Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6884 del 02/03/2022

Cassazione civile sez. I, 02/03/2022, (ud. 23/02/2022, dep. 02/03/2022), n.6884

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 9579/2020 r.g. proposto da:

P.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Michele Pellitteri,

presso il cui studio elettivamente domicilia in Casteltermini (AG),

al Viale Matteotti n. 20.

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SOC. COOP. A R.L., in persona del curatore Avv.

D.N.V..

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE DI AGRIGENTO del giorno 06/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/02/2022 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese;

lette le conclusioni motivate, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n.

137, art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L.

18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M., in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista,

che ha chiesto accogliersi il ricorso o, in subordine, rimettersi il

procedimento al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle

Sezioni Unite;

letta la memoria ex art. 378 c.p.c., depositata dal ricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Avv. P.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, avverso il decreto del Tribunale di Agrigento che, in parziale accoglimento dell’opposizione, L. Fall., ex art. 98, da lui proposta, lo ha ammesso al passivo del fallimento della Soc. Coop. a r.l. (OMISSIS), in via chirografaria, per gli ulteriori importi (rispetto a quelli già ammessi, in privilegio ed in chirografo, dal giudice delegato), di Euro 44.767,00, per compensi, e di Euro 2.665,26, per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, in relazione all’attività professionale dal medesimo legale “prestata nel giudizio di primo grado e nei procedimenti cautelari tutti meglio indicati in parte motiva”. La curatela fallimentare è rimasta solo intimata.

1.1. Per quanto qui di residuo interesse, quel tribunale ha negato il riconoscimento dell’invocato privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, in relazione alla somma di Euro 44.767,00, oltre accessori di legge, così opinando: “Al riguardo, la decisione del GD – che ha riconosciuto il privilegio dando rilievo al biennio antecedente (alla. Ndr) data della dichiarazione di fallimento della società debitrice, individuando in essa il momento di cessazione del complessivo rapporto professionale con la società -, appare in linea con gli arresti della giurisprudenza che evidenziano come il biennio, ai fini del riconoscimento del privilegio generale sui compensi professionali di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, decorre dal momento in cui l’incarico è stato portato a termine o è comunque cessato, perché in quel momento il credito dell’onorario è divenuto liquido ed esigibile. In argomento va richiamata, peraltro, una pronuncia del giudice di legittimità (Cass. n. 569 del 22/1/1999) secondo cui “…il limite biennale risponde anche all’esigenza di contemperare l’interesse del creditore privilegiato con quello degli altri creditori e, in particolare, all’esigenza di evitare che il creditore privilegiato, forte del suo diritto di prelazione, possa, ritenendosi sufficientemente garantito, continuare a maturare crediti nei confronti del debitore erodendo così, con una prelazione non oggetto di pubblicità, la garanzia patrimoniale generica degli altri creditori”. Orbene, non va sottaciuto che, una volta concluso il giudizio di primo grado con sentenza del Tribunale di Palermo pubblicata il 13.10.2015, il difensore era nelle condizioni di richiedere il pagamento del suo credito professionale maturato per quel grado di giudizio e per i sub procedimenti cautelari, anziché continuare a maturare ulteriori crediti con la proposizione dell’atto di appello. In questa direzione anche una successiva pronuncia della Suprema Corte (Cass. Civ. sez. V I, 20/02/2012, n. 2446) chiarisce che ai fini dell’applicazione dell’art. 2751-bis c.c., n. 2, “non è il complessivo rapporto professionale che deve essere preso in considerazione ma distintamente ogni singola prestazione professionale al compimento della quale può essere compiutamente quantificato il compenso anche alla luce del risultato raggiunto, come avviene, ad esempio, al termine di ogni grado di giudizio””.

2. La Prima Sezione, originariamente investita della decisione della controversia, con ordinanza interlocutoria del 6 settembre 2021, n. 24018, ha ritenuto opportuno disporre la trattazione della causa in pubblica udienza della medesima Sezione, ritenendo che la questione da essa posta “…(con intuibili, notevoli riflessi pratici)… impone di tenere conto non solo della giurisprudenza di legittimità formatasi – quanto alla peculiare attività svolta dal professionista avvocato – in relazione all’interpretazione dell’art. 2751-bis c.c., n. 2, ma anche di quella afferente il tema della prescrizione del credito dell’avvocato ai sensi dell’art. 2957 c.c.,, comma 2”. Il ricorrente ha depositato una ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I. – Sulla richiesta di rimessione alle Sezioni Unite formulata, in via subordinata, dal sostituto procuratore generale.

1. Deve rilevarsi, preliminarmente, che, nelle sue conclusioni motivate, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il sostituto procuratore generale ha chiesto, subordinatamente al mancato accoglimento del ricorso, rimettersi il procedimento al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

1.1. A tale istanza il Collegio non reputa necessario aderire, ribadendo, peraltro, che, come già osservato dalla giurisprudenza di legittimità (con orientamento consolidato e qui condiviso. Cfr., ex aliis, Cass. n. 13000 del 2019; Cass. n. 14878 del 2017; Cass. n. 19599 del 2016; Cass. n. 12962 del 2016; Cass. n. 8016 del 2012; Cass. n. 359 del 2003), la richiesta volta all’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non è soggetto ad obbligo di motivazione, altresì precisandosi che la funzione nomofilattica è attribuita anche alle sezioni semplici di questa Corte (come, del resto, agevolmente emerge anche dall’art. 375 c.p.c., u.c., nel testo, qui applicabile ratione temporis).

