Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6898 del 22/03/2010

Cassazione civile sez. I, 22/03/2010, (ud. 12/01/2010, dep. 22/03/2010), n.6898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.E. (c.f. (OMISSIS)), M.M.

Z. (c.f. (OMISSIS)), nella qualità di eredi di

M.N., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA COLA DI

RIENZO 92, presso l’avvocato NARDONE LORENZO, rappresentati e difesi

dall’avvocato LA SPINA GIUSEPPE, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

ZE.FLOR. S.A.S., MONINI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona dei

rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente

domiciliate in ROMA, VIA SILVIO PELLICO 16, presso l’avvocato POGGIO

BRUNO (STUDIO DEAN), rappresentate e difese dall’avvocato GIUSTOZZI

MARIELLA, giusta procura in calce al ricorso notificato;

– controricorrenti –

contro

M.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 198/2005 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 15/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

12/01/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato G. LA SPINA che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per le controricorrenti, l’Avvocato M. GIUSTOZZI che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. M.N., socio della Monini s.p.a., con atto notificato nel (OMISSIS) citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Spoleto il sig. M.G. e la Ze Flor s.a.s.

di M.Z.F., anch’essi soci della Monini s.p.a., nonchè questa medesima società.

L’attore riferì di un patto parasociale, risalente al 15 giugno 1988, col quale i soci si erano reciprocamente vincolati a votare in assemblea in modo tale da far sì che fossero nominati amministratori le persone da essi designate, tra i quali lo stesso sig. M. N., e lamentò che il patto fosse stato violato, in occasione dell’assemblea tenutasi il 30 aprile 1997, all’esito della quale egli non era stato confermato nella carica di consigliere del consiglio di amministrazione in precedenza ricoperta. Chiese perciò la condanna del sig. M.G. e della società Ze Flor al risarcimento dei danni.

Il tribunale, accogliendo l’eccezione con cui i convenuti avevano dedotto la nullità del patto parasociale perchè di durata indeterminata, rigettò la domanda.

Il gravame proposto dal sig. M.N. fu del pari rigettato dalla Corte d’appello di Perugia, con sentenza depositata il 15 giugno 2005.

Detta corte ritenne che un patto parasociale, pur non essendo nullo sol perchè difetta la previsione di un termine di scadenza, appaia nondimeno immeritevole di tutela quando siffatta indeterminatezza temporale non sia bilanciata dall’espressa facoltà di recesso per tutte le parti, non ravvisatale nel caso di specie. Aggiunse poi che, quand’anche, viceversa, si fosse voluto ipotizzare che dal patto in esame fosse consentito alle parti recedere, il comportamento in concreto tenuto dal sig. M.G. e dalla Ze Flor alla vigilia della contestata votazione assembleare, ed in particolare la presentazione di una lista di candidati alla carica di amministratore non comprendente il nome del sig. M.N., sarebbe equivalsa ad una manifestazione tacita della volontà di recesso, come tale efficace non richiedendosi al riguardo alcuno speciale requisito di forma. Donde l’insussistenza del contestato inadempimento contrattuale.

Rilevò infine la corte d’appello che, in ogni caso, nessuna pretesa avrebbe potuto essere avanzata nei confronti della Monini s.p.a., trattandosi della società cui il patto parasociale si riferisce ma che di quel patto non è essa stessa parte.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso i sigg.ri E. e M.M.Z., quali eredi del sig. M.N., frattanto deceduto.

La Ze Flor s.a.s e la Monini s.p.a. hanno resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria.

Nessuna difesa ha svolto in questa sede l’altro intimato, sig. M.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con un unico, ma articolato, motivo di doglianza i ricorrenti denunciano la violazione sia dell’art. 112 c.p.c., sia di una pluralità di articoli del codice civile (artt. 1321, 1322, 1343, 1355, 1373, 1418, 1218, 1263 e segg. c.p.c., e artt. 2285 c.p.c.), nonchè vizi di motivazione dell’impugnata sentenza.

In particolare, essi sostengono che la corte d’appello sarebbe incorsa in contraddizione, da un lato riconoscendo la validità dei patti parasociali pur se a tempo indeterminato, dall’altro negando meritevolezza al patto parasociale di cui si discute proprio in quanto privo di scadenza temporale.

Aggiungono che, comunque, la statuizione della corte territoriale sarebbe errata laddove ha negato meritevolezza ad una convenzione atipica la cui funzione di stabilizzare la conduzione dell’impresa sociale appare invece ben chiara e meritevole, e non cessa di esser tale sol perchè prevista a tempo indeterminato. Circostanza, quest’ultima, che neppure risponderebbe d’altronde a verità, in quanto il patto contempla anche una condizione potestativa risolutiva, dipendente dall’eventuale cessione a terzi del pacchetto azionario facente capo al sig. M.N., sicuramente valida ed equivalente al riconoscimento di una potestà di recesso e alla prefissazione di un termine di efficacia del vincolo pattizio.

