Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6867 del 02/03/2022

Cassazione civile sez. I, 02/03/2022, (ud. 24/11/2021, dep. 02/03/2022), n.6867

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorsi riuniti iscritti al n. 5157/2016 R.G. proposto da:

COMUNE DI DOMODOSSOLA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e

difeso dall’Avv. Prof. Paolo Scaparone, con domicilio eletto in

Roma, via Cosseria, n. 2, presso lo studio del Dott. Alfredo

Placidi;

– ricorrente e controricorrente –

contro

Z.D., e Z.L., nonché F.V., e

Z.A., in qualità di eredi di Z.G.P., rappresentati e

difesi dall’Avv. Alberto Zanetta, con domicilio eletto in Roma, via

Valsavaranche, n. 46, presso lo studio dell’Avv. Marco Corradi;

– ricorrenti e controricorrenti –

e

Z.S., in qualità di erede di Z.G.P.;

– intimato –

avverso le sentenze della Corte d’appello di Torino n. 885/14,

depositata il 13 maggio 2014, e n. 1426/15, depositata il 20 luglio

2015.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 24 novembre

2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Z.D., L. e G.P., proprietari di un’area della superficie di 342,82 mq. sita in (OMISSIS), e riportata in Catasto al foglio (OMISSIS), particelle (OMISSIS), convennero in giudizio il Comune di (OMISSIS), per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dall’occupazione di fatto del suolo, non seguita dall’espropriazione.

Premesso che l’occupazione, avvenuta il (OMISSIS), era stata seguita dalla destinazione dell’area a parcheggio pubblico a pagamento, gli attori esposero che con sentenza del 18 novembre 2006, n. 129, il Tribunale di Verbania, Sezione distaccata di Domodossola, aveva condannato il Comune al rilascio del fondo, avvenuto il 7 febbraio 2007.

Si costituì il Comune, ed eccepì la prescrizione del credito azionato, sostenendo inoltre che l’area era soggetta ad una servitù di uso pubblico, costituitasi per usucapione, uso ab immemorabili o dicatio ad patriam; chiese pertanto il rigetto della domanda, ed in via riconvenzionale l’accertamento della servitù, con la condanna degli attori alla rimozione delle barriere apposte alla area.

1.1. Con sentenza del 30 novembre 2012, il Tribunale di Verbania accolse la domanda principale e rigettò la domanda riconvenzionale, ritenendo che l’accertamento della servitù di uso pubblico fosse precluso dal giudicato formatosi in ordine al rilascio dell’area, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 280.000,00, a titolo di risarcimento del danno per il periodo compreso tra il 7 giugno 1989 ed il 7 febbraio 2007, e dichiarando prescritto il diritto al risarcimento per il periodo anteriore.

2. Sulle impugnazioni proposte da entrambe le parti, la Corte d’appello di Torino, con sentenza non definitiva del 13 maggio 2014, ha rigettato l’eccezione di giudicato sollevata dagli attori in ordine all’insussistenza di una servitù di uso pubblico.

Premesso che nella sentenza n. 126 del 2006 il Tribunale di Verbania aveva ritenuto pacifica la destinazione dell’area a parcheggio, dando atto della mancata allegazione di un titolo a sostegno di tale uso e reputando irrilevante la sussistenza della servitù, in quanto non implicante l’autorizzazione ad utilizzare il bene sine titulo, la Corte ha evidenziato la contraddittorietà di tali affermazioni, rilevando che il titolo era costituito proprio dalla servitù costituitasi per usucapione o dicatio ad patriam, idonea ad impedire la destinazione del bene ad usi incompatibili, e concludendo che l’unica statuizione comprensibile della sentenza consisteva nella condanna del Comune alla restituzione dell’area, mentre l’esistenza della servitù era rimasta indeterminata.

2.1. Con sentenza definitiva del 20 luglio 2015, la Corte d’appello ha poi accolto parzialmente gli altri motivi di gravame, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 39.314,27 in favore di Z.D. e L., nonché di F.V., Z.S. ed A., in qualità di eredi di Z.G.P..

