Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6866 del 22/03/2010

Cassazione civile sez. I, 22/03/2010, (ud. 24/11/2009, dep. 22/03/2010), n.6866

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.M. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA APPIA NUOVA 96, presso l’avvocato ROLFO

PAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato SINIGAGLIA ENRICO, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.A. (c.f (OMISSIS)), in proprio e nella

qualità di genitore affidatario ed esercente la potestà sul figlio

minore P.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

BOCCA DI LEONE 78, presso l’avvocato ROMEI ANTONIO, che la

rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

PA.MA., P.M.Y.R., INTERDESIGN

S.R.L., PAPIRI COLLECTION S.A.S. DI MASSIMO PAPIRI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1796/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

24/11/2009 dal Presidente Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ENRICO SINIGAGLIA che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato FRANCESCA MASTROIANNI, con

delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 9 ed il 12.7.1999 P.A., in proprio e quale madre esercente la potestà sul figlio minore P.G., esponeva che:

– con provvedimento del 26.2.1999 il Presidente del Tribunale di Roma, in sede di separazione personale dal marito P.M., aveva posto a carico di quest’ultimo, a titolo di contributo per il mantenimento del figlio G., la somma di L. tremilioni mensili che nel mese di Aprile egli aveva corrisposto solo a seguito di precetto e che nel mese di Maggio si era invece astenuto dal versarla;

nel corso dell’intrapresa esecuzione era emerso che il marito con atto pubblico del (OMISSIS), vale a dire appena tre giorni prima dell’udienza presidenziale, aveva ceduto la nuda proprietà del proprio appartamento, già adibito a casa coniugale e sito in via (OMISSIS), alla s.r.l. Interdesign di cui egli era socio e legale rappresentante;

– da successivi accertamenti era inoltre emerso che, sempre poco prima dell’udienza presidenziale, egli aveva altresì alienato alla stessa società alcuni immobili siti in (OMISSIS) nonchè al fratello Ma. ed alla cognata T.C.M. le proprie quote di partecipazione nelle società Interdesign s.r.l. e Papiri Collection s.a.s..

Ritenendo che dette cessioni fossero state realizzate dal marito al fine di sottrarsi all’obbligo di mantenimento del figlio che sarebbe in tal modo pregiudicato nelle sue ragioni di credito, conveniva avanti al Tribunale di Roma il P.M., suo fratello Ma. e la cognata nonchè le citate società, chiedendo che fosse dichiarata l’inefficacia nei propri confronti degli atti di compravendita indicati e di cessione delle quote sociali.

Si costituiva il P.M. che eccepiva il difetto di legittimazione attiva sia della P.A. in proprio e sia del figlio, avendo egli corrisposto quanto dovuto, salvo alcuni ritardi iniziali nonchè la nullità della citazione per mancata esposizione degli elementi di fatto e di diritto su cui la domanda si fonda. Nel merito deduceva che le cessioni erano finalizzate alla acquisizione di liquidità e non già ad eludere l’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio. Si costituivano anche gli altri convenuti che eccepivano il difetto di legittimazione passiva della Papiri Collection nei cui confronti non era stata avanzata alcuna domanda e chiedevano in via riconvenzionale la condanna dell’attrice al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

All’udienza delle precisazione delle conclusioni il difensore della P.A. rinunciava alla domanda proposta in proprio dalla P.A. medesima e le controparti ne prendevano atto.

Con sentenza del 1.8.2001 il Tribunale accoglieva la domanda e dichiarava inefficaci nei confronti di P.G. gli indicati atti di disposizione.

Proponevano impugnazione il P. e, con separato atto, gli altri originari convenuti ed all’esito del giudizio, nel quale si costituiva la P.A. chiedendone il rigetto, la Corte d’Appello di Roma con sentenza del 10.12.2004 – 21.4.2005 rigettava il gravame proposto da Pa.Ma., T.M.Y., Interdesign s.r.l. e da Papiri Collection s.a.s. ed in parziale accoglimento dell’appello proposto da P.M. liquidava in misura minore le spese processuali di primo grado, disposte a favore di P.A. e poste a carico del medesimo in solido con gli altri convenuti. Condannava infine tutti gli appellanti al pagamento delle spese processuali.