Lamentano poi ancora i ricorrenti che, ipotizzando l’intervenuta manifestazione tacita di volontà di recesso da parte del sig. M.G. e della Ze Flor, per farne discendere l’inesistenza del loro dedotto inadempimento contrattuale, la corte territoriale – oltre a contraddirsi nuovamente rispetto alla precedente affermazione di nullità del patto – sarebbe andata al di là dei limiti di quanto devolutole, poichè nessuna eccezione in tal senso era stata mai sollevata dai convenuti, i quali si erano difesi unicamente contestando la validità del surriferito patto parasociale. Parlare di recesso tacito nel caso in esame sarebbe comunque, a giudizio dei ricorrenti, del tutto fuor di luogo:

perchè, trattandosi di un patto parasociale redatto per iscritto, anche il recesso avrebbe potuto essere esercitato solo in forma scritta ed, in applicazione del principio ricavabile dall’art. 2285 c.c., soltanto dopo un preavviso di almeno tre mesi.

2. Va subito osservato che il ricorso proposto dagli eredi del sig. M.N., se certamente è ammissibile nei riguardi degli altri soci della Monini s.p.a., i quali al pari del dante causa dei ricorrenti avevano stipulato il patto parasociale di cui si discute, non lo è invece anche nei riguardi della medesima Monini s.p.a..

Correttamente già la corte d’appello ha rilevato come, giacchè i patti parasociali operano su un terreno esterno a quello proprio dell’organizzazione sociale (in tal senso, ex multis, Cass. n. 14865 del 2001, n. 14629 del 2001 e n. 5963 del 2008), la società è ad essi estranea e perciò difetta di legittimazione passiva in rapporto a domande che uno dei partecipanti al patto formuli nei confronti di altro partecipante al fine di ottenere l’adempimento delle obbligazioni scaturenti dal patto medesimo o il ristoro dei danni derivanti dal suo inadempimento.

Nessuna delle censure formulate nel ricorso appare riferibile a siffatta statuizione, che ha pertanto assunto la forza di giudicato ed in presenza della quale non si comprende perchè la società Monini sia stata evocata nel giudizio di legittimità.

3. Il ricorso proposto nei confronti degli altri intimati, nei limiti di cui appresso, appare fondato.

3.1. Giova premettere che, alla fattispecie in esame, non risulta possibile applicare le disposizioni dettate, in tema di patti parasociali, dai vigenti artt. 2341 bis e segg. c.c., introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003 in epoca successiva alla stipulazione del patto di cui si discute e certamente prive di valenza retroattiva.

Anche prima di tali novità normative, tuttavia, la giurisprudenza, che pure era partita da un iniziale atteggiamento di sostanziale chiusura nei confronti della validità dei patti parasociali (ed in particolare di quelle convenzioni tra soci che hanno ad oggetto l’espressione del voto in assemblea e che sogliono esser chiamate sindacati di voto), aveva man mano preso atto delle opposte indicazioni ricavabili da una molteplicità di disposizioni di legge.

Sin dalla sentenza di questa corte n. 9975 del 1995 è stata perciò riconosciuta piena cittadinanza nel nostro ordinamento, in via di principio, a siffatte convenzioni atipiche (in seguito disciplinate in modo più ampio, anche se solo limitatamente ad alcuni aspetti, dal D.Lgs n. 58 del 1998, per quel che concerne le società quotate, e dai già citati artt. 2341 bis e segg. c.c., per le società azionarie in genere); e tale orientamento – che si fonda sulla già accennata distinzione tra il piano parasociale, riguardante unicamente i rapporti personali tra i soci e sul quale i patti parasociali sono destinati ad operare, ed il piano sociale, concernente invece l’organizzazione della società e non direttamente investito da quei patti – è stato più volte in seguito ribadito (si vedano, tra le altre, le già citate sentenze di questa corte n. 14865 del 2001 e n. 5963 del 2008).

Sul punto non occorre perciò ancora soffermarsi; nè rileva, ai fini della presente causa, l’ulteriore precisazione secondo cui la riconosciuta legittimità, in via di principio, dei patti parasociali non esclude che essi possano risultare viceversa illegittimi qualora, in una specifica fattispecie, il vincolo assunto dai contraenti si ponga in contrasto con norme imperative o appaia comunque tale da configurare uno strumento di elusione di quelle norme o dei principi generali dell’ordinamento che ad esse sono sottesi (Cass. n. 15963 del 2007).

