Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 695 del 13/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 13/01/2011, (ud. 23/09/2010, dep. 13/01/2011), n.695

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro in

carica, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato,

presso la quale sono domiciliati in Roma in via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrenti –

contro

M.M.L., rappresentata e difesa dall’avv. Cicognani

Antonio e dall’avv. D’Ayala Valva Francesco, presso il quale è

elettivamente domiciliata in Roma in viale Parioli n. 43;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 130/20/05, depositata il 25 novembre 2005;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23

set tentare 2010 dal Relatore Cons. Dott. GRECO Antonio;

udita l’avvocato dello Stato Guida Maria Letizia per i ricorrenti e

l’avv. D’Ayala Valva Francesco per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto del secondo e del

terzo motivo del ricorso, assorbito il primo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia indicata in epigrafe con la quale, rigettando l’appello dell’Agenzia delle entrate, ufficio di Milano (OMISSIS), è stata confermata l’illegittimità dell’avviso di rettifica parziale dell’IVA per l’anno 1995 e dell’avviso di irrogazione di sanzioni relative alla medesima imposta, emessi a carico di M.M.L..

Un’originaria verifica fiscale nei confronti della spa Cave San Bartolo in Ravenna – che svolgeva attività di estrazione dal sottosuolo e di commercializzazione di materiali inerti, sabbia fine, sabbia, granisello e ghiaia – era stata infatti estesa nel 2000 a M.M., proprietaria della cava nella quale la società svolgeva l’attività estrattiva in forza di un contratto di compravendita del materiale lapideo dell’8 luglio 1995:

l’amministrazione finanziaria, ritenendo che la M. rivestisse la qualifica di imprenditore e che tutte le operazioni effettuate con la Cave San Bartolo “avrebbero dovuto essere regolarmente assoggettate alla normativa fiscale”, aveva formulato “rilievi di consistenti evasioni fiscali”.

Il giudice d’appello, premesso che dal contratto che regolava il rapporto fra le parti appariva che la M. cedeva tutto il materiale estraibile alla spa Cave San Bartolo, risultandone confermata la natura di contratto di vendita e, quindi, vanificata l’ipotesi formulata dall’Ufficio, dell’esistenza di un contratto di appalto e di un contratto di permuta, riteneva gli avvisi impugnati nulli per difetto assoluto di motivazione. La motivazione dell’atto impositivo era infatti basata sul verbale della Guardia di finanza, rispetto al quale era mancata “quell’attività intellettiva, valutativa ed estimativa consistente nell’apprezzamento tecnico- giuridico dei fatti e valutazione degli indizi, propria della funzione accertatrice”. Le asserzioni della Guardia di finanza sulla cui base l’Ufficio aveva emesso gli avvisi non apparivano “suffragate nè da prove nè da indizi connotati dai requisiti della certezza, gravità e concordanza che possano far escludere ogni ipotesi alternativa”.

La M. resiste con controricorso illustrato con successiva memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso del Ministero dell’economia e delle finanze per difetto di legittimazione processuale, dal momento che il Ministero, cui è succeduta l’Agenzia delle entrate a far data dal 1 gennaio 2001, anteriore a quella di deposito dell’appello, s’intende tacitamente estromesso dal relativo giudizio, svoltosi nei soli confronti dell’agenzia delle entrate, ufficio di Milano (OMISSIS) (Cass. n. 9004 del 2007).

Si ravvisano giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione, considerata l’epoca in cui il predetto principio si è consolidato.

Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di giudicato esterno sollevata dalla controricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

In particolare, si deduce che, con ordinanze nn. 23206, 23368 e 23369 del 2008, questa Corte, nell’ambito di controversie tra la spa Cave San Bartolo e l’Agenzia delle entrate aventi ad oggetto avvisi di accertamento derivati dal medesimo contratto stipulato nel luglio 1995 tra la detta società e la M., sopra menzionato, ha dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dall’Agenzia, con conseguente passaggio in giudicato delle relative sentenze di appello, con le quali tale contratto era stato qualificato come vendita di genere del materiale lapideo da estrarre, ai sensi dell’art. 1378 c.c., con esclusione della qualità di imprenditore commerciale della venditrice M..