Dopo aver disatteso l’eccezione relativa alla mancata trascrizione nella sentenza del Tribunale delle conclusioni delle parti, ritenendo che non costituisse motivo di nullità della sentenza medesima in quanto non aveva comportato in concreto un’omessa pronuncia sulle domande e sulle eccezioni proposte e dopo aver osservato che alcuni refusi riscontrabili nella parte motiva non impedivano di ricostruire l’iter logico seguito dal primo giudice, rilevava la Corte d’Appello l’infondatezza della censura con cui era stata dedotta la nullità della citazione introduttiva, osservando che conteneva tutti gli elementi necessari per individuare la richiesta e le ragioni, di fatto e di diritto, poste a fondamento della domanda in quanto erano stati indicati gli atti di cui si era chiesta l’inefficacia ed i soggetti interessati a ciascuno di tali atti. Disattendeva altresì la doglianza riguardante la mancata pronuncia da parte del Tribunale in ordine alla rinuncia della domanda proposta in proprio dalla P.A. e non accettata dalle controparti; su tale ultimo punto osservava che la rinuncia espressa con riferimento alla sola domanda svolta personalmente dalla parte non costituiva una rinuncia agli atti del giudizio in quanto, ai sensi dell’art. 306 c.p.c., può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale, con la conseguenza che, non avendo ricevuto il procuratore il potere di rinuncia, correttamente il Tribunale si era limitato a non pronunciare sul punto non compreso vi nelle conclusioni definitive.

Nel merito ribadiva in primo luogo la titolarità del minore, in virtù del rapporto di filiazione, del diritto al mantenimento ai sensi degli artt. 147 e 148 c.c. e, conseguentemente, la legittimazione della madre ad agire nel suo interesse per esercitare le azioni a tutela di tale diritto. Riteneva inoltre irrilevante la insussistenza allo stato di un inadempimento del P., contrariamente alla tesi da costui sostenuta, essendo volta la domanda revocatoria a garantire il futuro adempimento dell’obbligo al mantenimento fino alla raggiunta indipendenza economica del figlio a prescindere dall’attuale situazione d’insolvenza ed essendo sufficiente quindi per il suo esercizio che vi sia incertezza o pericolo per la realizzazione delle ragioni di credito, come era riscontrabile nel caso in esame, a seguito della molteplicità e della consistenza economica delle cessioni effettuate, a fronte delle quali incombeva ai convenuti, che hanno eccepito la mancanza del rischio, l’inesistenza dell'”eventus damni”.

Sottolineava poi come i rapporti di parentela esistenti fra il P.M. ed i cessionari delle quote della Papiri Collection (fratello e cognata) e la qualità dello stesso M. di legale rappresentante e socio della Interdisegn (acquirente degli immobili siti in (OMISSIS)) facessero presumere la consapevolezza da parte degli stessi cessionari dell’esistenza del debito e del pregiudizio che gli atti di cessione arrecavano per il soddisfacimento dei diritti del minore.

Riteneva altresì irrilevante l’anteriorità degli atti di cessione rispetto all’accertamento giudiziale del credito, dovendosi aver riguardo ai fini in esame all’insorgenza del credito che nella fattispecie trova la sua fonte legale nel rapporto di filiazione.

Del pari nessuna rilevanza attribuiva alla circostanza che a carico del P.M. fosse stato richiesto e concesso un provvedimento di sequestro fino alla concorrenza di L. 300.000.000 ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 6 in quanto, essendo sufficiente il solo pericolo di danno quali la maggiore difficoltà od il maggior dispendio per un’azione esecutiva, l'”eventus damni” non è escluso dalla presenza di una garanzia reale o personale che nel caso in esame, considerata la giovanissima età del minore, non poteva nemmeno considerarsi sufficiente.

