Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6945 del 02/03/2023

Cassazione civile sez. VI, 02/03/2022, (ud. 17/02/2022, dep. 02/03/2022), n.6945

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25732-2020 proposto da:

D.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLLIA 23/29,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO SASSI, che lo rappresenta e

difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMPLEX SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 138,

presso lo studio dell’avvocato GAETANO MASSIMO SARDO, che unitamente

all’avvocato GAETANO SARDO E MARCO SPOSINI, lo rappresenta e difende

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 975/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di

ROMA, depositata il 16/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

17/02/2022 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie del ricorrente.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

D.F., con ricorso notificato in data 20-30 settembre 2020 ha chiesto la revocazione della sentenza di questa Corte n. 975 del 16 gennaio 2019 (che, decidendo sulla precedente richiesta di revocazione avverso la sentenza della Corte di Cassazione n. 6254 del 10 marzo 2017, ha revocato tale ultima sentenza quanto alla declaratoria di inammissibilità del quarto e del quinto motivo di ricorso, a suo tempo proposti dal D., ma giudicando in rescissorio ha rigettato gli stessi motivi), nonché della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro n. 548/2011, e della proposta a suo tempo predisposta dal Consigliere delegato presso la Sesta Sezione civile.

La Complex S.r.l. ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha altresì depositato memorie in prossimità dell’udienza.

La sentenza n. 975/2019 ha così motivato:

“FATTI DI CAUSA:

D.F. ha proposto ricorso articolato in tre motivi per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione n. 6254/2017, depositata il 10 marzo 2017. La Complex s.r.l. resiste con controricorso.

Su proposta del relatore, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., comma 4, e dell’art. 380-bis c.p.c., commi 1 e 2, che ravvisava l’inammissibilità del ricorso, il presidente fissava con decreto l’adunanza della Corte perché la controversia venisse trattata in Camera di Consiglio nell’osservanza delle citate disposizioni.

In prossimità dell’adunanza camerale del 20 febbraio 2018, il ricorrente presentava memoria, in forza dell’art. 380-bis c.p.c., nonché istanza di rimessione della causa alle sezioni unite della Corte di cassazione.

Con ordinanza interlocutoria del 16 aprile 2018, il Collegio, non ritenendo l’inammissibilità del ricorso per revocazione, rinviava la causa alla pubblica udienza della sezione semplice ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., comma 4.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

La causa ebbe inizio con citazione dell’ottobre 1992, allorché la Complex s.r.l. convenne in giudizio D.F. chiedendo l’accertamento della risoluzione di diritto del contratto preliminare stipulato in data 4 giugno 1991, con cui la società attrice aveva promesso di vendere al D. tre appartamenti e due sovrastanze, siti in (OMISSIS), alla via (OMISSIS), al prezzo complessivo di Lire 99 milioni da corrispondere prima della stipula del contratto definitivo, con conseguente condanna del promissario acquirente al risarcimento del danno.

Il convenuto D. eccepì l’inadempimento della promittente venditrice e propose domanda riconvenzionale ex art. 2932 c.c., nonché di condanna dell’attrice al risarcimento del danno.

L’adito Tribunale di Catanzaro, con sentenza del 15 ottobre 2005, accolse la domanda della Complex s.r.l., condannò D.F. a risarcire il danno da liquidarsi in separato giudizio e autorizzò la società a trattenere la somma ricevuta a titolo di caparra confirmatoria. La Corte d’Appello di Catanzaro, sull’impugnazione di D.F., con sentenza n. 548/2011 del 13 maggio 2011, dichiarò la nullità della decisione di primo grado, per omessa pronuncia sulle domande ed eccezioni proposte dal convenuto appellante, e accolse comunque la domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del D. e di risarcimento dei danni, come proposta dalla società Complex, escludendo il diritto alla ritenzione della caparra. D.F. propose ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