Premesso che la prescrizione del diritto al risarcimento aveva cominciato a decorrere fin dalla data dell’occupazione, e ritenuto applicabile il termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, in quanto il danno consisteva nell’impossibilità di godere dell’immobile ritraendone i frutti, la Corte ha escluso l’efficacia interruttiva delle lettere ripetutamente inviate dagli attori al Comune, osservando che dalle stesse non emergeva in alcun modo una costituzione in mora di quest’ultimo; rilevato infatti che le stesse non contenevano una richiesta precisa o un’intimazione di pagamento, ha affermato che il primo atto interruttivo coincideva con la notificazione dell’atto di citazione, avvenuta il 19 marzo 2010, ed ha pertanto concluso che il diritto al risarcimento risultava prescritto per il periodo anteriore al 19 marzo 2005.

Nel merito, rilevato che il c.t.u. nominato nel corso del giudizio di appello aveva stimato il valore complessivo dell’area occupata in Euro 206.900,00, sulla base della destinazione a parcheggio e del canone di parcheggio dovuto per otto posti auto, ha ritenuto che il valore di utilizzo dell’immobile dovesse essere parametrato a quello di un parcheggio di massimo utilizzo, costituito da dieci posti auto, ed ha pertanto aumentato ad Euro 249.900,00 il valore stimato dal c.t.u.. Ha affermato inoltre che il risarcimento doveva essere liquidato in base al criterio previsto dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 50, comma 1, che, in quanto fondato sul riferimento al canone annuo ritraibile dallo sfruttamento del fondo, risultava il più adeguato al caso concreto, caratterizzato da un’occupazione abusiva trentennale da parte di un soggetto che avrebbe dovuto attenersi a canoni di legalità. Ha ritenuto infondate le critiche mosse dalle parti all’operato del c.t.u., osservando che l’inesistenza di un mercato a concorrenza perfetta, per una delle particelle rimasta interclusa, costituiva il risultato del trentennale abuso commesso dal Comune, mentre altre particelle, oltre ad essere insuscettibili di autonoma utilizzazione, per le loro dimensioni, risultavano sottoposte a rilevanti vincoli pubblicistici.

La Corte ha infine escluso la necessità di statuire in ordine agl’interessi ed alla rivalutazione monetaria, rilevando che gli appellati non li avevano richiesti, avendo costantemente qualificato la somma dovuta come indennità, che la sentenza di primo grado non aveva disposto nulla, e che in proposito non era stato proposto appello incidentale.

3. Avverso le predette sentenze hanno proposto ricorso per cassazione Z.D., L. e A. e F.V., per sei motivi, illustrati anche con memoria. Il Comune ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso per cassazione avverso la sentenza definitiva, per tre motivi, al quale gli Z. e la F. hanno resistito con controricorso. Z.S. non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei due ricorsi, proposti separatamente, ma aventi ad oggetto l’impugnazione di sentenze emesse nel medesimo giudizio.

2. Con il primo motivo d’impugnazione, gli Z. e la F. denunciano la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 111 Cost., comma 6, nonché il difetto di motivazione, censurando la sentenza non definitiva per aver escluso l’avvenuta formazione del giudicato in ordine all’esistenza della servitù di uso pubblico, senza considerare che, nel condannare il Comune al rilascio dell’area, la sentenza n. 129 del 2006 aveva risolto espressamente la questione concernente l’esistenza di pesi sull’area occupata, avendo rilevato la mancanza di un titolo che legittimasse la destinazione impressa all’immobile.

3. Con il secondo motivo, gli Z. e la F. deducono la nullità della sentenza definitiva per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 156 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., comma 6, nonché per difetto e/o apparenza della motivazione, rilevando che la Corte d’appello ha omesso di esaminare il motivo dell’appello incidentale con cui era stata fatta valere la decorrenza della prescrizione dal rilascio dell’area occupata.