L’eccezione deve essere disattesa.

In base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, premesso che dal principio stabilito dall’art. 2909 cod. civ. – secondo cui l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa – si evince, a contrario, che l’accertamento contenuto nella sentenza non estende i suoi effetti, e non è vincolante, rispetto ai terzi (Cass., sez. un., n. 9631 del 1996), il giudicato può, tuttavia, quale affermazione obiettiva di verità, spiegare efficacia riflessa anche nei confronti di soggetti estranei al rapporto processuale. Ma tali effetti riflessi del giudicato, oltre gli ordinari limiti soggettivi, sono impediti quando il terzo sia titolare di un rapporto autonomo e indipendente rispetto a quello in ordine al quale il giudicato interviene, non essendo ammissibile nè che egli ne possa ricevere un pregiudizio giuridico, nè che se ne possa avvalere a fondamento della sua pretesa (salvo che tale facoltà sia espressamente prevista dalla legge, come nel caso delle obbligazioni solidali, ai sensi dell’art. 1306 c.c., comma 2) (cfr., ex plurimis, Cass. n. 250 del 1996, n. 5320 del 2003, n. 5381 e n. 11677 del 2005, n. 7523 del 2007).

Nella specie, la controricorrente è parte di un distinto ed indipendente rapporto obbligatorio con l’amministrazione finanziaria, rispetto a quello intercorrente tra questa e la società Cave San Bartolo, con la conseguenza che il giudicato intervenuto nella controversia tra queste ultime non ha alcuna efficacia vincolante nel presente giudizio.

Con il primo motivo l’amministrazione ricorrente, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 51 e 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, censura la decisione per aver dichiarato l’illegittimità dell’avviso per insufficiente motivazione e conseguente lesione del diritto di difesa della contribuente, atteso che le prescrizioni sul contenuto della motivazione non fisserebbero un obbligo di natura astratta, ma strettamente funzionale alla garanzia della possibilità di difesa reale della parte, con la conseguenza che la nullità ivi prevista non potrebbe essere dichiarata se non previo accertamento in concreto che l’ipotetica lesione del diritto di difesa vi sia stata. Nella specie, l’abbondanza di censure svolte dalla contribuente sin nei minimi dettagli dei due processi verbali di accertamento da essa conosciuti, in quanto notificabile, che chiaramente si evincerebbe anche alla sola lettura del ricorso in primo grado, dimostrerebbe esattamente il contrario.

Il motivo è infondato, ove si consideri che “l’avviso di accertamento – che ha carattere di “provocatio ad opponendum” e soddisfa l’obbligo di motivazione, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur” – deve ritenersi correttamente motivato ove faccia riferimento ad un processo verbale di constatazione della guardia di finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato.

Ne consegue che, ai sensi della citata norma, l’Amministrazione non è tenuta ad includere nell’avviso di accertamento notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, nè di riportarne, sia pur sinteticamente, il contenuto” (Cass. n. 6232 del 2003, n. 4223 del 2006).

Questa Corte ha poi chiarito cerne “l’atto amministrativo finale di imposizione tributaria, il quale sia il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali: tale principio e desumibile sia dalle norme generali sull’attività amministrativa poste dalla L. 7 agosto 1990, n. 241 (applicabili, salva la specialità, anche per il procedimento amministrativo tributario), alla stregua delle quali il titolare dei poteri di decisione non è tenuto a reiterare l’esercizio dei poteri, d’iniziativa e, soprattutto, istruttori, che hanno preparato la sua attività; sia dalle norme tributarie generali di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 7 e 12; sia, infine – per quanto concerne in particolare l’IVA – dalle disposizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 51 e 52, che, nel regolare minuziosamente la fase istruttoria del procedimento di accertamento, prevedono che gli uffici IVA si avvalgano delle prestazioni cognitive di altri organi, di altre amministrazioni dello Stato e della Guardia di finanza (sulla base dell’enunciato principio, la S.C. ha negato quindi validità all’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui l’avviso di accertamento – nella specie, in materia di IVA – dovrebbe essere autonomo rispetto al processo verbale di constatazione, nel senso che l’Ufficio accertatore dovrebbe svolgere comunque, anche quando altri organi istruttori – nella specie, la Guardia di finanza – abbiano compiuto attività preparatoria della sua decisione, un’ulteriore, autonoma e integratrice, attività istruttoria)” (Cass. n. 1236 del 2006). E’ stato infatti più’ volte affermato, segnatamente in materia di IVA, che “la motivazione degli atti di accertamento “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economa di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Cass. n. 10205 del 2003, n. 25146 del 2005).