Riaffermava la legittimazione passiva della Collection Papiri s.a.s.

in quanto, risultando tra gli atti impugnati anche quelli di cessione delle quote di partecipazione del P.M. in detta società, discendeva l’interesse della P.A. alla partecipazione al presente giudizio della società medesima per ottenere una pronuncia che facesse stato anche nei suoi confronti.

Quanto infine alle spese processuali relative alla domanda originariamente proposta dalla P.A. in proprio, escludeva che fosse da ravvisare una soccombenza di quest’ultima e che comunque avesse comportato al riguardo una specifica attività processuale, essendo stata la pretesa basata sugli stessi fatti posti a sostegno della domanda formulata nell’interesse del figlio. Riduceva però le spese processuali del giudizio di primo grado sul rilievo che il valore della causa si determina sulla base del credito per il quale si agisce in revocatoria e non già in relazione all’atto impugnato.

Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione, notificato a tutte le parti, P.M., deducendo nove motivi di censura.

Resiste con controricorso, illustrato anche con memoria, P. A..

Le altre parti – Pa.Ma., P.M., Interdesign s.r.l. e Papiri Collection s.a.s. – non hanno svolto alcuna attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso P.M. denuncia difetto di motivazione, lamentando che la Corte d’Appello abbia escluso che la mancata trascrizione nella sentenza del Tribunale delle conclusioni delle parti ne comporti la nullità sul rilievo che non si era verificata alcuna omissione di pronunce su domande ed eccezioni, senza considerare che sia il Tribunale che la stessa Corte d’Appello hanno omesso di pronunciarsi in ordine alla domanda avanzata dalla P.A. in proprio con l’atto di citazione.

La censura è infondata.

La giurisprudenza, da tempo, ha affermato il principio, ormai consolidato, che esclude come causa di nullità della sentenza l’omessa, incompleta od erronea trascrizione delle conclusioni delle parti e del P.M. nella sentenza medesima purchè risulti che il giudice ne abbia effettivamente tenuto conto.

A fronte di tale principio, richiamato dalla stessa Corte d’Appello, il ricorrente oppone che sia la sentenza impugnata in questa sede che quella del Tribunale avrebbero omesso ogni decisione in ordine alla domanda avanzata dalla P.A. in proprio con l’atto introduttivo del giudizio.

Ora, premesso che il problema della legittimazione in proprio della P.A. è più esattamente una questione di titolarità del diritto e quindi di merito, avrebbe dovuto il ricorrente, per consentire una valutazione sul punto e cioè per verificare se il Tribunale si fosse pronunciato sulla domanda avanzata in proprio dalla P.A. malgrado la mancata trascrizione in sentenza delle relative conclusioni, riportare nei loro esatti termini la motivazione ed il dispositivo in osservanza del principio di autosufficienza. Quanto invece alla sentenza della Corte d’Appello, anch’essa coinvolta con il presente motivo di ricorso, la questione non si pone ovviamente con riferimento alla mancata trascrizione delle conclusioni ma in relazione al problema nel suo contenuto. E ciò sarà oggetto di valutazione con l’esame del successivo motivo di ricorso.

Con il secondo motivo infatti il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99, 100 e 101 c.p.c.. Lamenta che la Corte d’Appello abbia qualificato la posizione della P.A. come parte appellata solo nella qualità di esercente la patria potestà sul minore malgrado entrambi gli appelli, poi riuniti, fossero stati proposti anche nei confronti della P.A. in proprio e che la stessa si fosse costituita in proprio. Deduce l’incongruenza al riguardo del riferimento della Corte d’Appello alla rinuncia operata dalla medesima e l’errore della stessa Corte la quale avrebbe dovuto, come richiesto, dichiarare l’infondatezza della domanda per difetto di legittimazione della P.A. in proprio con conseguenze sulle spese e considerare che il Tribunale ne aveva accolto la domanda proposta in proprio e dichiarato l’inefficacia nei suoi confronti degli atti di cessione.