II.- Il motivo.

1. L’unico motivo di ricorso è rubricato “Error in iudicando ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: Violazione o falsa applicazione dell’art. 2751-bis c.c., comma 1, n. 2 (come novellato della L. n. 205 del 2017, ex art. 1, comma 474) in relazione al principio di unitarietà ed inscindibilità dell’incarico professionale e del processo. Travisamento del consolidato orientamento della Cassazione sul punto di diritto”. L’Avv. P. lamenta che, nell’ammettere il credito per compensi professionali maturati nel corso dell’unico processo in esecuzione dell’unico mandato professionale svoltosi in due gradi di merito (l’ultimo dei quali ancora pendente al momento della dichiarazione di fallimento) e tre subprocedimenti cautelari in corso di causa, il tribunale agrigentino ha escluso dal privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, il credito del difensore della società, poi fallita, relativo all’attività professionale svolta in primo grado e nei tre subprocedimenti cautelari, scindendo tra singole prestazioni rese prima e dopo il biennio antecedente la dichiarazione di fallimento: così operando, però, avrebbe violato, o falsamente applicato, il principio di unitarietà dell’incarico professionale e del relativo credito nell’interpretazione costantemente datane dalla giurisprudenza di legittimità, a tenore della quale, ai fini del riconoscimento del privilegio suddetto e quanto al requisito temporale dell’ultimo biennio ivi stabilito, per la determinazione dei soli onorari occorre procedere a valutazione unitaria dell’attività prestata al momento della domanda, comprendendovi anche le prestazioni svolte oltre il biennio purché risultino tra loro collegate in quanto espressione dello stesso incarico.

III. – L’art. 2751-bis c.c., n. 2: il dies a quo per il computo a ritroso del biennio ivi previsto.

1. Gli argomenti esposti dal tribunale, quelli complessivamente desumibili dalla odierna doglianza del P. e la già riferita ragione per la quale l’ordinanza interlocutoria resa da Cass. n. 24018 del 2021 ha disposto la trattazione della causa in pubblica udienza, rendono opportuna una ricognizione delle principali questioni interpretative postesi nell’applicazione dell’art. 2751-bis c.c., n. 2.

1.1. Giova ricordare, allora, che quest’ultimo, nel testo modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 472, con effetto dal 1 gennaio 2018 (nella specie utilizzabile ratione temporis, venendo in considerazione un credito azionato dopo tale data. Cfr. Corte Cost., sentenza n. 1 del 2020), attribuisce privilegio generale sui mobili ai crediti riguardanti “le retribuzioni dei professionisti, compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto, e di ogni altro prestatore d’opera dovute per gli ultimi due anni di prestazione”. Pertanto, nel riconoscere un privilegio generale sui mobili ai crediti riguardanti le “retribuzioni dei professionisti” e di ogni altro prestatore d’opera “dovute per gli ultimi due anni di prestazione”, la norma genera due distinti interrogativi afferenti alla più puntuale demarcazione del limite temporale di operatività della prelazione. In particolare, si richiede all’interprete di chiarire: i) quale sia il dies a quo per il computo a ritroso del biennio privilegiato; ii) quali “retribuzioni” possano considerarsi “dovute” in riferimento a tale arco temporale.

2. Quanto al primo quesito, l’alternativa che originariamente si era posta era quella fra una soluzione “restrittiva”, per cui il termine in parola doveva decorrere dalla data di inizio della procedura esecutiva in cui il credito viene fatto valere – ergo, nel caso di esecuzione concorsuale, dalla dichiarazione di fallimento – ed una di maggior favore per il professionista, in base alla quale il calcolo andava effettuato dal momento di cessazione della prestazione, indipendentemente dallo iato cronologico intercorrente fra esso ed il dies excussionis.

