Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6898 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. II, 11/03/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 11/03/2021), n.6898

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9053-2017 proposto da:

VILLA MONTALLEGRO SPA, B.R.F., elettivamente

domiciliati in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio

dell’avvocato ENZO MORRICO, che li rappresenta e difende unitamente

agli avvocati ALESSANDRA MANIGLIO, GIOVANNI CRISTOFFANINI giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1353/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 30/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/01/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie dei ricorrenti.

 

FattoRAGIONI IN FATTO DELLA DECISIONEB.R.F., in proprio e quale amministratore delegato della Montallegro S.p.A. proponeva opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione n. 236124/2013 emessa dall’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Genova per la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 3 e art. 53, comma 11 ai sensi del D.L. n. 78 del 1997, art. 6 in quanto la società, nel corso degli anni 2006-2008 aveva conferito degli incarichi lavorativi ad alcuni infermieri al contempo dipendenti pubblici a tempo pieno della struttura ospedaliera IRCCS Azienda Ospedaliera Universitaria San Martino – IST Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro, senza il rilascio della preventiva autorizzazione da parte del datore di lavoro ed avendo altresì omesso di informare la PA dei compensi erogati.

A fondamento dell’opposizione deduceva che non era vero che la società avesse conferito incarichi di lavoro, posto che la stessa aveva intrattenuto dei rapporti contrattuali con la Alpi Service S.r.l., della quale era titolare il sig. M..

La Villa Montallegro a far data dal 2005 si era quindi rivolta a tale società per l’assistenza dei pazienti in terapia intensiva, che aveva quindi provveduto ad organizzare tale servizio in piena autonomia.

Ciò era altresì comprovato dal regolare pagamento delle fatture emesse dalla Alpi Service, che era l’unico soggetto ad intrattenere rapporti con i singoli infermieri.

Sosteneva che la natura simulata del contratto esistente tra gli infermieri e la Alpi Service non poteva essere fatta valere dall’Agenzia delle Entrate e che la sanzione andava commisurata non alle somme corrisposte dalla clinica alla Alpi Service, ma a quelle corrisposte dalla Alpi Service agli infermieri.

Nella resistenza dell’Agenzia delle Entrate, che insisteva per il rigetto dell’opposizione, il Tribunale di Genova con la sentenza n. 138 del 2015 accoglieva l’opposizione ed annullava il provvedimento opposto.

La Corte d’Appello di Genova con la sentenza n. 1353 del 30/12/2016, in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, dichiarava tenuti gli opponenti al pagamento della minor somma, rispetto a quella ingiunta, di Euro 53.890,00 ai sensi dell’art. 53 citato, comma 9.

Rilevavano i giudici di appello che il D.Lgs. n. 165 del 2001, l’art. 53, comma 9 nel ribadire la necessità della previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza per il conferimento di incarichi retribuiti a dipendenti pubblici, rinvia quanto alla sanzione alla previsione di cui al D.L. n. 79 del 1997, art. 6, comma 1 conv. nella L. n. 140 del 1997, che testualmente prevede come sanzionabili coloro che comunque si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese dai dipendenti pubblici senza autorizzazione.

La norma intende quindi sanzionare chiunque si giovi dell’operato del dipendente pubblico in assenza della necessaria preventiva autorizzazione, non essendo quindi necessario che esista un contratto formalizzato, la cui presenza appare invero poco verosimile, in quanto lo stesso renderebbe evidente un rapporto che tendenzialmente non si vuole far emergere.

Inoltre, la necessità di un incarico formale porterebbe ad una facile elusione della norma tramite la creazione di società fittizie o altri sistemi di elusione.

Poste tali premesse, la sentenza rilevava che era emerso che fosse proprio Villa Montallegro ad avvalersi delle prestazioni rese dai quattro infermieri dipendenti della struttura sanitaria pubblica, avendoli pacificamente utilizzati nella sala terapia intensiva per assistenza ai propri pazienti.

Non era causale la circostanza che la scelta del referente della Alpi Service fosse avvenuta su sollecitazione della società appellata, essendo peraltro un soggetto sconosciuto prima di allora al legale rappresentante della Alpi Service.

Ciò confortava il convincimento che il rapporto con il detto referente era preesistente al rapporto instaurato con la Alpi, e trovava ulteriore supporto nella circostanza che tutta l’organizzazione del servizio offerto dagli infermieri era stata affidata al referente, senza alcun reale coinvolgimento della Alpi Service.

La contabilità rinvenuta era ulteriore prova di tale conclusione e non poteva ritenersi smentita dalle risultanze delle prove testimoniali del tutto generiche e rese da soggetti che rivestivano posizione apicale nella società appellata, e che ciò malgrado non erano stati in grado di fornire dettagli circa il rapporto intrattenuto con la Alpi Service.