4. Con il terzo motivo, gli Z. e la F. lamentano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2934, 2935 c.p.c. e art. 2947 c.p.c., comma 1, e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, assumendo che la prescrizione del diritto al risarcimento avrebbe dovuto essere fatta decorrere dal rilascio dell’area occupata, per effetto della quale era cessata la permanenza della condotta illecita. Premesso che, alla luce dell’acclarato contrasto tra l’istituto dell’occupazione appropriativa ed i principi sanciti dalla CEDU, l’occupazione senza titolo di un immobile da parte della Pubblica Amministrazione non è più configurabile come un illecito istantaneo ad effetti permanenti, ma come un illecito a carattere permanente, destinato a cessare soltanto per effetto della restituzione o di un accordo transattivo o della proposizione della domanda di risarcimento, incompatibile con la conservazione del diritto dominicale da parte del proprietario, affermano che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento dev’essere ancorato a quest’ultima data, non essendo sufficiente, ai fini della sua decorrenza, la mera consapevolezza dell’illegittimità dell’occupazione, ma occorrendo che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzarne le conseguenze lesive. Sostengono che tale principio, enunciato in riferimento alla domanda di riconoscimento del controvalore dell’immobile, dev’essere esteso anche al risarcimento del danno derivante dal mancato godimento, non potendosi anticipare la decorrenza della prescrizione ad un momento in cui il danno non è effettivamente percepibile e riconoscibile da parte del proprietario.

5. Con il quarto motivo, gli Z. e la F. denunciano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2934,2935,2943,2944 e 2945 c.c., nonché dell’art. 111 Cost., comma 6, per difetto di motivazione, censurando la sentenza definitiva per aver escluso l’efficacia interruttiva delle lettere da loro inviate al Comune ed al riscontro fornito da quest’ultimo, senza considerare che a tal fine sono sufficienti l’indicazione del soggetto obbligato ed una richiesta di pagamento, mentre non sono richieste forme particolari o l’impiego di formule solenni, né l’indicazione dell’ammontare del credito o di specifiche modalità di esecuzione.

6. Con il quinto motivo, gli Z. e la F. deducono la violazione e/o la falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 32 e 50, nonché dell’art. 111 Cost., comma 6, per difetto di motivazione, censurando la sentenza definitiva nella parte in cui, ai fini della liquidazione del danno, ha aderito alla stima compiuta dal c.t.u., il quale aveva tenuto conto degli effetti del vincolo preordinato all’esproprio ed aveva accertato il valore del fondo in riferimento alla data di ultimazione dei lavori da parte del Comune, anziché a quella dell’immissione dello stesso nel possesso dell’immobile a seguito dell’espropriazione. Aggiungono che il valore commerciale del fondo avrebbe dovuto essere determinato considerando il reddito derivante dalla destinazione a parcheggio privato a pagamento, trattandosi di un’utilizzazione compatibile con la classificazione prevista dal piano regolatore, e non richiedente l’esecuzione di opere edilizie.

7. Con il sesto motivo, gli Z. e la F. lamentano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 c.c., nonché dell’art. 111 Cost., comma 6, per difetto di motivazione, censurando la sentenza impugnata per aver negato il riconoscimento degl’interessi compensativi e della rivalutazione monetaria, senza tener conto della natura risarcitoria della obbligazione, configurabile come debito di valore, rispetto al quale gl’interessi e la rivalutazione svolgono una funzione reintegrativa del danno derivante dal ritardo nel pagamento, e possono quindi essere riconosciuti anche in mancanza di una specifica richiesta di parte.

8. Con il primo motivo del suo ricorso, il Comune denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. e dell’art. 244 c.p.c., censurando la sentenza non definitiva per aver confermato immotivatamente una precedente ordinanza che aveva ritenuto inammissibili, in quanto generiche, le prove testimoniali dedotte in primo grado e riproposte in appello ai fini dell’accertamento della servitù di uso pubblico, senza valutarne il contenuto in relazione alla documentazione richiamata nei relativi capitoli. Aggiunge che, nel rilevare la mancata produzione di una planimetria dei luoghi, l’ordinanza non aveva tenuto conto dell’avvenuto deposito di una copia dell’estratto cartografico del piano regolatore generale, che rappresentava l’area in questione e quella circostante.