Anche tale censura è infondata, sia pure sulla base di una diversa motivazione.

Va in primo luogo precisato che la domanda di revocazione originariamente formulata anche in proprio dalla P.A. e poi rinunciata dal difensore non era volta ad assicurare il soddisfacimento di un proprio diritto derivante dal giudizio di separazione in quanto a suo favore non erano stati emessi provvedimenti di carattere economico, ma di garantire, quale coniuge affidatario, l’esatto adempimento dell’assegno di mantenimento del figlio da parte del padre. Il coniuge affidatario infatti, così come può agire in proprio per la tutela di un tale interesse, allo stesso modo può avvalersi di tutti gli strumenti giuridici che l’ordinamento prevede per assicurarne il soddisfacimento, compresa l’azione revocatoria, finalizzata alla conservazione del patrimonio a tutela del creditore nel rispetto della garanzia offerta dall’art. 2740 c.c..

Orbene, in presenza di domande cumulative, come quelle proposte dalla P.A. – l’una in nome proprio per le esigenze del figlio minore e l’altra in nome e per conto del minore medesimo – ben può il difensore senza bisogno di una procura speciale rinunciare ad una delle due, rientrando una tale rinuncia nei poteri di autonoma gestione della lite a lui spettanti, del tutto distinta dalla rinuncia agli atti del giudizio che va espressa invece nelle forme previste dall’art. 306 c.p.c. e richiede l’accettazione della controparte.

A tale principio ha pienamente aderito, richiamandolo, la Corte d’Appello la quale però ha erroneamente rilevato che il Tribunale non si era pronunciato al riguardo, risultando invece dalla sentenza di primo grado, di cui è consentita la lettura in presenza del dedotto vizio di ordine processuale, che la pronuncia aveva riguardato l’attrice nella sua duplice veste (vedi dispositivo), anche se in motivazione nulla è stato effettivamente argomentato in ordine alla rinuncia di cui si discute.

Va però detto, come del resto risulta dal motivo di ricorso in esame, che nel giudizio di appello la P.A. è stata citata in giudizio sia in proprio che in nome del minore dal P. M., con la conseguenza che la stessa non avrebbe potuto che costituirsi in entrambe le vesti, come poi è avvenuto.

Tali anomalie, verificatesi del resto anche nel presente giudizio di legittimità, non comportano però le conseguenze cui fa riferimento il ricorrente, potendosi ritenere implicitamente assorbite e superate, anche sotto il profilo delle spese, dalla persistente validità della domanda di identico contenuto proposta in nome e per conto del minore e della cui possibile concorrente esistenza si è già argomentato.

In definitiva il procedimento, dopo la rinuncia (o meglio il ridimensionamento della iniziale domanda), è proseguito con la presenza della P.A. anche in detta seconda veste, ma tale irrituale situazione processuale, evidenziata dal ricorrente per ottenere una pronuncia favorevole sulle spese, almeno relativamente a tale rapporto, non comporta alcuna conseguenza del genere se si considerino, da una parte, la possibilità di una rinuncia nelle forme in cui è avvenuta nonchè la persistenza degli stessi temi oggetto del giudizio e, dall’altra, che la sua presenza anche nel prosieguo del giudizio in detta veste è dipesa unicamente dall’iniziativa dello stesso P.M..