Rilevava ancora che gli infermieri rivestivano peculiari compiti in un reparto particolarmente delicato della clinica, dovendo rispettare gli orari e gli standard qualitativi imposti dalla società opponente, di tal che ricorrevano gravi, precisi e concordanti indizi per affermare che la Villa Montallegro avesse un potere di diretta ingerenza nell’attività dei dipendenti pubblici.

L’opposizione doveva però essere accolta quanto alla condotta sanzionata costituita dall’omessa comunicazione dei compensi, atteso che nelle more era intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 98/2015 che aveva dichiarato illegittima la previsione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 15.

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione B.R.F. e Villa Montallegro S.p.A. sulla base di quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

I ricorrenti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

DirittoRAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONECon il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in combinato disposto con il D.L. n. 79 del 1997, art. 6 alla luce dell’art. 12 preleggi.

Si rileva che la Corte d’Appello ha errato nel ritenere applicabile la previsione sanzionatoria in esame pur in mancanza di un incarico diretto da parte della società agli infermieri pubblici dipendenti.

Erroneo sarebbe infatti sanzionare chi comunque si giovi delle prestazioni rese in assenza di autorizzazione, ove però manchi un formale incarico.

Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9 in combinato disposto con il D.L. n. 79 del 1997, art. 6 alla luce delle previsioni di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 1 nonchè dell’art. 3 medesima legge, in quanto l’art. 1 in esame prevede il principio di legalità per le sanzioni amministrative con la conseguenza che nella fattispecie sarebbe stata sanzionata una condotta in realtà non prevista dall’art. 53 citato che fa espresso riferimento al conferimento di un incarico in assenza di preventiva autorizzazione.

Inoltre, sarebbe stata applicata la sanzione amministrativa in assenza di accertamento del dolo o della colpa del contravventore.

Il terzo motivo denuncia la violazione delle medesime norme di cui ai primi due motivi di ricorso alla luce dei principi e dell’interpretazione dell’art. 53 offerti dalla Corte Costituzionale n. 98/2015, laddove da tale pronuncia si ricava che l’interpretazione che della norma è stata offerta dal giudice di merito è particolarmente vessatoria.

I tre motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

La sentenza impugnata, con accertamento in fatto, frutto di una puntuale ed argomentata disamina delle risultanze istruttorie, ha ritenuto che in realtà l’individuazione del personale infermieristico e la determinazione delle sue modalità di impiego fosse frutto di una diretta ed autonoma scelta da parte della società ricorrente, che aveva solo in apparenza interposto una società quale formale fornitrice del servizio reso dai pubblici dipendenti, ma senza che nella realtà la stessa avesse una effettiva e concreta incidenza sul rapporto intervenuto tra la ricorrente ed i singoli infermieri.

Si è sottolineato come lo stesso referente all’interno della Alpi Service era stato individuato dalla ricorrente, ed in una persona che già in precedenza aveva avuto rapporti con la Montallegro, con la quale aveva quindi di fatto instaurato un rapporto di fiducia e con la quale si interfacciava direttamente per l’organizzazione del servizio, con una sostanziale estraneità della Alpi Service.

A fronte di tale argomentata e logica ricostruzione, risulta quindi evidente come non possa essere censurata la conclusione cui è pervenuto il giudice di appello di individuare proprio nella società ricorrente e nel suo legale rappresentante i soggetti tenuti ad adempiere l’obbligazione derivante dall’applicazione della sanzione prevista per l’illecito di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9 in combinato disposto con il D.L. n. 79 del 1997, art. 6 e ciò sia in ragione del fatto che tale ultima previsione sanziona anche colui che comunque si avvalga delle prestazioni di lavoro autonomo o subordinate rese dal pubblico dipendente in assenza della prescritta autorizzazione (essendo appunto emerso che in realtà l’Alpi Service era un mero schermo interposto fittiziamente al fine di non rendere apparente il rapporto diretto intercorrente tra i dipendenti non autorizzati e la clinica ricorrente), sia in ragione del fatto che, una volta esclusa l’effettività del ruolo in apparenza assegnato alla società interposta, l’incarico professionale era stato direttamente conferito dalla Montallegro, non palesandosi la necessità che l’incarico stesso debba essere rivestito di particolari formalità, stante la corretta considerazione della Corte d’Appello secondo cui pretendere una formalizzazione dell’incarico renderebbe la norma suscettibile di facile elusione, laddove, come rilevato nella fattispecie, si faccia ricorso all’intervento di un terzo solo in apparenza titolare del rapporto diretto con il pubblico dipendente, ovvero si ometta di formalizzare l’incarico, consci che tale estrinsecazione comporterebbe con evidenza l’applicabilità della fattispecie sanzionatoria di cui all’art. 53 citato.

