Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6952 del 25/03/2011

Cassazione civile sez. I, 25/03/2011, (ud. 02/12/2010, dep. 25/03/2011), n.6952

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.G., domiciliato in Roma, alla Piazza Cavour, presso

la Cancelleria civile della Corte di cassazione, unitamente all’avv.

FERRANTI Mariano, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della Corte di Appello di Roma pubblicato il 29

novembre 2006.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2

dicembre 2010 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, il quale ha concluso per il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con decreto del 30 novembre 2006, la Corte d’Appello di Roma ha accolto le domande di equa riparazione proposte da S. G., S.G., M.C. e D.M. P. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio promosso dagl’istanti dinanzi al Tribunale di Nola, in funzione di Giudice del lavoro.

Premesso che il giudizio presupposto, iniziato nell’anno 1998 e conclusosi in primo grado con sentenza del 27 marzo 2003, era ancora pendente in appello, e ritenuto che il caso trattato fosse in sè alquanto semplice, la Corte ha determinato la ragionevole durata del processo di primo grado in tre anni, escludendo invece la sussistenza di un ritardo irragionevole in appello, e, tenuto conto della modestia della pretesa azionata e del patema d’animo sofferto dagl’istanti, ha liquidato equitativamente il danno non patrimoniale in Euro 800,00 per ciascuno di essi.

2. Avverso il predetto decreto il S. propone ricorso per cassazione, articolato in quattordici motivi. Il Ministero non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, si rileva che avverso il medesimo decreto hanno proposto autonomi ricorsi per cassazione S.G., M.C. e D.M.P., le cui impugnazioni sono state già decise con sentenze del 29 marzo 2010, n. 7548 e del 21 luglio 2010, n. 17123.

Tali decisioni, intervenute senza che si fosse provveduto alla riunione delle impugnazioni separatamente proposte avverso lo stesso decreto, non comportano peraltro l’improcedibilità di quella del S., avendo i ricorsi ad oggetto cause diverse e scindibili, che per effetto della trattazione unitaria ne precedente grado di giudizio sono state definite con un decreto solo formalmente unico (cfr., Cass., Sez. 5^, 20 giugno 2008, n. 16826; Cass., Sez. lav., 4 marzo 2008, n. 5846).

2. – Con i primi quattro motivi, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha omesso di determinare la durata ragionevole del giudizio presupposto ed ha riconosciuto l’indennizzo soltanto per il periodo di tempo eccedente tale durata, anzichè per l’intera durata del processo, astenendosi dal disapplicare le norme interne contrastanti con la Convenzione e contravvenendo ai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

2.1. – I motivi sono infondati.

Premesso che la Corte d’Appello non ha affatto omesso di stabilire quale avrebbe dovuto essere la durata ragionevole del processo, ma l’ha espressamente quantificata in tre anni per il giudizio di primo grado, escludendone invece il superamento in appello, si osserva che, ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole. Tale criterio di calcolo appare non solo conforme al principio enunciato dall’art. 111 Cost., il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003. resa sul ricorso n. 36813/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6, par. 1, della CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione (cfr. Cass., Sez. 1^, 23 novembre 2010, n. 23654; 14 febbraio 2008, n. 3716).

3. – Sono parimenti infondati i motivi dal quinto all’ottavo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6, par. 1, della CEDU e dei principi enunciati dalla Corte EDU, nonchè l’incongruenza e l’insufficienza della motivazione, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha liquidato il danno non patrimoniale in misura inferiore agli standards europei, senza fornire alcuna motivazione ed in particolare senza spiegare le ragioni per cui ha ritenuto modesti gl’interessi economici coinvolti nel giudizio presupposto.

3.1 – E’ pur vero che, come ripetutamele affermato da questa Corte, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

E’ stato tuttavia precisato che, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750.00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento de danno (cfr. Cass., Sez., 1^, 30 luglio 2010, n. 17922; 14 ottobre 2009, n. 21840).