2.1. Proprio questo secondo indirizzo è invalso, ormai, nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha valorizzato la data di cessazione della prestazione, a prescindere dallo spatium temporis che eventualmente la separa dall’inizio della procedura esecutiva, individuale o concorsuale. Si è ritenuto, invero, che il privilegio di cui si discute “…decorre non dal momento della dichiarazione di fallimento del debitore, bensì dal momento in cui l’incarico professionale è stato portato a termine o è comunque cessato, allorché il credito dell’onorario è divenuto liquido ed esigibile, e, dato il carattere unitario dell’esecuzione dell’incarico e dei relativi onorari, il privilegio copre anche il corrispettivo dell’attività svolta prima del biennio anteriore alla cessazione” (cfr. Cass. 20755 del 2015, in motivazione. Analogo principio è stato ribadito, poi, dalle più recenti Cass. n. 18685 del 2017, Cass. n. 12814 del 2019 e Cass. n. 757 del 2020). Va osservato, comunque, in linea con le opinioni della migliore dottrina, che, in più d’un caso, l’indagine de qua risulta priva, in realtà, di ogni venatura problematica, stante il carattere “puntuale” e “circoscritto” dell’incarico conferito, il quale si esaurisce sostanzialmente con il compimento di un unico atto: focalizzando l’attenzione sulle prestazioni professionali dell’avvocato – cui specificamente si riferisce la controversia oggi all’esame di questo Collegio – possono indicarsi, così, gli esempi della redazione di un parere legale o dell’assistenza alla stipulazione di contratto. Fuori di tali ipotesi, l’identificazione del momento di cessazione della prestazione si traduce in una quaestio facti, da risolvere essenzialmente sulla base dei due criteri, combinati fra loro, della volontà delle parti e della conclusione oggettiva del rapporto. In definitiva, la prestazione dell’avvocato si deve ritenere cessata, in linea di massima, con la revoca o la rinuncia al mandato; per la morte o la cessazione dell’attività professionale da parte del medesimo; con lo spirare del termine convenuto, quando si tratti di incarico conferito a tempo determinato; per effetto del compimento dell’incarico stesso (anche a seguito della conciliazione delle parti o dell’estinzione del processo); in difetto delle altre ipotesi, con la dichiarazione di fallimento del cliente.

IV. – Segue: il dies a quo per il computo a ritroso del biennio nell’ipotesi di pluralità di incarichi distinti conferiti allo stesso professionista dal medesimo cliente.

1. Questa Corte ha affrontato pure il tema dell’operatività del privilegio in esame per l’eventualità di plurimi incarichi distinti conferiti allo stesso difensore da parte del medesimo cliente. Ha opinato, in proposito, che, in tale ipotesi, il limite temporale degli “ultimi due anni di prestazione” va riferito al complessivo rapporto professionale, restando fuori dal privilegio i corrispettivi degli incarichi conclusi in data anteriore al biennio precedente la cessazione del complessivo rapporto: “in altri termini, “gli ultimi due anni di prestazione” di cui parla la norma in esame sono gli ultimi in cui si è svolto (non già l’unico o ciascuno dei plurimi rapporti corrispondenti ai plurimi incarichi ricevuti, bensì) il complessivo rapporto professionale, sicché restano fuori dalla previsione del privilegio i corrispettivi degli incarichi conclusi in data anteriore al biennio precedente la cessazione del complessivo rapporto” (cfr. Cass. 1740 del 2014. Lo stesso principio si rinviene nelle più recenti Cass. n. 18685 del 2017, Cass. n. 12814 del 2019, Cass. n. 15828 del 2019 e Cass. n. 757 del 2020).

2. Peraltro, già Cass. n. 569 del 1999 (in parte qua richiamata dalle successive Cass. n. 1740 del 2014 e Cass. n. 757 del 2020) ebbe a spiegare che il limite biennale risponde “anche all’esigenza di contemperare l’interesse del creditore privilegiato con quello degli altri creditori e, in particolare, all’esigenza di evitare che il creditore privilegiato, forte del suo diritto di prelazione, possa, ritenendosi sufficientemente garantito, continuare a maturare crediti nei confronti del debitore, erodendo così, con una prelazione non oggetto di pubblicità, la garanzia patrimoniale generica degli altri creditori”. Continuare a maturare crediti nei confronti del medesimo debitore vuol dire assumere da lui altri incarichi professionali; dunque, il profilo della pluralità degli incarichi ha un rilievo essenziale ai fini della giustificazione del limite temporale di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2. Non è conseguentemente corretto, pur dovendosi riconoscere l’autonomia dei vari incarichi e dei conseguenti rapporti giuridici, ragionare come se quella pluralità non esistesse e considerare ciascun incarico avulso dal suo contesto plurale. Così facendo, del resto, si finirebbe col privare di qualsiasi operatività il limite biennale suddetto: se, infatti, ciascun incarico viene considerato per sé stesso e se, come si è visto, anche i compensi relativi all’attività di esecuzione del medesimo svolta in epoca precedente al biennio anteriore alla sua conclusione sono assistiti dal privilegio, di fatto quel limite non opera. La verità è che, invece, quel limite opera proprio con riferimento alle ipotesi di pluralità di incarichi professionali eseguiti nell’ambito di un unitario rapporto duraturo nel tempo, nelle quali il biennio non può decorrere che dal momento della cessazione del complessivo rapporto professionale composto dai distinti rapporti originati dai plurimi incarichi (così Cass.n. 1740/2014 cit.).

V. – Tesi interpretative proposte in dottrina circa l’attività professionale, svolta da un avvocato, protrattasi per più gradi di giudizio. Le “retribuzioni” da considerarsi “dovute” in riferimento all’arco temporale come precedentemente individuato.