Questa Corte, con la sentenza n. 6254/2017 del 10 marzo 2017, dichiarò infondato il primo motivo del ricorso di D.F. (violazione dell’art. 1460 c.c. e dell’art. 1457 c.c., comma 1, sulla valutazione comparativa dei reciproci inadempimenti); dichiarò infondato il secondo motivo (nullità della sentenza per violazione degli artt. 354 e 101 c.p.c., degli artt. 80,83 e 84disp. att. c.p.c., e degli artt. 3 e 24 Cost., in ordine alla mancata remissione al primo giudice); dichiarò infondato il terzo motivo (falsa applicazione dell’art. 1175 c.c., dell’art. 1176c.c., comma 1, dell’art. 1460c.c., comma 1, e dell’art. 1498 c.c., comma 2, e vizio di motivazione, sempre circa la valutazione dei comportamenti dei contraenti); dichiarò, da ultimo, inammissibili il quarto motivo ed il quinto motivo del ricorso (quarto motivo: violazione degli artt. 1490,1494,1453 e 2932 c.c., contestandosi che al momento del preliminare del 4 giugno 1991 ed ancora all’attualità, il fabbricato ove sono comprese le due unità immobiliari, promesse in vendita dalla Complex, risultasse accatastato su una fascia di fosso demaniale e fosse perciò cointestato al demanio; quinto motivo: violazione degli artt. 1490,1494,1337,1338,1440 c.c. e vizio di motivazione, in quanto le sovrastanze abusive non potevano costituire oggetto della promessa di vendita, con conseguente nullità della clausola 4 del contratto preliminare, essendo poi la concessione intervenuta soltanto in data 12 gennaio 2006).

Su queste ultime due censure, la sentenza n. 6254/2017 del 10 marzo 2017 così motivò: “(…) Le doglianze riguardanti i presunti vizi degli immobili promessi in vendita, che possono essere esaminate congiuntamente per l’evidente connessione, sono inammissibili per difetto di autosufficienza. Posto infatti che la Corte d’appello, richiamando gli esiti della CTU disposta al fine di verificare la commerciabilità degli immobili, ha accertato che era intervenuta sanatoria mediante condono edilizio, il ricorrente avrebbe dovuto riportare il contenuto della CTU, che invoca in senso contrario, onde consentire a questa Corte di valutare la correttezza e congruità dell’accertamento oggetto di doglianza (ex plurimis, Cass., sez. L, sent. n. 3224 del 2014).

Rimane assorbita nel rigetto la domanda di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c.”.

RAGIONI DELLA DECISIONE:

1. D.F., nel suo primo motivo di ricorso per revocazione, deduce che egli avesse riportato a pagina 11 e 12 del ricorso per cassazione del 27 giugno 2012 il “fedele ed integrale contenuto della CTU”, e che avesse allegato allo stesso ricorso il documento dell’Agenzia del Demanio del 15 settembre 2011.

Anche il secondo motivo del ricorso per revocazione deduce che nel ricorso del 27 giugno 2012 fosse riportato “il fedele e integrale contenuto della C.T.U. del 29 novembre 2009 circa l’abusivismo edilizio delle sovrastane”.

Il terzo motivo di revocazione sostiene che “non sussiste il difetto di autosufficienza del convenuto D.F., dal momento che esso è stato smentito e ritenuto dal sottoscritto difensore un vero e proprio “errore umano”, risultando nel ricorso del 27 giugno 2012 l’integrale accertamento del CTU che ha attestato la sanatoria edilizia delle mansarde, nonché allegata la relativa documentazione.

1.1. Pur essendo i tre motivi di revocazione non strutturati mediante predisposizione di una propria distinta rubrica, che ne indichi le ragioni di censura necessariamente sussunte nell’art. 395 c.p.c., n. 4, può dirsi che la domanda di revocazione della sentenza della Corte di Cassazione n. 6254/2017 contenga comunque, come prescritto a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni della revocazione e la esposizione dei fatti di causa rilevanti (cfr. Cass. Sez. U, 20/11/2003, n. 17631; Cass. Sez. U, 06/07/2015, n. 13863).

1.2 Il ricorrente ha presentato anche un’istanza di rimessione della causa alle sezioni unite della Corte di cassazione.

Il ricorso non rivela, in realtà, alcuna questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, né questione di massima di particolare importanza, sicché non sussistono le ragioni, stabilite dall’art. 374 c.p.c., per la rimessione della causa alle sezioni unite, come invece ritenuto dalla ricorrente con la sua istanza ex art. 376 c.p.c., comma 2.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, del resto, già ben chiarito come debba essere attuata la verifica dell’osservanza di quanto prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, circa la specifica indicazione (ed allegazione) degli atti e dei documenti sui quali si fonda ciascuno dei singoli motivi di impugnazione, requisito di contenuto-forma volto a realizzare una precisa delimitazione del thema decidendum del giudizio di legittimità (si vedano Cass. Sez. U, 05/07/2013, n. 16887; Cass. Sez. U, 25/03/2010, n. 7161; Cass. Sez. U, 02/12/2008, n. 28547). Non vi è qui ragione di non condividere i principi di diritto enunciati in tali occasioni dalle Sezioni Unite, tanto più che in questa sede occorre in via prioritaria non decidere se il ricorso per cassazione proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 13 maggio 2011 recasse un sufficiente adempimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, quanto, piuttosto, verificare la configurabilità di un errore revocatorio nel giudizio espresso su questo profilo dalla sentenza della Corte di cassazione n. 6254/2017.