9. Con il secondo motivo, il Comune deduce la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 32, comma 1, e dell’art. 2909 c.c., osservando che, nel fare propria la stima del fondo compiuta dal c.t.u., la sentenza definitiva ha ritenuto per un verso irrilevante la destinazione dell’area a viabilità, in quanto conforme alla naturale destinazione dello immobile, valorizzandola per altro verso proprio ai fini dell’individuazione del valore di mercato. Premesso che il vincolo preordinato all’esproprio non può incidere in alcun modo sul valore del bene da tenere in conto ai fini della determinazione dell’indennità di espropriazione, rileva che la sentenza impugnata non ha preso in considerazione le caratteristiche intrinseche dell’area, ma all’uso concreto cui era stato adibito, in tal modo attribuendole un valore superiore a quello effettivo. Aggiunge che il criterio utilizzato per la liquidazione, che fa riferimento alla destinazione dell’area a parcheggio, si pone in contrasto con il giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto irrilevanti gl’introiti derivanti dalla gestione del parcheggio.

10. Con il terzo motivo, il Comune lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 43 e 50, censurando la sentenza definitiva per aver liquidato il risarcimento in base al canone annuo ritraibile dallo sfruttamento del fondo, anziché agl’interessi legali sul valore di mercato del bene. Premesso infatti che le diverse modalità di calcolo previste dalle predette disposizioni sono correlate alla differente natura dell’obbligazione, avente carattere indennitario nel caso dell’occupazione legittima, e risarcitorio nel caso di occupazione illegittima, sostiene che il secondo criterio risultava più aderente alla fattispecie in esame, caratterizzata dall’illiceità dell’occupazione.

11. Il primo motivo del ricorso proposto dai proprietari è inammissibile, per difetto d’interesse.

Gli Z. e la F. non possono infatti ritenersi soccombenti in ordine alla questione riguardante l’intervenuta formazione del giudicato sull’esistenza della servitù pubblica, sollevata in primo grado dal Comune e dallo stesso riproposta con il terzo motivo di gravame, avendo la Corte d’appello escluso, con la sentenza non definitiva, la possibilità di desumere con certezza dalla sentenza di condanna al rilascio dell’area occupata, precedentemente pronunciata dal Tribunale di Verbania e divenuta definitiva, un accertamento in ordine all’esistenza della servitù, idoneo a precludere la riproposizione della questione nel presente giudizio. La stessa Corte d’appello, peraltro, pur avendo espressamente precisato, in quella sede, che il rigetto dell’eccezione di giudicato non comportava l’affermazione dell’insussistenza della servitù, dovendosi procedere all’accertamento del prospettato acquisto della stessa per usucapione o per dicatio ad patriam, ha successivamente omesso qualsiasi pronuncia al riguardo, e non ha comunque tenuto conto dell’incidenza della servitù ai fini della liquidazione del danno derivante dall’occupazione illegittima del fondo, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, i ricorrenti non hanno alcun interesse ad impugnare la sentenza non definitiva.

12. Per analoghi motivi, va dichiarato inammissibile il primo motivo del ricorso proposto dal Comune, da esaminarsi prioritariamente rispetto alle altre censure proposte dalle parti, avendo lo stesso ad oggetto la mancata ammissione della prova testimoniale dedotta a sostegno della domanda riconvenzionale di accertamento della servitù proposta in primo grado e riproposta in appello.

La mancanza di qualsiasi statuizione in ordine alla predetta domanda, non menzionata in alcun modo nella sentenza definitiva, nonostante la precisazione contenuta in quella non definitiva, è rimasta infatti incensurata in questa sede, essendosi il Comune limitato a dolersi dell’immotivato rigetto delle istanze istruttorie formulate ai fini della prova della servitù, richiamando la precedente ordinanza che le aveva prese in esame, senza far valere il vizio di omessa pronuncia in ordine alla domanda cui erano strumentali, con la conseguenza che, rispetto al mancato accoglimento delle stesse, non è configurabile un autonomo interesse all’impugnazione.

13. In ordine logico, vanno quindi esaminati il secondo ed il terzo motivo del ricorso proposto dai proprietari, aventi ad oggetto l’omesso esame della questione concernente la decorrenza della prescrizione e la riconducibilità della stessa alla data di rilascio del fondo occupato, anziché a quella in cui ebbe inizio l’occupazione.