1. Occorre approfondire, ora (questa essendo la concreta fattispecie da cui ha tratto origine l’odierna controversia), l’ipotesi dell’attività giudiziale svolta da un avvocato che si sia protratta per più gradi di giudizio, così affrontandosi anche l’altro quesito – quali “retribuzioni” possano considerarsi “dovute” in riferimento all’arco temporale come prima individuato precedentemente riportato. Alteris verbis, si pone la seguente questione giuridica: ove un legale abbia patrocinato un cliente, successivamente dichiarato fallito, in più gradi di un unico giudizio, che hanno avuto inizio e (magari anche) fine nell’arco di molti anni, si è di fronte ad un incarico unico, terminato (eventualmente) con l’ultimo grado di giudizio (o per effetto della sopravvenuta sentenza di fallimento), oppure a distinti incarichi relativi a ciascun grado? E’ chiaro, infatti, che la risposta, in un senso o nell’altro, ad un siffatto interrogativo influisce anche sulla individuazione del concreto ambito applicativo del privilegio de quo in relazione al credito che quel legale intenda insinuare, poi, al passivo dell’intervenuto fallimento del proprio cliente.

2. Per questa ipotesi, sebbene sia stato generalmente ritenuto, in dottrina, quanto alla individuazione del dies a quo per il computo a ritroso del biennio privilegiato, che la prestazione professionale fosse da considerare conclusa, ai fini che qui interessano, con la pronuncia che chiude ciascun grado del giudizio, ancorché il “rapporto” professionale fosse proseguito nei gradi successivi, si è parimenti rimarcato, con riguardo al diverso profilo concernente le “retribuzioni” da considerarsi “dovute” in riferimento al suddetto arco temporale, che, con riguardo (solo) alla originaria voce “onorari” dell’avvocato, oggi sostituita, per effetto del D.M. n. 140 del 2012, da quella “compensi”, si è coniato il concetto della postnumerazione, cioè della determinazione successiva al compimento della prestazione, essendo la prestazione professionale inscindibile e la corrispondente attività potendo valutarsi soltanto nella sua globalità con la cessazione dell’incarico. Si è invocato, richiamandosi pure le pronunce rese da Cass. n. 569 del 1999 e da Cass. n. 10515 del 1994, il carattere “unitario ed inscindibile della prestazione professionale, le cui singole attività sono tra loro strumentalmente connesse in funzione di un risultato finale”, con la precisazione che, “quando l’attività si sia conclusa nell’ultimo biennio, essa, proprio in considerazione della sua inscindibilità, è da considerarsi unitariamente prestazione dell’ultimo biennio”. Invero, “la parcellizzazione dell’attività professionale e la sua scomposizione in distinti atti rappresentano soltanto una regola di determinazione del compenso”, ma non toccano il concetto unitario della prestazione, già riconosciuta dalla stessa (precedente) normativa in tema di tariffe. Inoltre, la ratio del limite biennale si giustifica, nel caso dell’attività legale, perché il relativo credito “non è ancora liquido ed esigibile”, onde non si può addebitare al professionista alcuna inerzia nel bilanciamento degli interessi dei vari creditori.

2.1. D’altra parte, in base ai dati normativi esistenti, è pacifico che l’attività professionale dell’avvocato viene considerata unitariamente, al momento della conclusione della prestazione, essendo tutti gli atti inscindibilmente connessi gli uni con gli altri. A questa interpretazione inducono le stesse norme professionali (L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 5), per le quali “nella liquidazione degli onorari a carico del cliente…si tiene conto… dell’esito della causa”; l’art. 2234 c.c., che prevede il pagamento di acconti sul compenso, legittimando l’idea che la determinazione definitiva possa compiersi soltanto con la conclusione dell’incarico; ancora, l’art. 2237 c.c., che impone il pagamento del compenso per l’opera svolta in caso di recesso (e quindi a conclusione dell’attività); infine, l’art. 2957 c.c., che, al comma 1, fa decorrere la prescrizione (presuntiva) dal compimento dell’ultima prestazione, mentre, al comma 2, in relazione alle competenze dovute agli avvocati ed ai patrocinatori legali, individua il dies a quo del termine prescrizionale dalla decisione della lite, dalla conciliazione delle parti o dalla revoca del mandato, oppure, per gli affari non terminati, dall’ultima prestazione. Significative, del resto, risultano, in relazione proprio a questo specifico profilo, ex aliis: i) Cass. n. 35275 del 2021, a tenore della quale, “Il termine triennale della prescrizione presuntiva per le competenze dovute agli avvocati, di cui all’art. 2956 c.c., ai sensi dell’art. 2957 c.c., comma 2, decorre “dalla decisione della lite”, che coincide con la data di pubblicazione della sentenza non impugnabile che chiude definitivamente la causa, mentre “per gli affari non terminati la prescrizione decorre dall’ultima prestazione”, da individuarsi come attività svolta dal professionista in esecuzione del contratto di patrocinio”; ii) Cass. n. 4595 del 2020, così ufficialmente massimata, ” In materia di onorari di avvocato, la conclusione della prestazione, prevista dall’art. 2957 c.c., comma 2, quale “dies a quo” del decorso del termine triennale di prescrizione, deve individuarsi nell’esaurimento dell’affare per il cui svolgimento fu conferito l’incarico, momento che coincide con la pubblicazione del provvedimento decisorio definitivo”; iii) Cass. 40626 del 2021, secondo cui, “La prescrizione breve presuntiva del diritto dell’avvocato al pagamento dell’onorario decorre non solo dal verificarsi dei fatti previsti dall’art. 2957 c.c., comma 2, ma anche dal momento in cui, per qualsiasi causa, cessi il rapporto col cliente, inclusa la morte di quest’ultimo, la quale estingue il rapporto di mandato e determina l’insorgenza del diritto del difensore al pagamento delle competenze professionali, pur non facendo venire meno, a determinate condizioni, il dovere del professionista di continuare a gestire la lite” e, con specifico riguardo alla prestazione protrattasi per due gradi di giudizio, “La prescrizione del diritto dell’avvocato al compenso decorre dal momento dell’esaurimento dell’affare per il cui svolgimento fu conferito l’incarico dal cliente, che, nel caso di prestazioni rese in due gradi di giudizio, coincide con la pubblicazione della sentenza di appello, poiché l'”ultima prestazione”, ex art. 2957 c.c., comma 2, va individuata con riferimento all’espletamento del contratto di patrocinio, regolato dalle norme del mandato di diritto sostanziale, e non al rilascio della procura “ad litem”, che è finalizzata soltanto a consentire la rappresentanza processuale della parte”.