Nè miglior sorte ha la censura in esame in relazione alla denuncia di violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 avendo questa Corte anche di recente ribadito che (Cass. n. 11777/2020) il principio posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 secondo il quale, per le violazioni amministrativamente sanzionate, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa, postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa.

Nel caso in esame, non risulta che i ricorrenti abbiano soddisfatto tale onere, ma emerge, dalla stessa ricostruzione operata dai giudici di appello, come la società ricorrente abbia inteso scientemente avvalersi delle prestazioni di dipendenti pubblici, in assenza della preventiva autorizzazione, facendo peraltro ricorso al fine di non far ricondurre a sè la responsabilità per illecito contestato, all’intervento, solo formale, di una terza società, di fatto però del tutto estranea all’organizzazione del servizio di assistenza infermieristica, coordinato ed eterodiretto in prima persona dalla stessa società ricorrente.

Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione degli art. 112 e 113 c.p.c. ed in ogni caso del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29.

Si deduce che la sentenza di appello avrebbe disconosciuto la genuinità dell’appalto di servizi esistente tra la società ricorrente e la Alpi Service, accogliendo in tal modo una domanda formalmente proposta per la prima volta solo in appello.

Mancherebbe quindi in primo grado una domanda di accertamento della simulazione del contratto di appalto, domanda necessaria al fine di ottenere la declaratoria di inefficacia del contratto stesso.

Infatti, come chiarito dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 la costituzione di un rapporto in capo al committente in presenza di un appalto irregolare o illecito può essere richiesto solo dai lavoratori impiegati nell’appalto, sicchè risultava preclusa la possibilità di procedere a tale accertamento nel presente giudizio.

Anche tale motivo è infondato.

Come rileva la stessa parte ricorrente, l’intero impianto logico posto alla base dell’ordinanza impugnata si fonda sul presupposto in fatto che la Alpi Service non avrebbe in realtà svolto un ruolo effettivo nella vicenda, e che il rapporto professionale sarebbe intercorso direttamente tra la società ricorrente ed i singoli dipendenti pubblici.

A fronte della contestazione di tale assunto, operata con l’atto di opposizione, il giudice era chiamato ad accertare l’effettività del rapporto intercorso con la Alpi Service incidenter tantum, e quindi non già al fine di addivenire alla costituzione del rapporto di lavoro direttamente tra il personale impiegato e l’effettiva committente, ma al limitato fine di verificare la legittimità dell’ordinanza impugnata.

La verifica circa l’esistenza o meno di un valido rapporto di appalto rientrava quindi nel thema decidendum implicato dalla proposizione dell’opposizione, sicchè la sentenza d’appello ha autonomamente e doverosamente provveduto a tale accertamento incidentale, dovendo pertanto escludersi che sussista la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c..

Quanto invece alla assunta violazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29 va richiamato il recente arresto di questa Corte (Cass. n. 31144/2019) secondo cui in tema di appalto irregolare, sussiste la legittimazione degli enti previdenziali all’azione finalizzata a far valere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra committente e lavoratore, stante l’indisponibilità del regime previdenziale, che non può essere condizionato all’iniziativa del lavoratore che denunci l’irregolarità, l’autonomia del rapporto di lavoro e di quello previdenziale, che, per quanto tra loro connessi, rimangono del tutto diversi, e tenuto conto dell’interpretazione letterale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3 bis, che non preclude di far valere la nullità degli atti di interposizione da parte di chiunque vi abbia interesse.

In motivazione è stato condivisibilmente evidenziato che non può avere seguito la tesi (sostanzialmente riproposta nel motivo di ricorso in esame) secondo cui la disposizione in esame introdurrebbe nel nostro ordinamento “un’azione costitutiva a legittimazione limitata, nel senso che l’unico soggetto che può, in caso di appalto irregolare, chiedere la costituzione del rapporto di lavoro nei confronti del committente è solo il lavoratore”, non quindi gli enti di previdenza e assistenza, posto che tale opzione, che riproduce un’interpretazione sostenuta da parte della dottrina, non tiene conto del fatto che, stante la nullità degli atti interpositori tuttora sanzionati, la stessa possa essere fatta valere ad opera di tutti gli interessati (v. pure Cass. n. 18278 del 2019, in motivazione).

Ne consegue che, come l’ente previdenziale può sollecitare tale accertamento, a tutela degli obblighi scaturenti dal rapporto previdenziale, analogamente l’autorità titolare del potere sanzionatorio può sollecitare, in via incidentale e con efficacia limitata ai soli fini della decisione circa la legittimità dell’ordinanza ingiunzione, la verifica circa l’illiceità del contratto di appalto di manodopera.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 6.200,00, oltre spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda Civile, il 26 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

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