1.3. Per consolidata interpretazione in materia di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, deve consistere in una disamina superficiale di dati di fatto che abbia quale conseguenza l’affermazione o la negazione di elementi decisivi per risolvere la questione, ovvero in un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. E invece inammissibile il ricorso ex art. 395 c.p.c., n. 4, ove vengano dedotti errori di giudizio concernenti i motivi di ricorso esaminati dalla sentenza della quale è chiesta la revocazione, ovvero l’errata valutazione di fatti esattamente rappresentati o, ancora, l’omesso esame di atti difensivi, asseritamente contenenti argomentazioni giuridiche non valutate (Cass. 22/09/2014, n. 19926; Cass. 09/12/2013, n. 27451; Cass. Sez. Un. 28/05/2013, n. 13181; Cass. 12/12/2012, n. 22868; Cass. 18/01/2012, n. 714; Cass. Sez. Un. 30/10/2008, n. 26022).

In particolare, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui una sentenza della Corte di cassazione non possa essere impugnata per revocazione in base all’assunto che essa abbia male valutato i motivi di ricorso, perché un vizio di questo tipo costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. Sez. 6 – L, 03/04/2017, n. 8615; Cass. Sez. 6 – 3, 15/06/2012, n. 9835).

Si è altresì già affermato che la configurabilità dell’errore revocatorio sia del tutto da escludersi quando si prospetti che la decisione della Corte di cassazione sia conseguenza di una pretesa errata valutazione od interpretazione delle risultanze processuali, ovvero, in particolare di un errato giudizio espresso dalla sentenza di legittimità sulla violazione del cosiddetto “principio di autosufficienza” in ordine ai motivi di ricorso, per omessa indicazione e trascrizione dei documenti su cui erano fondate le censure (Cass., Sez. 6 – 5, 31/08/2017, n. 20635; Cass. Sez. 2, 22/06/2007, n. 14608; Cass. Sez. 1, 23/05/2006, n. 12154).

II. La sentenza n. 6254/2017 della Corte di cassazione, qui impugnata, ravvisò tuttavia il “difetto di autosufficienza” delle “doglianze riguardanti i presunti vizi degli immobili promessi in vendita”, affermando che, poiché “la Corte d’appello, richiamando gli esiti della CTU disposta al fine di verificare la commerciabilità degli immobili” aveva “accertato che era intervenuta sanatoria mediante condono edilizio” (…), “il ricorrente avrebbe dovuto riportare il contenuto della CTU, che invoca in senso contrario”.

In realtà, nel ricorso per cassazione del 27 giugno 2012 D.F. aveva richiamato il contenuto della CTU con riguardo all’abuso della particella catastale 199 sub 29, alla domanda di concessione edilizia in sanatoria ed alla concessione rilasciata il 12 gennaio 2006 per le due mansarde oggetto di causa.

L’affermazione dell’impugnata sentenza di questa Corte, secondo cui non era riportato in ricorso “il contenuto della CTU”, che il D. invocava in senso contrario alla assunta commerciabilità degli immobili, conseguente alla intervenuta sanatoria, e’, dunque, frutto di errore di fatto, che rende la sentenza n. 6254/2017 della Corte di cassazione suscettibile di revocazione ex art. 391 bis c.p.c. L’errore di fatto della sentenza impugnata attiene alla supposizione di inesistenza di un fatto (vale a dire, non aver riportato il ricorrente, a sostegno delle doglianze riguardanti i vizi degli immobili, il contenuto della CTU rilevante per la loro decisione) falsamente percepito, come emerge direttamente dall’atto del 27 giugno 2012; tale errore ha altresì avuto carattere decisivo, in quanto ha costituito la ragione essenziale e determinante della pronuncia di inammissibilità del quarto e del quinto motivo di ricorso.