2.2. Se, dunque, – prosegue l’opinione dottrinale in esame – la prescrizione decorre, per gli avvocati, dalla decisione della lite oppure, “per gli affari non terminati, dall’ultima prestazione”, ciò significa che il legislatore ha inteso espressamente accordare una maggiore tutela, considerando unitariamente tutta l’attività svolta e fissando l’inizio della prescrizione con il termine finale dell’intera prestazione.

2.2.1. Secondo la medesima opinione, allora, lo stesso principio andrebbe affermato con riguardo alla previsione di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, che, rinviando “alla retribuzione della prestazione”, dovrebbe essere valutata, quindi, per l’attività legale, tenendo conto dei criteri sopra indicati. Ne’ è vero – continua tale indirizzo interpretativo – che, in questo modo, coincidendo la prestazione con la sua conclusione ed applicandosi la regola che valorizza i due anni di prestazione indipendentemente dalla data del fallimento, si finirebbe per estendere il privilegio a tutta indistintamente l’attività del professionista. Infatti, occorrerebbe tener conto, preliminarmente, della volontà delle parti, sicché, ove, ad esempio, l’onorario fosse stato concordato a tempo (nell’attività stragiudiziale, invero, è previsto anche il compenso orario), il privilegio spetterebbe soltanto per gli ultimi due anni; ancora, ove l’avvocato avesse inviato alla parte assistita note periodiche per l’attività svolta, o comunque note con la richiesta di un compenso per prestazioni eseguite specificatamente indicate, in tal caso le prestazioni stesse si intenderebbero concluse ed il privilegio potrebbe comprendere solo gli importi richiesti per tali prestazioni svolte negli ultimi due anni. Ma, al contrario, qualora l’avvocato avesse domandato soltanto il pagamento di acconti o non avesse formulato alcuna richiesta, non potrebbe dirsi in alcun modo formata la volontà di considerare esaurita una “prestazione”, sicché sarebbe del tutto lecito, in tali casi, nel rispetto dei vari gradi del giudizio (richiamandosi, in proposito, Cass. n. 1986 del 1974, secondo cui “non ha alcun rilievo, ai fini della individuazione della tariffa applicabile, la sentenza non definitiva a seguito della quale il giudizio prosegue nello stesso grado”; Cass. n. 2081 del 1977, per cui gli onorari vanno determinati con riferimento “al momento della emanazione della sentenza appellata”; Cass. n. 4805 del 1977, che pure ritiene non concluso un giudizio quando vi sia stata una sentenza non definitiva. A conforto di questo assunto viene ricordato, altresì, che, ai fini della liquidazione degli onorari, secondo il procedimento speciale di cui alla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 – la pronuncia riguardava il testo della menzionata norma anteriore alla riforma apportatagli dal D.Lgs. n. 150 del 2011 – “nel caso di attività difensiva prestata in procedimenti che si siano svolti in più gradi di giudizio, è competente funzionalmente a provvedere, in relazione a ciascun grado, il giudice rispettivamente adito in quella sede” – cfr. Cass. n. 6493 del 1997 – avvenendo la liquidazione sempre sul presupposto della “decisione della causa” o della “estinzione della procura”, ivi compresa la rinuncia al mandato. Cfr. Cass. n. 11472 del 1998), considerare globalmente la prestazione resa e determinare il compenso al momento della chiusura dell’attività (così come le disposizioni normative richiamate consentono di fare), con il privilegio riconosciuto dalla legge. In effetti, conclude l’opinione in esame – il privilegio non tutela una prestazione ma un credito relativo alla prestazione, e, nella fattispecie, il momento genetico del credito è quello in cui cessa la prestazione e viene richiesto il pagamento.

VI. – La posizione della giurisprudenza circa le “retribuzioni” da considerarsi “dovute”, in riferimento all’arco temporale previsto dall’art. 2751-bis c.c., n. 2, nel caso in cui l’attività professionale, svolta da un avvocato, si sia protratta per più gradi di giudizio.

1. Al quesito riportato in rubrica ha dato specifica risposta anche la giurisprudenza di legittimità, in particolare con la pronuncia resa da Cass. n. 2446 del 2012.