Interessa invece sottolineare come, pur restando nel solco tracciato da Cass. n. 9975 del 1995, la giurisprudenza successiva abbia apportato all’orientamento formulato in detta sentenza una significativa correzione: che concerne in particolare la questione del se, ed entro quali limiti, possa riconoscersi validità ed efficacia ad un sindacato di voto privo di ogni termine di durata.

Questione che, contrariamente a quanto mostrano di ritenere i ricorrenti, non può essere qui elusa facendo leva sulla previsione convenzionale in forza della quale il patto del quale si discute si sarebbe risolto nel caso in cui il sig. M.N. avesse ceduto le proprie azioni a terzi. Le obbligazioni nascenti da un patto parasociale di voto, infatti, naturalmente presuppongono la qualità di socio in chi le assuma, ed il loro carattere meramente obbligatorio già di per sè esclude che esse possano automaticamente trasmettersi ad un terzo il quale abbia acquistato le azioni dal socio partecipe del patto (a meno che l’acquirente non sia disposto aderirvi e le altre parti lo consentano). La necessità di fissare un termine di durata del patto nulla ha quindi a che fare con l’eventualità che l’operatività del patto medesimo possa altrimenti venir meno in conseguenza del fatto che i contraenti abbiano cessato di essere soci. E ciò anche a tacere della circostanza che, nella fattispecie in esame, un’analoga previsione limitativa della portata del patto pacificamente non risulta fosse stata prevista pure per gli altri soci, i quali son proprio quelli che hanno poi invece inteso sottrarsi al patto pur essendosi espressamente vincolati “per loro e loro aventi causa” (espressione evidentemente da intendersi o come assunzione di un impegno collaterale a non cedere le azioni se non a chi sia disposto a propria volta ad aderire al patto parasociale, o più genericamente come obbligazione del fatto di un terzo).

Ora, che patti parasociali come quello in esame, la cui natura atipica impone di vagliarne la meritevolezza, a norma dell’art. 1322 c.c., comma 2, possano non superare tale vaglio quando i vincoli obbligatori in essi previsti non abbiano alcun limite di tempo predeterminato, atteso il generale disfavore dell’ordinamento per il protrarsi indefinito di vincoli siffatti, è principio anch’esso già ripetutamente affermato nelle sentenze di questa corte cui sopra s’è fatto cenno: in particolare nella sentenza n. 9975 del 1995 ed in quella n. 14865 del 2001. Mentre però la prima di tali pronunce ne ha tratto la conseguenza dell’invalidità del patto nel suo insieme, la seconda è pervenuta ad una conclusione meno drastica ed ha reputato che il patto resti valido ma che, in coerenza con il principio generale di buona fede stabilito dall’art. 1375 c.c., esso debba essere integrato dall’implicita quanto ineludibile previsione del diritto di recesso unilaterale di ciascun partecipante, con obbligo di preavviso o per giusta causa.

Non v’è ragione per discostarsi ora da quest’ultimo e più recente indirizzo, che appare coerente con la più generale affermazione secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, in sintonia con il già richiamato principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (si vedano Cass. n. 18508 del 2005, n. 6427 del 1998, n. 8360 del 1996 e n. 4507 del 1993).

Da ciò deriva, con riguardo alla specifica vicenda qui in esame, che non è condivisibile l’affermazione della corte d’appello nella parte in cui, pur dichiarando di aderire all’orientamento giurisprudenziale da ultimo riferito, ha negato validità al patto parasociale sul quale verte la lite per non essere in esso contemplata la facoltà di recesso ad nutum dei partecipanti. Siffatta mancata previsione, come dianzi chiarito, non è di per sè sola idonea a togliere validità al patto, dovendosi ritenere che il recesso, con obbligo di preavviso o per giusta causa, quantunque non contemplato in modo espresso nel testo del contratto privo di determinazione di tempo, sia ugualmente consentito a ciascuna delle parti.

Nè un’ipotetica volontà dei contraenti nel senso di escludere tale facoltà di recesso può desumersi – come nell’impugnata sentenza si adombra – dalla già richiamata previsione di risoluzione del sindacato di voto in caso di cessione a terzi delle azioni appartenenti ad alcuni tra i partecipanti: previsione che, per le ragioni già prima chiarite, risponde alla logica stessa di un simile accordo ed appare del tutto estranea sia al tema della mancata fissazione di un termine di durata del patto sia alla conseguente necessità di riconoscere alle parti il diritto di recesso per giusta causa o dopo preavviso.