Con il secondo motivo, denunciando “omessa motivazione su fatti controversi e decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, l’amministrazione ricorrente si duole che il giudice d’appello, arrestando il proprio giudizio alla tematica della compromissione del diritto di difesa della parte in caso di motivazione per relationem dell’atto di accertamento, e limitandosi a mettere in luce, come elemento dirimente, la qualificazione dell’operazione contrattuale come vendita, in contrapposizione alla ricostruzione mista, appalto e permuta, operata dall’amministrazione, non abbia vagliato gli elementi di fatto – sui quali il primo giudice aveva omesso ogni disamina – dai quali sarebbe emersa un’operazione di spiccata finalità elusiva, atteso che l’opzione per un determinato schema contrattuale, da parte dell’organo di polizia tributaria, non poneva ritenersi vincolante per il giudice tributario, che era chiamato a vagliare la tenuta del ragionamento presuntivo in tutti i suoi passaggi.

Con il terzo motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 2, lett. b), (già art. 51, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, censura la decisione assumendo come, secondo la disposizione in rubrica, lo svolgimento dell’attività di estrazione e vendita di materiale pietroso possa avvenire attraverso plurime modalità: la scelta di esercitare “in proprio” un’attività commerciale non sarebbe affatto l’unica praticabile, sicchè avrebbe scarso rilievo il dato, puramente formale, della mancata qualità “ufficiale” di imprenditrice in capo alla contribuente – la quale si dichiarava sprovvista della veste di imprenditrice perchè carente di organizzazione materiale necessaria all’attività estrattiva e di lavorazione, e conseguentemente sottraeva all’imposizione IVA le operazioni discendenti dal contratto: art. 11 della scrittura privata -, e non sarebbe sufficientemente argomentato il giudizio di infondatezza della pretesa tributaria, poggiante sull’esatto apprezzamento della sostanza economica e sui riflessi fiscali dell’operazione posta in essere dalla contribuente.

I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, siccome intimamente connessi, sono fondati.

Secondo l’art. 820 c.c. “sono frutti naturali quelli che provengono direttamente dalla cosa, vi concorra o no l’opera dell’uomo, come i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali, i prodotti delle miniere, cave e torbiere” (comma 1); “finchè non avviene la separazione”, poi (comma 2), “i frutti formano parte della cosa”, anche se “si può tuttavia disporre di essi come di cosa mobile futura”.

I contratti di diritto privato aventi per oggetto lo sfruttamento di cave, come da tempo chiarito (Cass. n. 9785 del 1995), possono assumere configurazioni giuridiche diverse, a seconda dell’ intenzione dei contraenti; in essi, infatti, è ravvisabile:

una vendita immobiliare – a sua volta distinguibile (Cass. n. 3750 del 1999) in vendita immobiliare della cava nel suo complesso, ovvero del solo sottosuolo interessato dal giacimento, rimanendo il soprasuolo ed il restante sottosuolo in proprietà del venditore), quando il negozio abbia ad oggetto il giacimento nella sua complessiva stratificazione intesa in unità di superficie e di volume e ne sia previsto il completo trasferimento per un prezzo commisurato al volume dell’intera cava;

una vendita mobiliare, se le parti abbiano invece considerato il prodotto dell’estrazione, ragguagliato a peso o a misura;

