Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6865 del 02/03/2022

Cassazione civile sez. I, 02/03/2022, (ud. 23/02/2022, dep. 02/03/2022), n.6865

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11638/2016 r.g. proposto da:

G.G., e GA.AN.MA., in proprio e quali soci

legali rappresentanti della (OMISSIS) S.N.C. (OMISSIS), con sede in

(OMISSIS), tutti rappresentati e difesi, giusta procura speciale

apposta a margine del ricorso, dall’Avvocato Andrea Codemo, e

dall’Avvocato Prof. Giuseppe Marini, con i quali elettivamente

domiciliano presso lo studio di quest’ultimo in Roma, alla Via Monti

Parioli n. 48.

– ricorrenti –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) S.N.C. (OMISSIS), in persona del curatore

Dott.ssa D.C.; O.V.; P.C.

– intimati –

avverso la sentenza, n. cron. 756/2016, della CORTE DI APPELLO DI

VENEZIA del 31/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

giorno 23/02/2022 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.G. ed Ga.An.Ma., in proprio e quali soci legali rappresentanti della (OMISSIS) s.n.c. (OMISSIS), ricorrono per cassazione, affidandosi a cinque motivi, contro la sentenza della Corte di appello di Venezia del 31 marzo 2016, n. 756, reiettiva del reclamo da essi promosso, L. Fall., ex art. 18, avverso la dichiarazione del proprio fallimento pronunciata dal Tribunale di Treviso, il 6 luglio 2015, su istanza di P.C. ed O.V.. Queste ultime ed il fallimento sono rimasti solo intimati.

1.1. Per quanto qui di interesse, quella corte, nel disattendere il motivo di reclamo della menzionata società volto ad affermare la sussistenza, nei tre esercizi precedenti il deposito dell’istanza di fallimento, dei requisiti, di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, per andare esente dal fallimento, ha così opinato: “Stante l’insufficienza degli elementi disponibili, la Corte ha disposto l’acquisizione della relazione L. Fall., ex art. 33, del curatore fallimentare, dall’esame della quale risulta, invece, che l’attivo patrimoniale ha superato il limite di Euro 300.000 nell’esercizio 2013. Infatti, a pag. 13 e ss. della relazione, risulta testualmente: “… I dati patrimoniali sono esposti per gli anni dal 2010 al 2013 e sono riclassificati secondo lo schema civilistico. I dati 2014 e 2015, per quanto sopra detto, non sono disponibili.% Non è contestato che la riclassificazione dei dati secondo lo schema civilistico, la cui fonte dichiarata sono i libri inventari e le situazioni contabili, necessaria all’applicazione della norma in esame, sia stata correttamente seguita e da essa risulta, alla voce ATTIVO PATRIMONIALE per l’esercizio al 31.12.2013, (la) somma di 335.547 Euro”. All’udienza odierna, in sede di discussione, i ricorrenti hanno sostenuto che il dato in esame andrebbe ridotto ad Euro 188.142, in quanto la somma di Euro 146.914 corrisponde a prelievi dei soci e pertanto, trattandosi di società di persone, la posta non dovrebbe essere considerata un credito vero e proprio della società. In subordine, si obietta che il credito andrebbe completamente svalutato perché i debitori, cioè i soci, risultano del tutto impossidenti. Gli argomenti non sono condivisibili. Va premesso che non è contestato il prelievo dei soci in conto anticipazione utili. Il principio generale per cui le società di persone sono dotate di autonomia patrimoniale, il loro patrimonio è distinto da quello dei soci ed è destinato al conseguimento dell’oggetto sociale e all’adempimento delle obbligazioni contratte per la società, non subisce alcuna deroga in sede di applicazione dei criteri di cui alla L. Fall., art. 1. Non vi è confusione fra patrimonio della società e patrimonio dei soci, né fra debiti sociali e loro debiti personali. I prelievi dei soci dal patrimonio sociale costituiscono altrettanti crediti della società, regolarmente risultanti dalle scritture contabili. Le somme relative ai prelievi erano liquidità presente nelle casse sociali e vanno a costituire l’attivo patrimoniale del relativo esercizio. Infine, è del tutto fuorviante la pretesa che detti crediti debbano essere svalutati ora per allora in relazione alla asserita incapienza dei soci che non sarebbero in grado di restituirli perché questo assunto attiene, semmai, alla determinazione dell’attivo acquisito/acquisibile alla massa fallimentare ed alla convenienza delle azioni che la procedura potrebbe intraprendere. Questo piano non va confuso con la quantificazione del patrimonio attivo della società che va determinato all’epoca del relativo bilancio di esercizio secondo i principi contabili a cui fanno riferimento gli art. 2426 c.c. e segg.. Tanto (sia) in conformità al tenore testuale della L. Fall., art. 1 – “… attivo patrimoniale del valore complessivo annuo inferiore ad Euro 300.000″ – che in conformità a quanto costantemente ritenuto dalla giurisprudenza (Cass. Civ. 47382012, 27088/2011)”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso denunciano, rispettivamente:

I) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e/o falsa applicazione della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), in combinato disposto con gli artt. 2217 e 2424 c.c.. Insussistenza dei presupposti per la declaratoria di fallimento”. Si assume che: i) “E’ evidente che il giudicante, formalisticamente ancorandosi all’asettico dato letterale della norma secondo l’attuale formulazione della L. Fall., art. 1, comma 2, ha in mente l’autonomia patrimoniale perfetta tipica delle società di capitali, mentre non tiene in alcun conto né del fatto che nelle società di persone non esiste una pari perfezione, né – fatto certamente più rilevante – che, nel caso di imprese di modestissima entità (normalmente nemmeno soggette a redazione del bilancio in forma ordinaria), il valore dell’attivo patrimoniale va letto in modo sostanzialistico, cioè valutando – salvo il caso di falsità dei bilanci – la consistenza effettiva dell’attività imprenditoriale al fine di correttamente apprezzare la realtà economica dell’impresa”; ii) “nel caso di specie esiste un conto “Soci c/prelevamenti” che, tra il 2012 ed il 2013, varia di “ben” 1.000,00 (Euro) e che non riguarda neppure un valore relativo al periodo, ma viene riportato dagli anni precedenti in modo sostanzialmente uniforme. Di più, sia nel periodo 2012-2013 che per gli anni immediatamente precedenti, tale conto costituisce addirittura la voce prevalente dell’attivo patrimoniale”; iii) “in ben due occasioni (…), il Curatore ha rimarcato che tale posta non va considerata come credito vero e proprio e ciò non perché non è esigibile, ma proprio perché il credito non esiste nella realtà ed, in ogni caso, perché distorce l’unico valore che la norma di cui alla L. Fall., art. 1, vuole venga presa in considerazione: l’effettiva consistenza economica dell’attività imprenditoriale”; iv) la corretta lettura degli artt. 2424,2425 e 2217 c.c., “passa attraverso l’attenta osservazione del fatto che lo scopo della riforma (della Legge Fallimentare) non è stato quello di fissare “semplicemente” una soglia minima di natura contabile, ma di individuare un criterio economico concreto per la valutazione delle effettive dimensioni dell’impresa, operando una verifica che tenga conto dell’effettivo attivo patrimoniale quale espressione della reale dimensione dell’impresa: il che esclude, per ragioni facilmente intuibili, ogni valore ad un dato di per se stesso indifferente rispetto alle dimensioni dell’impresa-società di persone”; v) l’errore in cui è incorsa la corte distrettuale “e’ l’aver apoditticamente assunto che l’attivo patrimoniale fosse pari ad Euro 227.414,00 per il 2012 e ad Euro 335.556,00 per il 2013, con ciò concludendo per la fallibilità della società per aver “sforato” il tetto dei 300.000,00 Euro di attivo patrimoniale nell’anno 2013″;

II) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2426 c.c., rispetto ai requisiti di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), determinati alla luce degli artt. 2217 e 2424 c.c. letti in conformità dell’O.I.C. 15: Insussistenza dei presupposti per la declaratoria di fallimento sotto un diverso profilo”. Si contesta alla corte lagunare di avere “erroneamente ritenuto che i ricorrenti stessero invocando l’OIC 15 al fine di “ridimensionare” il debito”, laddove, invece, quel principio contabile “e’ stato insistentemente richiamato in tale sede non per “correggere” i dati di bilancio, ma per dare una esatta chiave di lettura al fine di individuare il giusto criterio per definire l’attivo patrimoniale al 2012 ed al 2013. Il criterio de quo contribuisce a dare conferma del fatto che, seppure esposta, la posta “Soci c/prelevamenti” non va tenuta in alcuna considerazione, tanto più se utilizzata al fine di individuare la reale dimensione dell’impresa”.

2. Tali doglianze, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connesse, si rivelano complessivamente insuscettibili di accoglimento.

2.1. Invero, la voce patrimoniale relativa al prelevamento dei soci, ove riscontrata nei bilanci delle società di persone, trova giustificazione, essenzialmente: a) nel carattere personale del rapporto che lega il singolo socio alla società; b) nelle minori formalità cui sono soggette questo tipo di società rispetto a quelle di capitali.

2.2. Nell’operatività attuale, poi, non sono infrequenti le prassi intese a qualificare i prelievi dalla cassa sociale da parte dei soci, seppur riferiti ad esercizi ancora in corso, nei termini di “percezione di utili”; ed altresì a ritenere le attribuzioni patrimoniali, che questi prelievi producono, come senz’altro definitive e quindi intangibili: all’unica condizione che consti il previo consenso di tutti i soci.