III. Rivelatosi l’errore di fatto ed individuate le parti della sentenza della Corte di Cassazione n. 6254/2017 da rescindersi nella decisione sul quarto e sul quinto motivo del ricorso per cassazione proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 13 maggio 2011, in quanto viziate dall’errore stesso, deve ora procedersi entro tali limiti al giudizio rescissorio.

IV. Il quarto ed il quinto motivo del ricorso per cassazione proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 13 maggio 2011, da esaminarsi congiuntamente per loro connessione, sono infondati.

La Corte d’Appello di Catanzaro ha escluso la sussistenza di un inadempimento della promittente venditrice Complex s.r.l. con riguardo agli obblighi derivanti dal contratto preliminare stipulato in data 4 giugno 1991, quanto in particolare all’incommerciabilità degli immobili oggetto del rapporto inter partes, essendo state sanate le anomalie legate allo sconfinamento del fabbricato Condominio Pantano su area demaniale.

La sentenza di secondo grado scriveva, invero, che “in base alle approfondite indagini svolte dal consulente tecnico è emerso che il suolo su cui ricade una esigua porzione di circa mq. 12,75 del fabbricato condominiale è stata sanata mediante il condono edilizio e gli assensi ottenuti dalla pubblica amministrazione analiticamente indicati nella consulenza tecnica svolta in appello (v. pag. 23 della relazione e relativi allegati)”.

Lo stesso ricorrente richiama i riferimenti agli stralci della CTU relativi al passaggio in proprietà dell’area ai sensi della L. n. 212 del 2003, art. 5 bis. Ora, il menzionato D.L. 24 giugno 2003, n. 143, art. 5 bis, conv. in L. 8 gennaio 2003, n. 212, prevede, al comma 1, l’alienazione di porzioni di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato “interessate dallo sconfinamento di opere eseguite… su fondi attigui di proprietà altrui… e comunque sia quelle divenute aree di pertinenza, sia quelle interne a strumenti urbanistici vigenti”; nel comma 2 si specifica, poi, che “l’estensione dell’area di cui si chiede l’alienazione oltre a quella oggetto di sconfinamento per l’esecuzione dei manufatti assentiti potrà comprendere, alle medesime condizioni, una superficie di pertinenza entro e non oltre tre metri dai confini dell’opera”. E’ perciò evidente che l’area appartenente al patrimonio o al demanio dello Stato, che sia divenuta pertinenza dell’opera realizzata con sconfinamento, può legittimamente essere acquistata ai sensi del D.L. n. 143 del 2003, art. 5 bis, il che ne esclude l’astratta incommerciabilità (cfr. Cass. Sez. U, 06/05/2014, n. 9662).

E’ altrettanto emerso dalla CTU, con riguardo specificamente al quinto motivo di ricorso, il rilascio di “decreto di permesso a costruire in sanatoria” da parte del Comune di Davoli in data 12 gennaio 2006.

Dunque, nonostante lo sconfinamento su area demaniale e l’iniziale abusività urbanistiche delle sovrastane, la Corte d’Appello di Catanzaro ha negato la risoluzione del contratto preliminare del 4 giugno 1991 per inadempimento della promittente venditrice, avendo valutato in concreto, sulla base di apprezzamento delle risultanze istruttorie spettante al giudice del merito – e sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – l’importanza e la gravità di tali vizi in relazione al godimento e alla commerciabilità dei beni, ed avendo, in particolare, accertato in corso di causa che lo sconfinamento su area demaniale e le difformità edilizie rispetto al progetto originario erano stati sanate, a seguito del pagamento di quanto dovuto (con acquisto della proprietà dell’area in capo alla promittente venditrice) e della presentazione della domanda di concessione in sanatoria (arg. da Cass. Sez. 2, 05/12/2017, n. 29090; Cass. Sez. 2, 17/07/2012, n. 12261; Cass. Sez. 2, 31/05/2010, n. 13231; Cass. Sez. 2, 15/06/2009, n. 13874).

La Corte di Catanzaro ha poi aggiunto che “tra la violazione degli obblighi di correttezza da parte della Complex S.r.l. (sostanziatasi nella indebita richiesta di canoni) ed il mancato pagamento di circa metà del prezzo da parte del D., l’inadempimento più grave sia quello imputabile al promissario acquirente, considerato che il pagamento del residuo corrispettivo era esigibile, in base alla concorde volontà negoziale delle parti, prima del trasferimento immobiliare”. In tal modo, i giudici di appello, a fronte delle contrapposte domande di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare e di risoluzione per inadempimento, operarono la dovuta valutazione comparativa ed unitaria degli inadempimenti che le parti si erano addebitate, con accertamento insindacabile in cassazione, giacché sorretto da motivazione risulta immune da vizi logici o giuridici (così Cass. Sez. 2, 29/07/2004, n. 14378; Cass. Sez. 2, 07/06/2011, n. 12296).