Si osserva al riguardo che la sentenza impugnata non ha affatto omesso di pronunciare in ordine al primo motivo di appello incidentale, con cui i ricorrenti avevano individuato la data di rilascio del fondo occupato come dies a quo della prescrizione, facendo valere l’illegittimità originaria dell’occupazione, non sorretta da una dichiarazione di pubblica utilità, e la conseguente natura permanente dell’illecito, cessato soltanto a seguito della restituzione dell’immobile. La Corte d’appello ha infatti riconosciuto espressamente la natura permanente dell’illecito, osservando che, in quanto derivante dall’impossibilità di godere dell’immobile ritraendone i frutti, il danno aveva cominciato a prodursi dal momento in cui aveva avuto inizio l’occupazione senza titolo e si era protratto fino al momento della restituzione del fondo; precisato peraltro che il termine di prescrizione applicabile era quello quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, ha affermato che, proprio in virtù del carattere permanente dell’illecito, destinato a rinnovarsi continuamente fino al momento di cessazione dell’occupazione, il termine doveva considerarsi decorrente di giorno in giorno.

13.1. Tale affermazione si pone perfettamente in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’occupazione illegittima costituisce una condotta antigiuridica configurabile come illecito a carattere permanente, che si protrae nel tempo, a partire dall’iniziale apprensione del bene, e determina un pregiudizio destinato a rinnovarsi continuamente, in relazione alla privazione del godimento ed alla perdita dei frutti dell’immobile, con la conseguenza che il diritto del proprietario al risarcimento sorge in ogni momento, in relazione al danno già verificatosi, e nello stesso momento comincia a decorrere il relativo termine di prescrizione quinquennale, la cui maturazione impedisce il riconoscimento del diritto in questione per il periodo anteriore al quinquennio che precede la proposizione della domanda, a meno che il danneggiato non abbia nel frattempo compiuto validi atti interruttivi (cfr. Cass., Sez. I, 30/09/2021, n. 26592; 7/03/2011, n. 5381; 29/10/2008, n. 25983).

Non può condividersi, in contrario, il richiamo della difesa dei ricorrenti al principio, enunciato da questa Corte in riferimento all’ipotesi in cui l’immobile occupato sia stato irreversibile trasformato per effetto della realizzazione dell’opera pubblica, secondo cui, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, non è sufficiente la mera consapevolezza di aver subito un’occupazione e/o una manipolazione senza titolo dell’immobile, ma occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica (cfr. Cass., Sez. I, 17/04/2014, n. 8965). Com’e’ noto, tale principio trae origine dal richiamo all’orientamento della Corte EDU che ha affermato la contrarietà dell’istituto dell’espropriazione indiretta all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU (cfr. per tutte, sent. 30/05/ 2000, Belvedere Alberghiera S.r.l.; 30/05/2000, Carbonara e Ventura), in tal modo aprendo la strada al successivo revirement di questa Corte che ha escluso la possibilità di ricollegare alla trasformazione irreversibile del fondo, anche se preceduta dalla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, l’acquisto della proprietà dell’immobile da parte dell’Amministrazione e l’insorgenza del diritto al risarcimento, ravvisando in tale fattispecie, non diversamente da quanto accadeva precedentemente in caso di mancanza della predetta dichiarazione, un illecito a carattere permanente, destinato a cessare soltanto per effetto della restituzione dell’immobile, della stipulazione di un accordo transattivo, del compimento dell’usucapione in favore dell’occupante o della rinuncia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/2015, n. 735; Cass., Sez. I, 29/09/2017, n. 22929; Cass., Sez. II, 14/01/2013, n. 705). Il principio invocato dai ricorrenti trova la sua giustificazione nelle incertezze insorte, già in epoca anteriore al segnalato mutamento giurisprudenziale, relativamente alla decorrenza del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per il danno derivante dalla perdita della proprietà, a causa della difficoltà d’individuare in concreto il momento in cui il fondo avesse perso i suoi caratteri originari e subito quella trasformazione idonea ad imprimergli la nuova destinazione pubblicistica; era stato proprio questo, d’altronde, uno degl’inconvenienti dell’istituto dell’espropriazione indiretta stigmatizzati dalla Corte EDU, la quale aveva evidenziato la menomazione che ne conseguiva per un’efficace tutela del proprietario, il cui diritto restava esposto, per effetto della qualificazione della fattispecie come illecito istantaneo ad effetti permanenti, al decorso del termine quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, decorrente dalla data della trasformazione irreversibile. Tali incertezze sono peraltro venute meno per effetto del nuovo orientamento giurisprudenziale, che, affermando l’inidoneità della trasformazione a determinare la perdita del diritto di proprietà, ricollega l’insorgenza del diritto al risarcimento all’abbandono del bene conseguente alla proposizione della domanda di riconoscimento dell’equivalente pecuniario, in tal modo escludendo in radice la possibilità della decorrenza del termine di prescrizione; in ogni caso, esse non sono riferibili alla diversa ipotesi in cui, come nella specie, l’azione risarcitoria abbia ad oggetto il danno derivante non già dalla perdita della proprietà, ma dalla privazione del godimento e dalla mancata percezione dei frutti del fondo, trattandosi di un pregiudizio che si verifica per effetto non già della trasformazione, ma dell’apprensione del fondo da parte dell’Amministrazione, si rinnova di momento in momento, dalla data dell’immissione in possesso fino a quella della cessazione dell’occupazione, ed è immediatamente e perfettamente percepibile da parte del proprietario, nella sua dimensione sia economica che giuridica, con la conseguente possibilità di attivarsi tempestivamente per la tutela dei propri diritti.

Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, rilevato che l’occupazione del fondo si era protratta dal 17 luglio 1972 al 7 febbraio 2007, ha escluso la possibilità di ancorare il termine di prescrizione alla data di rilascio del fondo o a quella di notificazione dell’atto di citazione, affermandone la decorrenza de die in diem, e dichiarando quindi prescritto il diritto al risarcimento per il periodo anteriore al quinquennio che aveva preceduto la proposizione della domanda.

14. E’ poi inammissibile il quarto motivo del ricorso proposto dagli Z. e dalla F., concernente l’efficacia interruttiva delle lettere da loro inviate al Comune negli anni anteriori al quinquennio precedente alla notificazione dell’atto di citazione.

L’esclusione della predetta efficacia trova conforto nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini dell’idoneità di un atto ad interrompere la prescrizione, è necessario che lo stesso sia posto in essere in forma scritta e contenga, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, in modo tale da manifestare inequivocabilmente la volontà dell’autore di far valere il proprio diritto, con l’effetto sostanziale di costituire in mora il destinatario. La valutazione in ordine alla sussistenza dei tali requisiti costituisce un giudizio di fatto, rimesso al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione (cfr. Cass., Sez. II, 31/05/2021, n. 15140; Cass., Sez. lav., 21/11/2018, n. 30125; Cass., Sez. III, 18/09/2007, n. 19359).

Tale apprezzamento nella specie non può ritenersi validamente censurato, essendosi i ricorrenti limitati ad insistere sulla non necessarietà dell’uso di formule solenni o dell’osservanza di particolari adempimenti, non richiesti in alcun modo dalla sentenza impugnata, senza indicare le lacune argomentative o le carenze logiche del ragionamento seguito dalla Corte d’appello, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione dei vizi di violazione di legge e difetto di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cit., ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/ 2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/ 2017, n. 19547).

15. Sono invece infondati il quinto motivo del ricorso dei proprietari ed il secondo del ricorso del Comune, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi entrambi ad oggetto la stima del fondo occupato.