2.2.1. Tale valutazione – così si afferma in letteratura – trae elemento di decisivo supporto nella sentenza emessa da questa Corte in data 9 luglio 2003, n. 10786 (non massimata). Questa pronuncia ha ritenuto, in particolare, che “quanto alla possibilità, in una società in nome collettivo, di imputare dei pagamenti a utili sociali di competenza del periodo in corso, ancor prima del rendiconto, essa è consentita dall’art. 2262 c.c.. Questa norma, infatti, nel subordinare la distribuzione degli utili all’approvazione del rendiconto, ammette espressamente il patto contrario”.

2.2.2. Per la verità, tale pronuncia ha, in sé stessa, un orizzonte alquanto circoscritto, posto che risulta fermata sul punto rappresentato dalla possibilità di imputare un trasferimento di somme a versamento di utili. Rappresenterebbe una forzatura, pertanto, attribuirle il senso di ritenere la definitività ed intangibilità dell’attribuzione patrimoniale così posta in essere (e non già quello – comunque non privo di significato – di ammettere un’attribuzione “provvisoria” e condizionata al riscontro dell’effettiva sussistenza degli utili di periodo).

2.3. In ogni caso, i contenuti espressi da tale decisione sono stati superati dalla (successiva) evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha appunto affermato che “nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., all’approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio” (cfr. Cass. n. 28806 del 2013; Cass. n. 17489 del 2018; nella medesima direzione si può già vedere, peraltro, Cass. n. 1240 del 1996).

2.3.1. Vero è che questi arresti non si sono occupati in modo diretto di una eventuale “derogabilità pattizia” del principio così enunciato. Non pare dubbio, tuttavia, che esse muovano propriamente dal presupposto della imperatività della regola per cui “non può farsi luogo a ripartizione di somme fra soci, se non per utili realmente conseguiti” (secondo quanto prescrive in modo espresso, per le società in nome collettivo, quale e’, nella specie, la (OMISSIS) s.n.c. (OMISSIS), l’art. 2303 c.c.). Come viene a rimarcare la notazione (svolta da Cass., n. 17489 del 2018) secondo cui la distribuzione di utili, che non siano effettivamente conseguiti, è fenomeno che tende, per sua propria natura, a produrre un “rimborso mascherato dei conferimenti”.

2.4. Non si può in ogni caso trascurare, nell’indicata direzione, che la richiamata regola risulta presidiata da un’apposita sanzione penale nei confronti degli amministratori, che “ripartiscono utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti” (art. 2627 c.c.).

2.5. Ne’, poi, si rivela d’ostacolo ad una simile lettura la circostanza che la norma dell’art. 2262 c.c. – nel dichiarare il diritto del socio a percepire la “sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto” – fa salvo il “patto contrario”. Che questa possibilità si mostra riferita, secondo la piana lettura del testo normativo, alla possibilità di “limitare”, non già di “espandere”, il diritto del socio alla percezione degli utili di periodo; e così, in specie, alla possibilità che lo statuto sociale venga a subordinare – durante la vita della società – la distribuzione degli utili al consenso della maggioranza dei soci.

2.6. Nel sistema in oggi vigente, gli utili di periodo si formano in relazione all’esito dei singoli esercizi sociali, secondo quanto dispone la norma generale dell’art. 2217 c.c.. Le società di persone non conoscono, d’altra parte, la possibilità di distribuire degli acconti sui dividendi, secondo quanto si ricava (se non altro) dalla norma dell’art. 2433-bis c.c..

2.6.1. Dal testo delle norme dell’art. 2433 c.c., comma 4 e art. 2433-bis c.c., comma 7, si ricava agevolmente, inoltre, che la distribuzione di utili non effettivamente conseguiti configura un’ipotesi di indebito oggettivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2033 c.c..

2.6.2. Da tutto ciò deriva che il prelievo di somme dalle casse sociali da parte dei soci – che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti dalla società (circostanza in relazione alla quale nulla specificano gli odierni ricorrenti) – comporta senz’altro il sorgere del diritto della società di ripetere le somme, che sono state concretamente distribuite, nei confronti di ciascun socio che le abbia fatte proprie.

2.6.3. Nel rispetto di queste condizioni, la voce di bilancio (“prelevamento soci”) in questione viene a rappresentare una posta non fittizia, bensì effettiva e, come tale, idonea a formare l’attivo patrimoniale della società in relazione alla norma della L. Fall., art. 1, comma 2.

2.6.4. Deve concludersi, allora, che, come recentemente stabilito da Cass. n. 979 del 2021, concorrono a formare l’attivo patrimoniale che viene preso in considerazione dalla norma della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), i prelievi di somme dalla cassa sociale da parte dei soci di una società in nome collettivo, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, atteso che le somme così percepite sono soggette ad azione di ripetizione di indebito da parte della società.