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 3 e 4 nonchè dell’art. 164 c.p.c., comma 4. Sostiene che la Corte d’Appello non ha rilevato l’errore in cui era incorso il Tribunale nel non dichiarare la nullità della citazione sebbene mancante dell’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto e nonostante avesse richiamato l’art. 164 c.p.c. nella formulazione precedente alla novella di cui alla L. n. 353 del 1990. Deduce altresì, a conferma delle carenze riscontrabili nella citazione, che la parte espositiva riporta dal n. 1 al n. 7 l’identico contenuto del ricorso proposto poco prima ai sensi dell’art. 669 c.p.c. e segg., e della L. n. 898 del 1970, art. 8.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c., commi 4 e 6. Lamenta che la Corte d’Appello, al pari del Tribunale, abbia qualificato la domanda come azione revocatoria ex art. 2901 c.c., nonostante la mancata espressa citazione di tale norma e malgrado la P.A. avesse richiesto ed ottenuto dal giudice della separazione, ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 6, in base alla stessa motivazione adottata nel presente procedimento, il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato fino alla concorrenza della somma L. 300.000.000, ritenuta congrua, senza considerare che, in presenza di norme speciali quali quelle di cui all’art. 156 c.c., commi 4 e 6 deve escludersi la possibilità di richiedere in sede giudiziale la pronuncia di inefficacia degli atti di disposizione “inter vivos” che, oltre tutto, ha comportato l’impossibilità da parte sua di disporre di beni del valore di diversi milioni di euro per un lunghissimo periodo e cioè fino a quando il minore non raggiungerà la piena autosufficienza economica.

Gli esposti motivi di ricorso, in gran parte di carattere processuale, da esaminarsi congiuntamente per la parziale identità delle questioni trattate, sono infondate.

Il carattere di assoluta incertezza della domanda cui fa riferimento, per sancirne la nullità, l’art. 164 c.p.c., comma 4, in relazione alle ipotesi di cui al n. 3 (determinazione della cosa oggetto della domanda) ed al n. 4 (esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti la ragione della domanda) dell’art. 163 c.p.c., è stato categoricamente escluso dalla Corte d’Appello la quale ha sottolineato che l’atto introduttivo del giudizio conteneva tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari per l’individuazione della domanda ed in particolare che nelle conclusioni era stata richiesta l’inefficacia degli atti di disposizione del patrimonio compiuti dal P.M., dettagliatamente descritti nella parte espositiva con la loro collocazione temporale e con il riferimento alla collaborazione prestata dal fratello e dalla cognata per la realizzazione del suo intento fraudolento.

Nè rileva che la Corte d’Appello, come si deduce, non abbia considerato che il Tribunale avesse fatto riferimento, nel richiamare l’art. 164 c.p.c., alla sua precedente formulazione.

In primo luogo ciò non toglie che una motivazione sia stata fornita dalla sentenza di primo grado e che quindi devono escludersi le conseguenze di carattere processuale (nullità) che il ricorrente vorrebbe trarre sull’asserito presupposto della mancanza degli elementi di fatto e delle ragioni giuridiche che sostengono la decisione. Inoltre nessun rilievo può ormai assumere sul piano della sua correttezza, dovendosi la motivazione del Tribunale ritenere superata da quella, testè riportata, resa sul punto della Corte d’Appello in un ambito processuale, oltre tutto, non riconducibile in alcuna delle ipotesi previste dall’art. 354 c.p.c..

Quanto poi, in particolare, alla motivazione della Corte d’Appello, il ricorrente si limita sostanzialmente a censurare il convincimento espresso sulla “riconducibilità della domanda alla fattispecie di cui all’art. 2901 c.c.”, nonostante, si aggiunge, la mancata espressa citazione di tale norma nell’atto di citazione, dimenticando che la Corte d’Appello ha indicato la presenza in essa degli elementi necessari per la sua configurabilità e che l’espressa citazione della norma di legge non è di per sè decisiva.

Pure per quanto riguarda l’ulteriore problema della proponibilità dell’azione revocatoria anche dopo il disposto sequestro dei beni avvenuto ai sensi dell’art. 156 c.c., comma 6, la censura non merita accoglimento.

Se, in relazione ai beni sequestrati, la cessione deve considerarsi priva di efficacia, dovendo detti beni ritenersi mai usciti dal patrimonio del debitore con conseguente inutilità dell’azione revocatoria, relativamente agli altri che non hanno formato oggetto di sequestro e che nel frattempo sono stati ceduti, l’unico rimedio è costituito dall’esercizio dell’azione revocatoria. Nè è inutile ricordare, in linea di principio, che a tale azione potrebbe aggiungersi anche il sequestro conservativo ai sensi dell’art. 2905 c.c., comma 2, la cui previsione – anche se si è in presenza di un istituto diverso da quello previsto dall’art. 156 c.c. disposto in sede di separazione in quanto non è, a differenza del primo, un provvedimento cautelare presupponendo un credito già dichiarato, sia pure in via provvisoria, e richiede l’inadempimento del debitore e non già il semplice “periculum in mora” – è comunque significativa circa la possibile coesistenza dei due istituti.