un contratto riconducibile nello schema dell’affitto, quando l’intenzione dei contraenti sia invece finalizzata allo scopo di consentire il godimento (sfruttamento) temporaneo del bene secondo la sua destinazione (Cass. n. 4090 del 1982, n. 4646 del 1989;

sull’inquadramento nello schema dell’affitto del contratto avente ad oggetto la concessione dello sfruttamento di una cava, cfr., altresì, Cass. n. 4503 del 2001, n. 24371 del 2006, n. 250 del 2008): il legislatore, infatti, come si è visto, annovera espressamente i “prodotti delle cave”, al pari di quelli delle miniere e delle torbiere, tra i frutti naturali “art. 820 c.c., comma 1) e considera quindi la cava, non diversamente dalla miniera e dalla torbiera, alla stregua di una cosa produttiva, la cui esistenza costituisce il necessario presupposto per la stipulazione di un contratto di affitto (art. 1615 c.c.).

Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 (applicabile nella specie ratione temporis, poi art. 55, secondo la numerazione introdotta dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344), dopo aver previsto al comma 1 che “sono redditi di impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali”, con l’ulteriore specificazione che “per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c. e delle attività indicate all’art. 29, comma 2, lett. b) e c) che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa” -, tenuto conto della caratteristica dei beni, al comma 2 dispone che “sono inoltre considerati redditi di impresa… b) i redditi derivanti dallo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne”.

L’avverbio “inoltre” univocamente conferisce alla disposizione un valore aggiuntivo a (nonchè specificativo di) quella generale del comma 1 per cui alla stessa può attribuirsi solo il senso di una qualificazione ex lege, quali “redditi di impresa”, di tutti i “redditi” comunque “derivanti” (non già dall’alienazione e/o compressione del diritto reale di proprietà ma solo) “dallo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne”.

La correlazione tra la peculiarità della previsione -additiva, come tutte le ulteriori fattispecie considerate nelle lett. a) e c) del medesimo comma 2, di quella generale del comma precedente – ed i principi in tema di contratti di diritto privato aventi per oggetto lo sfruttamento di cave sopra richiamati impone, quindi, di considerare come “redditi di impresa” tutti quelli ricavati dal proprietario della cava in conseguenza e per effetto dell’attività di sfruttamento (indipendentemente dal soggetto che materialmente esegua l’attività stessa), in tutte le ipotesi in cui non si trasferisce a terzi il diritto di proprietà della cava ovvero non si costituisce sulla stessa un diritto reale di godimento, perchè solo tale interpretazione consente di attribuire un senso logico concreto alla previsione: non essendo, infatti, dubitabile che l’attività di sfruttamento della cava costituisca, per il soggetto che la svolge materialmente (nel caso, la spa Cave San Bartolo), “esercizio di imprese commerciali” ex art. 2195 c.c. – e, quindi, che i redditi dalla stessa ricavati da tale soggetto rientrino nella previsione del comma 1 della norma tributaria -, la disposizione del comma 2 non può che riguardare la qualificazione fiscale ex lega, anch’essa quale redditi d’impresa, della controprestazione contrattuale ricevuta dal proprietario della cava per il trasferimento a terzi (non già del diritto di proprietà o del diritto reale di godimento sul bene ma) della sola attività di sfruttamento del bene fruttifero.

Costituiscono pertanto “reddito d’impresa”, in base alla detta disposizione del TUIR, i ricavi conseguiti dalla contribuente nell’attività di sfruttamento della cava, svolta, come accertato dal giudice del merito (“contratto stipulato tra la signora M. e la Cava San Bartolo…” in base al quale la prima “cede tutto il materiale estraibile…”), in modo continuativo e stabile, e non concretantesi in atti isolati di produzione e commercio (cfr. Cass. n. 13999 del 2003).

Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo della contribuente.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’Economia e delle finanze e compensa le spese.

Accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente.

Condanna la contribuente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 5000, ivi compresi Euro 200 per spese vive.

Così deciso in Roma, il 23 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2011

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