Non può per ulteriore conseguenza accogliersi la domanda di risarcimento per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. formulata da D.F., in difetto di soccombenza della Complex s.r.l..

IV. In definitiva, va accolto il ricorso per revocazione di D.F. avverso la sentenza della Corte di cassazione n. 6254/2017, depositata il 10 marzo 2017; va revocata la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa dichiarava inammissibili il quarto ed il quinto motivo del ricorso proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro n. 548/2011 del 13 maggio 2011; vanno, infine, giudicando in rescissorio, rigettati il quarto ed il quinto motivo del ricorso proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro di n. 548/2011 del 13 maggio 2011.

La controricorrente ha proposto domanda di risarcimento per responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., comma 3. E’ tuttavia applicabile nel presente giudizio, ratione temporis, l’art. 385 c.p.c., comma 4, per la condanna del soccombente al pagamento in favore della controparte di un’ulteriore somma. Alla stregua delle esposte ragioni della decisione, deve negarsi che sussista, riguardo a tale norma, il presupposto della colpa grave della parte soccombente, non potendo dirsi che il ricorrente abbia agito per la revocazione della sentenza di cassazione senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione.

A seguito dell’accoglimento dell’impugnazione per revocazione di una sentenza, il giudice della revocazione, definendo l’intero giudizio, ha poi il potere-dovere di regolare le spese non solo della fase rescindente, ma anche di quella rescissoria (cfr. Cass. Sez. 2, 12/03/1969, n. 786). La rescissione, anche parziale, della sentenza determina, inoltre, la caducazione del capo che ha statuito sulle spese di lite; ne discende che occorre in questa sede procedere nuovamente altresì al regolamento delle spese del giudizio di cassazione. A tal fine, deve considerarsi comunque come D.F. rimanga in sostanza soccombente alla stregua dell’esito della fase rescissoria.

Consegue la regolazione secondo soccombenza delle spese processuali del giudizio di cassazione e del giudizio di revocazione, liquidate in dispositivo.

Stante, peraltro, l’accoglimento del ricorso per revocazione ai fini della pronuncia rescindente, non può perciò dirsi tale impugnazione “respinta integralmente”, e ciò agli effetti della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13.

P.Q.M.:

la Corte accoglie il ricorso per revocazione avverso la sentenza della Corte di cassazione n. 6254/2017, depositata il 10 marzo 2017; revoca la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibili il quarto ed il quinto motivo del ricorso proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro n. 548/2011 del 13 maggio 2011; giudicando in rescissorio, rigetta il quarto ed il quinto motivo del ricorso proposto da D.F. contro la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro di n. 548/2011 del 13 maggio 2011; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione e nel giudizio di revocazione, che liquida in complessivi Euro 4.400,00, di cui Euro 400,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 settembre 2018″.

Deve innanzi tutto ritenersi che la richiesta di revocazione sia esaminabile solo in quanto diretta avverso la sentenza di questa Corte n. 975/2019, che ha già revocato in parte la precedente sentenza n. 6254/2017, non potendosi già in astratto ritenere ammissibile la richiesta indirizzata alla Corte di revocare anche la sentenza della Corte d’Appello n. 548/2011, dovendo essere siffatta richiesta indirizzata alla stessa Corte distrettuale, ed ancor meno la proposta a suo tempo predisposta dal Consigliere delegato presso la Sesta Sezione civile, trattandosi di provvedimento privo del carattere della decisorietà, in quanto avente un contenuto evidentemente interlocutorio.

Il motivo di ricorso per revocazione denuncia che la sentenza impugnata sarebbe effetto di dolo dell’altra parte ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 1; aggiunge che ricorre l’ipotesi di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto dopo la sentenza sarebbe stato rinvenuto un documento (visura storica degli immobili oggetto di causa), rilasciato dall’Agenzia delle Entrate di Catanzaro in data 27/8/2020 che attesterebbe il reale regime proprietario dei beni oggetto di causa, e dal che si ricaverebbe anche il dolo della controparte e del giudice, in quanto interessato alla causa. Inoltre, si denuncia anche la ricorrenza della causa di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto la sentenza sarebbe effetto di errore di fatto risultante dagli atti di parte e da documenti della causa.