3.2. La corte d’appello ha però fondato la propria decisione anche su una diversa argomentazione, autonoma rispetto alla precedente, assumendo che, ove si debba ritenere valido il patto parasociale e possa considerarsi consentito il recesso delle parti, questo sarebbe stato nella specie tacitamente esercitato, con la conseguenza i che nessun inadempimento potrebbe poi essere imputato al socio ormai sciolto dal vincolo pattizio.

Neppure questa ratio decidendi appare, però, persuasiva e può essere tenuta ferma a fronte delle critiche sollevate dai ricorrenti.

Non perchè la corte umbra sia andata oltre i limiti di quanto devolutole, potendosi senz’altro affermare che, pur se non formulata nei termini giuridici adoperati nella sentenza qui impugnata, la linea difensiva prospettata in causa dai convenuti già conteneva tutti gli elementi in base ai quali detta corte è pervenuta alla suindicata conclusione; ma perchè tale conclusione, nella misura in cui finisce per far coincidere la tacita manifestazione di volontà di recesso dal patto con qualsiasi comportamento incompatibile con i vincoli derivanti dalla precedente adesione al patto medesimo, si pone in antitesi con l’esigenza di rispettare il fondamentale principio di esecuzione secondo buona fede al quale si è prima fatto riferimento.

La richiamata sentenza n. 14865 del 2001, come si è già ricordato, ha ritenuto che sia insito nel rispetto di tale principio il riconoscimento del diritto di recesso unilaterale dai patti a tempo indeterminato, ma, proprio per questo, ha parlato di recesso per giusta causa o con obbligo di preavviso.

Non risulta che, nel caso in esame, sia stata invocata l’esistenza di una giusta causa.

Quanto al preavviso, in difetto di un’indicazione normativa o convenzionale al riguardo, è naturale che la sua tempestività sia da valutare in relazione alla natura del rapporto ed al tipo di interessi in gioco, tenendo appunto conto del principio di buona fede che ispira la materia. Bisognerà, cioè, che il preavviso intervenga in tempo utile affinchè le altre parti possano ragionevolmente valutare il modo in cui l’assetto degli interessi dedotti nel contratto è modificato dal recesso e come lo si possa eventualmente rimodellare.

Ciò rende del tutto evidente che, nel caso di un sindacato azionario di voto, il preannuncio della volontà di una delle parti di recedere dal patto non può consistere, come nella specie è accaduto, nè nel fatto stesso di votare in modo difforme dagli obblighi pattiziamente assunti, se non si vuoi confondere il recesso con il puro e semplice inadempimento, nè nel fatto di presentare una lista di candidati non coerente con il rispetto di tali obblighi. Comportamento, quest’ultimo, che non si pone come un preavviso di recesso, idoneo a contemperare equamente l’interesse delle altre parti, ma già s’inserisce nella procedura di voto in atto ed assume, quindi, un connotato incompatibile con l’esecuzione di buona fede del patto di sindacato. Il quale patto cesserebbe di avere qualsiasi carattere di serietà e sarebbe – allora sì – immeritevole di tutela se concepito in modo che gli aderenti possano in qualsiasi momento liberarsi a propria discrezione, con effetto immediato, dalle obbligazioni assunte.

4. L’impugnata sentenza deve, perciò, esser cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Perugia (in diversa composizione), che giudicherà attenendosi al seguente principio di diritto: “E’ valido il patto parasociale avente ad oggetto l’espressione del voto nell’assemblea di una società per azioni, chiamata a nominare gli amministratori, ancorchè non sia stata prefissata la durata del vincolo assunto dalle parti ed operi perciò il principio generale in forza del quale ad ogni partecipante spetta il diritto di recedere unilateralmente dal patto per giusta causa o con congruo preavviso; con la conseguenza che il partecipante il quale presenti all’assemblea una lista di candidati alla carica amministrativa di contenuto incompatibile con il rispetto del patto e poi esprima il proprio voto in contrasto con gli obblighi derivanti dall’adesione al patto medesimo può essere chiamato dalle altre parti a risarcire i danni conseguenti al suo inadempimento”.

Al giudice di rinvio si demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, quanto ai rapporti tra le parti per le quali il giudizio è destinato a proseguire. Tra i ricorrenti e la Monini s.p.a., invece, appare equo compensare le spese dell’intero giudizio, attesa la minima rilevanza che in esso ha avuto la partecipazione di detta società.

PQM

La corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della società Monini s.p.a. nei cui riguardi compensa le spese del giudizio; accoglie, nei termini di cui in motivazione, il ricorso proposto nei confronti degli altri intimati; cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche in ordine alle residue spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2010

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