1.1. La controversia ivi decisa riguardava una fattispecie in cui l’avvocato ricorrente aveva invocato il riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, sia per la fase immediatamente antecedente il contenzioso tra l’impresa fallita e la controparte, sia per l’intero contenzioso “nelle varie articolazioni giudiziali in cui si è dipanato”. La Corte, richiamando i principi stabiliti dalla propria sentenza n. 806 del 2001, ritenne che “non è il complessivo rapporto professionale tra (nel caso in questione) l’avvocato ed il patrocinato che deve essere preso in considerazione ma, distintamente, ogni singola prestazione professionale al compimento della quale può essere compiutamente quantificato il compenso anche alla luce del risultato raggiunto, come avviene, ad esempio, al termine di ogni grado di giudizio”. Precisò pure che a nulla rilevava l’esistenza di un accordo contenuto in una lettera di incarico al fine di sostenere l’unicità della prestazione richiesta, “dal momento che tale atto attiene unicamente alle modalità di pagamento del dovuto, ma non influisce minimamente, né avrebbe potuto farlo, sulla individuazione giuridica dell’attività professionale da ritenersi effettuata nell’ultimo biennio da delimitarsi, si ribadisce, in quella prestata nello specifico segmento procedurale autonomamente valutabile e pertanto generatore di un diritto al corrispettivo che tenga conto dell’opera prestata per una individuabile fase processuale e del risultato raggiunto”.

1.2. In effetti, a partire dalla già menzionata sentenza n. 10515 del 1994, la Suprema Corte aveva ritenuto che “l’onorario dell’avvocato è determinato in base alla tariffa vigente al momento della cessazione dell’incarico o, per le prestazioni giudiziali, alla conclusione di ogni grado di giudizio”: conclusione successivamente ribadita anche da altre pronunce (cfr. Cass. n. 569 del 1999; Cass. n. 806 del 2001; Cass. n. 28876 del 2005), nelle quali – come si è già riferito – si è sempre sostenuto che, ai sensi della tariffa professionale degli avvocati, il momento per la determinazione dell’onorario deve identificarsi con il momento in cui l’attività è conclusa e che tale momento coincide con quello in cui può essere determinato l’onorario in base ai risultati del giudizio. In epoca più recente, poi, Cass. n. 13849 del 2019 ha ricordato (cfr. in motivazione) che: i) sebbene “le prestazioni del professionista vanno valutate unitariamente, con riferimento al momento in cui sono richiesti o devono essere determinati gli onorari, ancorché si riferiscano ad attività svolte oltre il biennio (Cass. n. 7964/2009, n. 806/2001), tuttavia va preso in considerazione non già il complessivo rapporto professionale, bensì distintamente “ogni singola prestazione professionale al compimento della quale può essere compiutamente quantificato il compenso, anche alla luce del risultato raggiunto, come avviene, ad esempio, al termine di ogni grado di giudizio”, dovendosi appunto avere riguardo all’attività professionale “prestata nello specifico segmento procedurale autonomamente valutabile e pertanto generatore di un diritto al corrispettivo che tenga conto dell’opera prestata per una individuabile fase processuale e del risultato raggiunto” (Cass. n. 2446/2012)”; ii) con particolare riguardo alle prestazioni dell’avvocato, “per gli onorari si tiene conto del momento in cui la prestazione professionale, unitariamente considerata, è stata portata a termine, sebbene alcune attività siano state svolte in epoca anteriore al biennio, purché risultino tra loro collegate, in quanto espressione del medesimo incarico… (Cass. n. 10658/2011)”.

VII. – La decisione della lite.

1. Fermo quanto si è detto nei precedenti paragrafi, osserva il Collegio che l’accettazione del principio secondo il quale il termine per il computo a ritroso del biennio di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, corrisponde alla data di cessazione della prestazione, crea – sul piano pratico – alcuni problemi, di non agevole soluzione, in relazione alla difficoltà di individuare, su un piano concreto, tale momento soprattutto nell’ipotesi, come, appunto, nel caso di specie, in cui può sorgere il dubbio se al professionista sia stato affidato un incarico unico (ed unitario) oppure egli sia stato officiato per più incarichi tra loro distinti.

