisolvibile inverosimiglianza non avrebbe comunque permesso attingimento di conferme di sorta) e il ricorrente, piuttosto che contrappore evidenze processuali tali da smentire le conclusioni del Tribunale, si limita a riportare i principi della materia e a insistere nella propria versione;

b) piuttosto palesemente le critiche sono rivolte al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360 c.p.c., vigente n. 5, difatti, invece che porre in rilievo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo o l’assenza di giustificazione argomentativa della decisione, con le stesse la ricorrente, contrappone al ragionato esame della Corte il proprio avverso convincimento;

c) sul piano della narrazione soggettiva, l’inattendibilità della stessa risulta sorretta da argomenti che non possono in alcun modo considerarsi mero simulacro; nè, si ripete, sulla base della approssimativa e gravemente contraddittoria narrazione era ipotizzabile un qualunque approfondimento istruttorio;

d) quanto alla situazione del Bangladesh, la decisione ha preso in esame COI aggiornate, dalle quali è dato escludere la sussistenza di quella situazione di violenza diffusa e incontrollata evocata dalla ricorrente; in definitiva risulta evidenziata una condizione di sottosviluppo e d’instabilità del Paese, diffusa, peraltro, purtroppo in molte regioni del mondo, ma non la situazione di particolare criticità dalla quale può conseguire il diritto alla protezione sussidiaria;

e) il Giudice del merito, quindi, ha deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

considerato che il terzo motivo, con il quale si deduce violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi in riferimento alla giovane età, alla “estrema condizione di povertà” e alle avverse condizioni climatiche e alle difficoltà lavorative nel Paese di provenienza, è inammissibile, essendo diretto, peraltro attraverso la valorizzazione di circostanze estranee ai presupposti dell’invocata protezione, al riesame del vaglio di merito, che ha motivatamente giudicato insussistenti i presupposti per accedere alla chiesta protezione umanitaria;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (seni. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che non occorre far luogo a regolamento delle spese, non avendo il Ministero svolto difese;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

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