Peraltro, nel caso in esame, con un apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, la Corte d’Appello ha confermato l’assunto del Tribunale il quale aveva ritenuto che l’importo di L. 300 milioni, per il quale era stato autorizzato il sequestro, avrebbe potuto rivelarsi non congruo ed ha, conseguentemente, con l’accoglimento dell’azione revocatoria, ampliato l’ambito di indisponibilità dei beni da parte del debitore. Trattasi indubbiamente di un ulteriore motivo, questa volta anche di merito, per giustificare il ricorso ad entrambi gli istituti nella stessa fattispecie.

Infine è appena il caso di evidenziare la contraddittorietà dell’assunto contenuto nella ultima parte del quarto motivo laddove il ricorrente lamenta l’impossibilità da parte sua, a seguito dell’accoglimento dell’azione revocatoria, di disporre di beni del valore di diversi milioni.

Trattasi infatti certamente di una considerazione inconciliabile con l’affermazione circa l’effettiva veridicità delle cessioni, almeno per quelle effettuate personalmente al fratello ed alla cognata, in ordine alle quali, a differenza delle cessioni operate a favore delle società da lui amministrate, si determina la perdita di ogni suo diritto al riguardo.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ancora violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2901 c.c.. Sostiene che la P. A., avendo ottenuto già il sequestro di beni del marito da parte del giudice della separazione, non avrebbe potuto ottenere anche la richiesta declaratoria di inefficacia delle cessioni sia perchè aveva ormai prestato acquiescenza alla decisione che detto sequestro aveva disposto e sia perchè, in presenza di una tale misura, doveva considerarsi ormai venuto meno l'”eventus damni” anche per la mancanza di un obiettivo elemento di prova al riguardo; prova che era mancata anche in ordine alla presenza del “consilium fraudis”, vale a dire alla consapevolezza d parte sua di pregiudicar le ragioni del creditore. Deduce ancora che la Corte d’Appello non aveva fornito alcuna motivazione nemmeno in ordine alla conoscenza da parte dei beneficiari della sua volontà di creare le condizioni della propria insolvenza.

L’esposto motivo di ricorso è infondato.

La prima parte si esaurisce in una ripetizione di quanto già dedotto con il motivo precedente in ordine all’asserita impossibilità da parte della P.A. di avvalersi sia dell’istituto del sequestro dei beni che dell’azione revocatoria. Al riguardo quindi non v’è ragione di soffermarsi.

La seconda parte riguarda i presupposti dell’azione revocatoria, costituiti dall'”eventus damni” e dal “consilium fraudis” di cui si sostiene l’inesistenza.

Orbene, in primo luogo va rilevato che l’accertamento in ordine alla presenza di tali presupposti è frutto di una valutazione di merito e sfugge pertanto al sindacato di legittimità se sorretta da una motivazione adeguata ed immune da vizi logici.

Al riguardo, sotto il profilo del requisito dell'”eventus damni”, la Corte d’Appello ha sottolineato la molteplicità e la consistenza economica delle cessioni effettuate e la loro idoneità a rendere incerta la realizzazione del credito in mancanza di elementi, il cui onere probatorio incombeva al P. (Cass. 11471/03), in grado di evidenziare l’insussistenza di un tale rischio.