1.1. In una siffatta ipotesi, per sciogliere il dubbio descritto, autorevole dottrina ha suggerito di fare riferimento sia ad elementi intrinseci al contratto (di opera professionale), sia ad elementi esterni, i quali evidenzino l’esaurimento della prestazione, con possibilità che per le fasi successive sia dato incarico ad un altro professionista. Pertanto, si è sostenuto che è necessario indagare se l’unitarietà dell’incarico sia tale per la natura inscindibile delle prestazioni che sono state rese necessarie per realizzarlo, o sia, invece, il prodotto di una unificazione soggettiva di prestazioni autonomamente compiute e temporalmente distinte, come tali scindibili le une dalle altre e, quindi, separatamente valutabili ai fini che ci interessano: ciò perché il limite temporale di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, deve trovare applicazione finché sia possibile e sia consentito dalla natura dell’incarico espletato. All’uopo, – prosegue tale dottrina – occorre il ricorso ad elementi estranei alla prestazione, i quali consentano una suddivisione della medesima in attività che si succedano nel tempo e quindi, se possibile, l’applicazione del limite temporale di cui alla norma predetta. Questi elementi (per così dire interni) possono anzitutto rinvenirsi nel contratto, il quale, pur unitariamente valutato nell’unicità del fine propostosi, si sia però formato attraverso successivi e diversi incarichi (ad esempio successive e diverse procure all’avvocato per diversi gradi di un processo o per processi diversi); ovvero desumersi da eventi per così dire “esterni”, i quali obiettivamente evidenzino l’esaurimento della prestazione (ad esempio, per l’avvocato, una sentenza definitiva). In ipotesi di questo genere, infatti, c’e’ sempre il rischio che, esaurita la precedente prestazione, la successiva sia affidata ad altro professionista; ne consegue che, nel caso di successivo incarico allo stesso professionista, data la compiutezza e l’esaurimento della precedente prestazione, non si può parlare di “unicità di incarico”, complessivamente valutato nei suoi diversi momenti, bensì solo di unificazione soggettiva di prestazioni autonomamente compiute e temporalmente distinte, come tali scindibili le une dalle altre e, quindi, separatamente valutabili.

2. Tanto premesso, assume sostanzialmente il P. (anche mediante il richiamo delle argomentazioni tutte rinvenibili nelle pronunce di legittimità da lui specificamente invocate in ricorso) che: i) in considerazione dell’unitarietà della prestazione dell’avvocato e del fatto che il compenso deve essere correlato alla complessiva valutazione della sua attività, il momento per la determinazione dell’onorario deve identificarsi con quello in cui l’attività stessa è conclusa; ii) tenuto conto del fatto che l’art. 2234 c.c., riconosce al medesimo professionista, prima di quel momento, il diritto a percepire solo degli acconti, fino al momento della definizione dell’attività il diritto non è liquido, né esigibile, né la retribuzione “dovuta”, in collegamento con l’art. 2957 c.c., in materia di decorso del termine prescrizionale dall’esaurimento dell’incarico. In altri termini, la retribuzione, a prescindere da quando è stata compiuta la prestazione, sarebbe quindi privilegiata se divenuta “dovuta” nel biennio anteriore alla cessazione dell’attività.

2.1. Ad avviso di questo Collegio, però, tali argomentazioni appaiono basate sull’equivoco della commistione tra la giuridica esistenza e la oggettiva dimensione – anche in senso diacronico – del credito cui accede il privilegio (in considerazione della causa del credito stesso, la cui rilevanza il legislatore ben può delimitare anche in senso cronologico) da un lato, e gli ulteriori requisiti della liquidità e della esigibilità del credito medesimo, dall’altro; e risultano, perciò, in quanto circoscritte nella loro rilevanza all’analisi del venire in essere della liquidità e della esigibilità del credito, non concludenti ai fini del problema (che presenta una sua distinta ed autonoma ragione di essere) dell’applicabilità del privilegio. E’ ben vero che un problema di riconoscimento (e di limiti al riconoscimento) del privilegio si può porre, concretamente, solo se ed in quanto il credito sia divenuto liquido ed esigibile. Ma ciò non significa che le condizioni per l’acquisizione dei caratteri di liquidità e di esigibilità possano essere automaticamente recepite ed applicate quali criteri per la individuazione dell’estensione del privilegio che la legge vuole limitata in funzione della distanza temporale dal momento conclusivo della prestazione.