E’ infatti pacifico tra le parti che la destinazione concretamente attribuita dal Comune al fondo occupato, utilizzato come parcheggio a pagamento, corrisponde a quella prevista dallo strumento urbanistico vigente, nell’ambito del quale lo stesso è incluso in una zona destinata a viabilità, in tal modo risultando assoggettato ad un vincolo che preclude qualsiasi forma di sfruttamento del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione, quale estrinsecazione dello jus aedificandi connesso con il diritto di proprietà ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area; non risulta d’altronde dedotto che tale vincolo sia stato imposto a titolo particolare, in funzione della localizzazione lenticolare di un’opera pubblica, anziché in via generale, quale riflesso della ripartizione del territorio comunale in zone omogenee, prevista dal piano regolatore generale in funzione dello sviluppo urbanistico dell’area, sicché non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui ha fatto propria la valutazione compiuta dal c.t.u., che aveva attribuito al vincolo natura espropriativa, in contrasto con un principio più volte ribadito da questa Corte in tema di liquidazione sia dell’indennità di espropriazione che del risarcimento del danno per occupazione illegittima (cfr. Cass., Sez. I, 7/07/2011, n. 15007; 6/11/2008, n. 26615; 5/04/2006, n. 7892). Tale erroneo apprezzamento, pur avendo indotto il c.t.u. ad escludere la possibilità di tenere conto del vincolo nella determinazione del valore del fondo, è rimasto peraltro privo di conseguenze, proprio in virtù del rilievo conferito alla destinazione di fatto del fondo, corrispondente alla sua classificazione urbanistica, anziché ad astratte potenzialità edificatorie, nella specie d’altronde, per quanto risulta, neppure allegate. In quest’ottica, nessuna concreta contraddizione è riscontrabile tra l’assoggettamento del fondo al vincolo d’inedificabilità e il risalto allo stesso conferito ai fini della determinazione del valore di mercato dell’immobile: se è vero, infatti, che ai fini dell’accertamento dell’edificabilità di un fondo occorre attribuire un ruolo primario alle possibilità legali di edificazione collegate alla classificazione prevista dallo strumento urbanistico, configurandosi la c.d. edificabilità di fatto come un criterio meramente suppletivo e complementare, utilizzabile in assenza di strumenti urbanistici o ai fini della determinazione del concreto valore del suolo, è anche vero, però, che nulla impedisce di conferire rilievo, anche nella stima di aree non edificabili, ad eventuali forme di sfruttamento diverse da quella agricola (ad esempio, parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative etc.), purché compatibili con le previsioni urbanistiche, ove le stesse, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, consentano di pervenire all’individuazione di un valore di mercato conforme alle effettive possibilità di utilizzazione dell’immobile (cfr. Cass., Sez. I, 6/03/2019, n. 6527; 19/07/2018, n. 19295; Cass., Sez. VI, 1/02/ 2019, n. 3168).

15.1. Quanto poi ai criteri adottati per la determinazione del valore del fondo, non è condivisibile la tesi sostenuta dalla difesa del Comune, secondo cui il riferimento al reddito derivante dalla destinazione a parcheggio doveva ritenersi precluso dal giudicato formatosi in ordine all’osservazione del Giudice di primo grado, secondo cui le somme incassate dal Comune nel periodo di occupazione non potevano considerarsi indicative di analoghe potenzialità reddituali da parte di soggetti privati: tale rilievo aveva costituito infatti oggetto di specifica impugnazione da parte dei proprietari, i quali, nel contestare i criteri seguiti dal Tribunale, con il secondo motivo di appello incidentale, avevano insistito sulla redditività dell’area, collegata alla sua destinazione urbanistica, ponendo ancora una volta in risalto gl’introiti percepiti dal Comune mediante l’installazione di parcometri. Inammissibili risultano invece le censure sollevate dalla difesa dei proprietari in ordine all’individuazione della data di riferimento della stima dell’immobile e alla natura del parcheggio da prendere in considerazione ai fini della determinazione della redditività, trattandosi di questioni che implicano indagini di fatto, non menzionate nella sentenza impugnata e quindi non proponibili in questa sede, non essendo stato precisato in quale fase ed in quale atto del giudizio di merito le stesse siano state sollevate (cfr. Cass., Sez. VI, 13/12/2019, n. 32804; Cass., Sez. II, 24/01/2019, n. 2038; 9/08/2018, n. 20694).

16. E’ altresì infondato il terzo motivo del ricorso proposto dal Comune, concernente il criterio utilizzato per la liquidazione del risarcimento.