Relativamente al presupposto soggettivo del “consilium fraudis”, ha evidenziato i rapporti di parentela esistenti fra il P. M. ed i cessionari di alcune quote di partecipazione sulle sue due società, Pa.Ma. e P.M.Y.R., rispettivamente fratello e cognata nonchè la sua qualità di amministratore di dette società, cessionarie della maggior parte dei beni ceduti (interdesign s.r.l.), desumendone la sicura conoscenza degli stessi dell’esistenza del debito nei confronti del figlio e del pregiudizio che detti atti arrecavano alle ragioni creditorie di quest’ultimo.

Trattasi all’evidenza di una motivazione del tutto immune da vizi di motivazione o da errori giuridici e che resiste anche all’ulteriore deduzione, secondo cui il presupposto oggettivo dell'”eventus damni” sarebbe venuto meno in presenza del già disposto sequestro, avendo al riguardo la Corte d’Appello, come già evidenziato in relazione al precedente motivo, rilevato l’insufficienza dell’importo per il quale era stato ottenuto il provvedimento di sequestro.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a tutti i punti già censurati con i precedenti motivi di ricorso. Dopo aver riportato ampi stralci della sentenza di primo grado sottolineandone l’assoluta incomprensibilità, ribadisce l’erroneità della decisione della Corte d’Appello che non ha ravvisato sotto tale profilo motivi di nullità di detta sentenza.

Anche tale censura è infondata, risolvendosi nella ripetizione di quanto già dedotto con il terzo ed il quarto motivo sulla supposta incomprensibilità della sentenza di primo grado, con la conseguenza che non rimane che riportarsi a quanto già rilevato al riguardo.

Con il settimo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto (sic), sostenendo che la P. A., non avendo alcun diritto all’assegno in proprio a seguito della rinuncia, non poteva avanzare legittimamente la domanda per il minore il quale non vanta in proprio alcun credito nei confronti del padre per essere il diritto alla corresponsione dell’assegno per contributo di mantenimento di esclusiva competenza del coniuge affidatario.

Con l’ottavo motivo denuncia ancora difetto di motivazione in ordine all’eccezione relativa alla mancanza di legittimazione attiva della P.A. in proprio.

Il ricorrente sembra sostenere con le due esposte censure di carattere sostanzialmente identico la tesi, tanto ardita quanto infondata, secondo cui, da una parte, la rinuncia della P. A. alla domanda proposta in proprio comporta la preclusione della medesima domanda avanzata in nome del minore e, dall’altra, che questi non vanta alcun diritto di credito nei confronti del padre.

Si è già rilevato infatti che il coniuge affidatario può agire, per ottenere il soddisfacimento del diritto di credito del figlio minore o per assicurare a tal fine la conservazione del patrimonio, sia in proprio, in quanto soggetto che provvede materialmente alle sue esigenze, e sia in nome del figlio medesimo e che il venir meno della prima domanda, proposta cumulativamente alla seconda, non fa venir meno la sua legittimazione sotto il secondo profilo.

Quanto poi all’ulteriore deduzione circa l’impossibilità per il minore di vantare in proprio alcun diritto di credito nei confronti del padre, la questione risulta assorbita dal legittimo esercizio dell’azione da parte della madre, come più volte è stato sottolineato.

Non può pertanto che ribadirsi la correttezza della decisione della Corte d’Appello.

Con il nono motivo infine deduce la nullità della sentenza del Tribunale per mancanza e/o insufficiente motivazione nei termini indicati nei motivi settimo ed ottavo che precedono.

Il motivo di ricorso in esame non costituisce una vera e propria censura, risolvendosi nel richiamo dei due precedenti motivi sotto il profilo del difetto di motivazione, senza però l’apporto di alcuna considerazione.

Una tale estrema genericità non può che comportare l’inammissibilità del motivo di ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo relativamente al rapporto fra P.M. e P. A., mentre vanno dichiarate non ripetibili nei confronti delle altre parti che non hanno svolto alcuna attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al rapporto fra P.M. e P. A. che liquida in Euro 7.000,00 per onorario ed in Euro 200,00 per spese oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge. Dichiara non ripetibili le spese nei confronti delle altre parti. Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza vengano omesse le generalità e gli altri dati identificativi ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2010

 

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