Tali parametri sono stati sostanzialmente rispettati dalla Corte d’Appello, la quale, tenuto conto della modestia della pretesa azionata nel giudizio presupposto e considerato che la stessa non atteneva ai diritti fondamentali della persona e della vita, ha ridimensionato la portata del patema d’animo sofferto dall’istante in conseguenza dell’irragionevole protrarsi della vicenda processuale, ed ha pertanto riconosciuto al ricorrente la somma di Euro 800,00, superiore all’importo minimo ritenuto adeguato dalla Corte EDU. Il ricorrente si duole della mancata precisazione delle ragioni che hanno indotto la Corte d’Appello a ritenere modesti gl’interessi economici coinvolti nella controversia, senza però considerare che il giudizio di comparazione tra la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (c.d. posta in gioco) e la condizione socioeconomica del richiedente, cui il giudice di merito deve procedere per accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di quest’ultimo, al fine di giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte EDU, deve pur sempre aver luogo sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalle parti (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 luglio 2009, n. 17404; 2 novembre 2007, n. 23048), che nella specie non sono state neppure riportate nel ricorso, con la conseguenza che le censure si presentano, sotto tale profilo, prive di autosufficienza.

4. – Sono altresì infondati il nono ed il decimo motivo, con cui i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU, dell’art. 1 del relativo protocollo aggiuntivo e dell’art. 132 cod. proc. civ., nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che la Corte d’Appello ha liquidato le spese processuali in misura insufficiente rispetto agli standards europei.

4.1. – Nei giudizi di equa riparazione promossi ai sensi della L. n. 89 del 2001, che si svolgono dinanzi al giudice italiano secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito, la liquidazione delle spese processuali deve essere infatti effettuata applicando le tariffe professionali vigenti nell’ordinamento italiano, e non già in base agli onorari liquidati dalla Corte BDU. i quali attengono esclusivamente al regime del procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di Strasburgo, dal momento che la liquidazione del compenso per l’attività professionale prestata dinanzi ai giudici dello Stato deve aver luogo secondo le norme che disciplinano la professione legale davanti alle corti ed ai tribunali di quello Stato (cfr.

Cass., Sez. 1^, 11 settembre 2008, n. 23397).

5. – Sono infine infondati i motivi dall’undicesimo al quattordicesimo, con cui i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU, della L. n. 89 del 2001, art. 2 e degli artt. 91, 92, 112 e 132 cod. proc. civ., nonchè l’omessa, insufficiente o incongrua motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che la Corte d’Appello, senza fornire un’adeguata motivazione, ha liquidato le spese processuali in misura non conforme alle tariffe professionali ed alla natura del procedimento, il quale, pur svolgendosi nelle forme del rito camerale, non costituisce espressione di volontaria giurisdizione ma ha carattere contenzioso.

5.1. – La motivazione del decreto impugnato non reca infatti alcuna indicazione dalla quale possa desumersi che, come sostiene il ricorrente, la liquidazione delle spese (unitariamente quantificate, in favore dei quattro ricorrenti, in complessivi Euro 2.350,00, ivi compresi Euro 800,00 per diritti ed Euro 1500,00 per onorario) abbia avuto luogo secondo la tariffa vigente per i procedimenti in Camera di consiglio, anzichè in base a quella relativa ai procedimenti contenziosi, la cui applicabilità discende dalla natura della controversia, riguardante contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinata a chiudersi con un provvedimento pronunziato nel pieno contraddittorio delle parti ed avente natura sostanziale di sentenza (cfr. Cass., Sez. 1^, 7 ottobre 2009, n. 21371; 17 ottobre 2008, n. 25352).

Il ricorrente, inoltre, pur lamentando l’insufficiente liquidazione delle spese, non ha provveduto all’analitica specificazione delle voci della tariffa professionale che ritiene violate e degli importi considerati, la cui indicazione risulta essenziale al fine di consentirne il controllo in sede di legittimità senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti, giacchè l’eventuale violazione della suddetta tariffa integra un’ipotesi di error in indicando e non in procedendo (cfr. Cass., Sez. 1^, 7 agosto 2009, n. 18086; Cass., Sez. 2^, 16 febbraio 2007, n. 3651).

6. – Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione del Ministero.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2011

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