2.2. Pertanto, il principio (cd. di postnumerazione) della quantificazione dell’onorario solo al termine della controversia non sottrae il relativo credito alla regola di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 2, nel senso che il riconoscimento del privilegio dipende dalla prestazione dell’opera e non dalla liquidità e/o esigibilità del credito, rilevanti, invece, al diverso fine della individuazione del decorso del termine prescrizionale predetto. La norma, invero, individua e delimita il credito cui spetta il privilegio mediante il riferimento al contenuto (la prestazione, appunto) del rapporto, che viene assunto, così, ad elemento determinante della fattispecie genetica del privilegio, mentre nella norma stessa manca qualsivoglia dato testuale che induca a riconoscere analoga rilevanza al fatto ed al momento della esauriente determinazione quantitativa del credito (necessariamente successiva, in virtù delle particolari caratteristiche del rapporto) o della conseguita esigibilità dello stesso. Infatti, come pure acutamente fatto osservare in dottrina, la preposizione “per”, che compare nella formula normativa, è in sé chiaramente espressiva – nel collegamento con il predicato “dovute” che la regge (“retribuzioni… dovute per gli ultimi due anni di prestazione”) – di un rapporto di connessione genetica fra il credito professionale privilegiato e le (sole) attività svolte nella frazione terminale del periodo di espletamento del mandato (se ultrabiennale): il primo, in altre parole, deve trovare necessariamente la propria causa nelle seconde. Per converso, il contrario indirizzo oggi invocato dal ricorrente, non solo legge detta preposizione come se fosse equivalente alla preposizione “in” (“retribuzioni… dovute negli ultimi due anni prestazione”), ma surroga, altresì – nell’esegesi del vocabolo “dovute” – il requisito di legge del collegamento causale-genetico del credito professionale alla tranche conclusiva delle prestazioni, con la diversa condizione della determinabilità-esigibilità del credito stesso. Si tratta, evidentemente, di un’operazione di ortopedia normativa che, sebbene volta ad assicurare un migliore coordinamento tra la disciplina del credito de quo e quella del contratto di prestazione d’opera intellettuale, non per questo si rivela meno arbitraria dal punto di vista dell’interprete. Va rilevato, infine, che: i) l’attuale dettato legislativo (introdotto dalla L. n. 426 del 1975), che pone un nesso esplicito tra debenza della “retribuzione” e biennio “di prestazione”, è ancora più chiaro, nel senso qui sostenuto, rispetto a quello dell’originario art. 2751 c.c., n. 5, nel quale il riferimento alla “prestazione” non compariva (“retribuzioni… dovute per l’ultimo anno”); in un sistema che – come si è visto – fa coincidere ormai incontestabilmente il dies a quo del biennio privilegiato con la cessazione della prestazione, e non già con la data di inizio della procedura esecutiva o della dichiarazione di fallimento, la soluzione qui avversata si presenta prima facie contraddittoria, posto che, da un lato, fin quando la prestazione non si è conclusa, il limite temporale per definizione non scatterebbe; mentre, dall’altro, non appena verificatosi l’evento, l’intera retribuzione spettante all’avvocato diventerebbe automaticamente privilegiata, ancorché la prestazione si sia eventualmente protratta ben oltre un biennio in esecuzione di più incarichi. E’ evidente che, così ragionando, si perverrebbe all’anomalo risultato – che non può ritenersi voluto, né consapevolmente accettato come implicito dal legislatore – di vanificare, se non sempre, almeno in una larga percentuale di casi, la stessa valenza selettiva della previsione del limite temporale.

2.3. Tutto ciò non significa negare la rilevanza del criterio della cd. postnumerazione in sede di determinazione quantitativa del credito del professionista, né le già descritte conseguenze da esso tratte dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo al problema – affatto differente, giova ribadirlo, da quello qui in esame – della decorrenza del termine di prescrizione ex art. 2957 c.c.. Vuol dire, invece, da un lato, che tale determinazione deve avvenire mediante una valutazione globale riferita, però, ai singoli gradi nei quali si è sviluppato il processo (effettuata avvalendosi, in caso di successione di tariffe e/o di parametri di riferimento, di quelli vigenti nel momento conclusivo dell’attività, e tenendo conto, per quanto occorra, che, nel caso di pluralità di fasi dell’attività giudiziale, l’unitarietà dell’opera defensionale va riferita ai singoli gradi nei quali si è sviluppato il processo, come affermato fin da Cass. n. 2081 del 1977 e successivamente ribadito dalla già citata Cass. n. 2446 del 2012 e, ancor più recentemente, da Cass. n. 13849 del 2019, che, come si è precedentemente ricordato, ha riaffermato che, sebbene “” le prestazioni del professionista vanno valutate unitariamente, con riferimento al momento in cui sono richiesti o devono essere determinati gli onorari, ancorché si riferiscano ad attività svolte oltre il biennio” (…), tuttavia va preso in considerazione non già il complessivo rapporto professionale, bensì distintamente “ogni singola prestazione professionale al compimento della quale può essere compiutamente quantificato il compenso, anche alla luce del risultato raggiunto, come avviene, ad esempio, al termine di ogni grado di giudizio”, dovendosi appunto avere riguardo all’attività professionale “prestata nello specifico segmento procedurale autonomamente valutabile e pertanto generatore di un diritto al corrispettivo che tenga conto dell’opera prestata per una individuabile fase processuale e del risultato raggiunto”); dall’altro, e comunque, che, al diverso fine della discriminazione tra crediti privilegiati e non, devono ritenersi assistiti dal privilegio in esame i soli crediti aventi ad oggetto corrispettivi direttamente e specificamente correlati a prestazioni effettuate nel biennio immediatamente antecedente alla conclusione del rapporto, come tali suscettibili di essere qualificati ed enucleati in base allo stesso procedimento di liquidazione.

2.4. Ne deriva, quindi, che, alla stregua delle argomentazioni tutte fin qui esposte, la prestazione giudiziale dell’avvocato che sia espletata in più gradi di giudizio viene ad essere suddivisa, ai fini del riconoscimento del privilegio ex art. 2751-bis c.c., n. 2, in autonomi incarichi corrispondenti ai singoli gradi di esso (posto l’innegabile collegamento funzionale esistente, all’interno del grado, tra tutte le “prestazioni” ivi eseguite dal legale), con la conseguenza che il privilegio stesso può esser riconosciuto solo al credito riguardante i compensi relativi alle prestazioni per gli incarichi specifici (nella specie, dunque, del singolo grado di appello) conclusisi nell’ultimo biennio del rapporto professionale complessivo.

2.5. La conferma, cui si perviene in base alle considerazioni fin qui svolte, del criterio discretivo applicato dal giudice del merito si risolve nella reiezione del ricorso, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità essendo la curatela fallimentare rimasta solo intimata.

2.6.1. Va dato atto, invece, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte dell’Avv. P.F., di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022

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