Concorrono plurimi profili di inammissibilità dell’impugnazione.

In primo luogo, il ricorso è inammissibile ex art. 403 c.p.c., che vieta che possa essere impugnata per revocazione la sentenza, come quella in esame, pronunciata nel giudizio di revocazione.

Infatti, questa Corte ha ripetutamente affermato che avverso le sentenze o le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione nel giudizio di revocazione, considerato che l’art. 403 c.p.c., consente l’impugnazione della decisione sulla revocazione nei limiti in cui la stessa sia proponibile avverso la sentenza impugnata, va escluso che sia proponibile il ricorso straordinario di cui all’art. 111 Cost., essendo lo stesso esperibile solo nei confronti dei provvedimenti decisori di merito per i quali non sia apprestato altro mezzo di impugnazione (Cass. n. 16449/2021; Cass. n. 21019/2016; Cass. n. 27865/2011; Cass. S.U. n. 5055/2006).

In aggiunta a tale profilo di inammissibilità che investe il mezzo di impugnazione in tutte le sue plurime articolazioni, si aggiunge la considerazione per cui la sentenza emessa all’esito del giudizio di revocazione, pur accogliendo le censure del ricorrente, quanto all’errore di fatto nel quale sarebbe incorsa la precedente sentenza n. 6254/2017, in punto di specificità del quarto e del quinto motivo di ricorso, in rescissorio non ha adottato una decisione nel merito, ma si è limitata a rigettare, previo riesame, i motivi dei quali era stata inizialmente sostenuta l’inammissibilità per difetto di cd. autosufficienza.

Va quindi richiamato il principio, diretta espressione della legge, per cui avverso la sentenza di rigetto pronunciata dalla Corte di cassazione non è ammissibile l’impugnazione per revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 3, questo mezzo essendo proponibile solo avverso la sentenza della Corte che abbia deciso la causa nel merito (Cass. n. 21912/2015), nonché per le altre ipotesi di revocazione diverse da quelle di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, e ciò in quanto la scelta del legislatore, espressa dalla norma di cui all’art. 391-ter c.p.c., di non assoggettare a revocazione anche le sentenze di mera legittimità della Corte di cassazione, oltre a quelle che decidono anche il merito, emesse ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non comporta vizi d’incostituzionalità della norma di cui al citato art. 391-ter c.p.c., sia perché l’estensione delle ipotesi di revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione può essere operata solo dal legislatore, nell’ambito delle valutazioni discrezionali di sua competenza, alle quali non rimane estranea l’esigenza, costituzionalizzata nell’art. 111 Cost., di evitare che i giudizi si protraggano all’infinito, sia perché un’eventuale difforme interpretazione della norma richiederebbe al giudice delle leggi un’inammissibile addizione, ponendo in essere un significativo mutamento dell’intero sistema processuale vigente. (Cass. n. 862/2011).

Peraltro, anche a voler limitare la decisione solo al vizio di cui all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso è inammissibile in quanto tardivamente proposto.

Infatti, il termine per la proposizione del ricorso per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione – ridotto da un anno a sei mesi, in sede di conversione del D.L. n. 168 del 2016, dalla L. n. 197 del 2016 – si applica ai soli provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della stessa (30 ottobre 2016), in difetto di specifica disposizione transitoria e in applicazione del principio generale di cui all’art. 11 preleggi (così Cass. S.U. n. 8091/2020), così che, avuto riguardo alla data di pubblicazione della sentenza n. 975/2019 (16/01/2019), si palesa evidentemente tardivo il ricorso in esame, notificato in data 20/30-09-2020.

Il ricorso deve quindi, per le suddette ragioni, essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Va altresì rilevato che la formulazione del ricorso, per i toni e le espressioni utilizzate, appare evidentemente in contrasto con il dovere di lealtà e probità cui il difensore è tenuto ad attenersi nell’esercizio del proprio ministero, e che pertanto si ravvisa la necessità, ex art. 88 c.p.c., comma 2, di riferire, con separato provvedimento, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza dell’avv. Francesco Sassi.

Poiché il ricorso è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al rimborso in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Dispone, ai sensi dell’art. 88 c.p.c., comma 2, procedersi alla segnalazione della condotta dell’avv. Francesco Sassi, difensore del ricorrente al competente Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, come da separato provvedimento;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma degli stessi artt. 1-bis e 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio, il 17 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022

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