2.7. Infine, laddove viene fatto riferimento a documentazione contabile (del 2013) e ad asserite affermazioni del curatore (cfr. pag. 6 del ricorso), le censure in esame obliterano totalmente che, “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (cfr. Cass., SU, n. 34469 del 2019; Cass. n. 18695 del 2021).

3. Il terzo motivo di ricorso è rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione: errata supposizione dell’esistenza del presupposto di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a)”. Richiamandosi le argomentazioni già esposte nei motivi precedenti, si insiste nell’affermare che “la consistenza dell’attivo patrimoniale rilevante ai fini di cui alla L. Fall., art. 1, non è quella individuata dal Collegio giudicante”, atteso che “come già osservato, il valore di bilancio utile al fine di determinare l’attivo patrimoniale per gli anni 2012 e 2013 è rispettivamente pari ad Euro 81.900,00 per il 2012 e ad Euro 188.642 per il 2013. Il giudice ha errato nel prendere in considerazione anche la posta “Soci c/prelevamenti”, giacché, come è pacifico tra le parti del giudizio, di tale posta non deve essere tenuta alcuna considerazione al fine l’effettiva consistenza dell’attivo di bilancio”.

3.1. Questa doglianza – ancor prima che infondata, avendo la corte specificamente esaminato il tema – è inammissibile, atteso che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo “novellato” dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis risultando impugnata una sentenza pubblicata il 31 marzo 2016), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico e da prospettarsi nel rispetto dei puntuali oneri di allegazione sanciti da Cass., SU, n. 8054 del 2014. Esso, dunque, non ricomprende questioni o argomentazioni (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché sono inammissibili le censure che, come nella specie, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, pure nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 4477 del 2021; Cass. n. 395 del 2021, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

4. Il quarto ed il quinto motivo, infine, denunciano, rispettivamente:

IV) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e/o falsa applicazione della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), e degli artt. 2217 e 2424 c.c., in combinato disposto con i principi CEDU e della Carta dei Diritti Fondamentali UE. Insussistenza dei presupposti per la declaratoria di fallimento”. Si richiamano le medesime argomentazioni di cui ai motivi precedenti al fine di affermare che “dichiarare che la prova già “nelle mani” della Corte d’Appello non può essere presa in considerazione costituisce palese violazione degli artt. 6 e 17, CEDU e dell’art. 47 della Carta Dei Diritti Fondamentali UE, in uno con la L. Fall., art. 1. Si tenga conto che, trattandosi di una società in nome collettivo, con la società sono falliti anche i suoi due soci. Essendo agli atti del giudizio d’opposizione la prova piena del fatto che non sussistono i presupposti per la fallibilità ed avendo il Collegio giudicante avuto tale documentazione nella propria diretta disponibilità prima di pronunciarsi, appare evidente che la procedura ed il conseguente provvedimento definitorio sono gravemente viziati per eccesso di formalismo (…) dal momento che: 1. è agli atti la prova dell’insussistenza dei presupposti; 2. la stessa è confermata in atti dalla stessa curatela che è rimasta estranea al giudizio ma non inerte, ha confermato l’assenza di presupposti (…). Invero, anche senza guardare i bilanci e/o la contabilità, la mera lettura della relazione L. Fall., ex art. 33, risolve ogni dubbio. Nulla, dunque, avrebbe potuto o dovuto impedire al Collegio di giudicare sostanzialmente fondate le doglianze formulate dalla società ricorrente”;

V) “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Violazione degli artt. 6 e 13 CEDU e dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali UE proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000”. Si ripropongono, sotto il diverso profilo procedurale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, le identiche argomentazioni esposte nel quarto motivo.

4.1. Tali doglianze, scrutinabili congiuntamente perché connesse, si rivelano complessivamente inammissibili.

4.1.1. Richiamate, infatti, le considerazioni tutte già poste a fondamento del mancato accoglimento dei primi due motivi, è qui sufficiente rimarcare, esclusivamente, che le descritte censure, peraltro estremamente generiche, sono volte sostanzialmente a contestare la ricostruzione, evidentemente di carattere fattuale e qui non ulteriormente sindacabile, con cui la corte distrettuale ha ritenuto insussistenti (con particolare riguardo all’attivo patrimoniale del 2013) i requisiti di non fallibilità, L. Fall., ex art. 1, comma 2, invocati dalla (OMISSIS) s.n.c. (OMISSIS), sicché le critiche ivi sviluppate investono il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, dello specifico requisito predetto), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 596 del 2022; Cass. n. 2959 del 2021; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017, Cass. n. 2959 del 2021 e Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 596 del 2022).

5. Il ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il fallimento e le creditrici istanti rimasti solo intimati, dandosi atto altresì – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022

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