In proposito, la Corte d’appello ha richiamato a titolo meramente orientativo i criteri previsti dall’art. 43, comma 6, lett. b), (all’epoca già dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 293 del 2010 della Corte costituzionale, e sostituito dall’art. 42-bis, introdotto dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 34, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111) e del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 50, ritenendoli “i più prossimi alla considerazione della situazione data”, non riconducibile, a stretto rigore, a nessuna delle due fattispecie contemplate dalle norme indicate: in quanto caratterizzate rispettivamente dalla sopravvenienza di un provvedimento di acquisizione sanante e dalla preesistenza di un provvedimento autorizzatorio, queste ultime risultano infatti idonee a determinare entrambe l’insorgenza a carico dell’Amministrazione di un’obbligazione indennitaria, in luogo di quella risarcitoria derivante da un’occupazione di mero fatto (cfr. Cass., Sez. Un., 20/07/2021, n. 20691). Nel prescegliere il metodo di cui all’art. 50 cit., la Corte d’appello ha peraltro spiegato chiaramente le ragioni per cui lo riteneva più adeguato alle caratteristiche concrete della fattispecie, evidenziando l’abusività dell’occupazione, assimilabile a quella posta in essere da un privato, e l’equivalenza del ristoro al canone annuo ritraibile dallo sfruttamento del fondo. Tale ragionamento trova conforto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di occupazione sine titulo, secondo cui la perdita della disponibilità di un immobile consente di ritenere sussistente, in base ad una presunzione juris tantum fondata sulla natura normalmente fruttifera del bene, un danno connesso alla impossibilità di trarne tutte le utilità, giustificando quindi, in assenza di uno specifico criterio di legge, la liquidazione in via equitativa del pregiudizio derivante dallo spossessamento; a tal fine, è stata ritenuta applicabile tanto la disciplina dettata per l’occupazione temporanea quanto quella prevista dall’art. 1591 c.c., che costituisce espressione di un principio generale applicabile a tutte le ipotesi di utilizzazione del bene oltre la scadenza del termine finale previsto dal contratto con cui sia stato concesso in godimento, non escludendosi neppure la possibilità di far ricorso al criterio degl’interessi legali, a condizione che la quantificazione del danno non risulti manifestamente incongrua in relazione alle caratteristiche del caso concreto (cfr. Cass., Sez. II, 22/11/2019, n. 30549; Cass., Sez. I, 20/11/2018, n. 29990).

17. E’ invece fondato il sesto motivo del ricorso proposto dai proprietari, avente ad oggetto il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria e degl’interessi legali sulla somma liquidata a titolo di risarcimento.

Non può infatti condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la necessità di un’apposita statuizione al riguardo, rilevando che gli appellati non ne avevano fatto richiesta, né avevano impugnato la sentenza di primo grado, nella parte in cui nulla aveva disposto in ordine a tali voci di danno, implicitamente negandone il riconoscimento. Gl’interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da fatto illecito hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., essendo volti a compensare il pregiudizio subito dal creditore per il ritardo nel conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, del quale costituiscono quindi una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di rivalutazione monetaria; quest’ultima non costituisce a sua volta il risarcimento di un danno maggiore e distinto, ma soltanto una diversa espressione monetaria del danno medesimo, che, per rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, deve risultare adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui viene emanata la pronuncia giudiziale. Nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito deve pertanto ritenersi implicitamente inclusa anche la richiesta di riconoscimento delle predette voci, quali componenti indispensabili del risarcimento, che il giudice di merito deve attribuire anche se non espressamente richieste, pure in grado di appello, senza incorrere per ciò solo in ultrapetizione (cfr. Cass., Sez. III, 4/11/2020, n. 24468; 16/12/2014, n. 26374; Cass., Sez. I, 17/09/2015, n. 18243).

18. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dal motivo accolto, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il riconoscimento in favore dei proprietari della rivalutazione monetaria sulla somma liquidata a titolo di risarcimento, da calcolarsi secondo gl’indici Istat fino alla data della decisione, nonché degl’interessi legali sulla medesima somma rivalutata anno per anno, con decorrenza dalla data di cessazione dell’occupazione.

19. Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo, mentre quelle del giudizio di legittimità vanno compensate integralmente tra le parti, in considerazione dell’accoglimento soltanto parziale del ricorso proposto dagli Z. e dalla F..

P.Q.M.

riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso proposto dal Comune di Domodossola e i primi cinque motivi del ricorso proposto da Z.D., L. e A. e F.V., accoglie il sesto motivo del medesimo ricorso, cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, condanna il Comune di Domodossola al pagamento in favore di Z.D., L. e A. e F.V. della rivalutazione monetaria sulla somma di Euro 39.314,27, da calcolarsi secondo gl’indici Istat fino alla data della decisione, e degl’interessi legali sulla medesima somma rivalutata anno per anno, con decorrenza dal 7 febbraio 2007. Condanna il Comune di Domodossola al pagamento, in favore di Z.D., L. e A. e F.V., delle spese del giudizio di appello, che liquida in Euro 8.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022

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