Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 685 del 15/01/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/01/2020, (ud. 18/09/2019, dep. 15/01/2020), n.685

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5218-2019 proposto da:

P.F., P.R., P.A., M.V.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GREGORIO VII 466, presso lo

studio dell’avvocato GIUSEPPE SALVATORE COSSA, che li rappresenta e

difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

01/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/09/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

M.V., quale ex socio della M. & C. di M.V. S.n.c., nonchè P.A., P.F. e P.R., quali eredi dell’altro socio, P.V., in data 24/2/2017 ricorrevano alla Corte d’Appello di Roma per conseguire l’quo indennizzo derivate dalla durata irragionevole di un processo civile nel quale la società aveva agito per conseguire il pagamento della somma di Lire 6.220.000 da D.L., quale corrispettivo per interventi di falegnameria eseguiti su richiesta della convenuta.

Aggiungevano che il giudizio presupposto, iniziato in prime cure con citazione del 13/12/1994, era stato definito in Tribunale con sentenza favorevole alla società del 26/10/2004, e che il giudizio di appello proposto dalla controparte, a seguito di interruzione per morte del P., era stato dichiarato estinto per intempestiva riassunzione proprio su istanza della società appellata, con sentenza del 13/7/2016.

Nel ricorso introduttivo evidenziavano altresì che la liquidazione della società era iniziata subito dopo la notifica dell’atto introduttivo del giudizio presupposto, ma che per addivenire alla cancellazione era stato necessario attendere la definizione della causa.

Poste tali premesse/ M.V. e le eredi dell’altro socio defunto, istavano per il riconoscimento dell’equo indennizzo maturato in favore della società.

Il Consigliere delegato della Corte d’Appello di Roma con decreto del 26/9/2017 rigettava la domanda rilevando che alla fattispecie era applicabile la previsione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett. c), che fa presumere l’insussistenza del pregiudizio da durata irragionevole del processo nel caso in cui la causa sia stata dichiarata estinta, come avvenuto nella fattispecie.

A seguito di opposizione delle parti ricorrenti, la Corte d’Appello di Roma con decreto n. 3604 del 1/8/2018 ha respinto l’opposizione ritenendo che, anche a voler prendere in esame la deduzione difensiva degli opponenti, secondo cui l’estinzione in appello era stata sollecitata al fine di assicurare la formazione del giudicato sulla pronuncia di primo grado, non poteva reputarsi vinta la presunzione di mancanza di danno per il caso di estinzione del processo.

Inoltre, specificava che “deve rilevarsi che la cancellazione volontaria dal registro delle società antecedente all’esercizio dell’azione comporta come effetto la rinuncia al credito indennitario (cfr. doc 8 di parte e Cass. 6072/2013).”

Per la cassazione di tale decreto propongono ricorso le originarie parti ricorrenti sulla base di tre motivi, illustrati anche da memorie.

L’Amministrazione non ha svolto difese in questa fase.

Il ricorso deve essere rigettato.

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, lett. c), in quanto la prova idonea a vincere la presunzione posta da tale norma era offerta dall’evidente interesse della società a far dichiarare l’estinzione del processo di appello con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado a sè favorevole.

Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 bis, in quanto, anche a voler reputare applicabile la norma di cui al primo motivo, i giudici di merito avrebbero comunque dovuto riconoscere l’indennizzo per la durata irragionevole del processo di primo grado.

Il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4, alla luce dell’intervento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza n. 88/2018 che, nel ripristinare la possibilità di agire per la liquidazione dell’equo indennizzo, anche in pendenza del giudizio presupposto, giustifica la tesi della necessità di valutare autonomamente l’esistenza del danno per ogni singolo grado, rendendo quindi irrilevante l’avvenuta estinzione in appello.

Reputa innanzi tutto il Collegio che la lettura del primo motivo, sebbene non contenga un espresso riferimento in rubrica anche alla contestazione della ratio decidendi relativa agli effetti sulla domanda de qua dell’intervenuta cancellazione della società parte del giudizio presupposto, consenta in ogni caso di ritenere attinta dalla censura anche la motivazione del giudice di merito in tale parte, e che pertanto non possa reputarsi, come invece opinato nella proposta del consigliere relatore comunicata alle parti, che il ricorso sarebbe inammissibile per difetto di impugnazione di una delle due autonome rationes decidendi che sorreggono la decisione gravata.

Rileva a tal fine che la Corte d’Appello, oltre a condividere la valutazione già espressa da parte del Consigliere delegato, circa l’applicabilità alla fattispecie della presunzione di insussistenza del danno di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 sexies, attesa l’avvenuta estinzione del giudizio di appello, hanno altresì richiamato il principio secondo cui la cancellazione volontaria dal registro delle società in epoca anteriore all’esercizio dell’azione implica rinuncia al credito indennitario.

Trattasi, evidentemente di un’autonoma giustificazione del rigetto della pretesa indennitaria la cui correttezza in punto di diritto non è in alcun modo inficiata dal motivo di ricorso.

Infatti, nella succinta esposizione del primo motivo di ricorso si afferma che non rileverebbe ai fini del disconoscimento del diritto all’indennizzo l’avvenuta cancellazione della società, trattandosi di una società di artigiani disciolta per il raggiungimento dell’età pensionabile da parte dei soci, ai quali deve quindi ritenersi trasferito anche il credito de quo, ma trattasi di affermazione che, oltre a non essere corredata da una specifica censura alle norme in tema di cancellazione della società e di vicende successorie in favore dei soci, non si perita minimamente di confrontarsi con i principi reiteratamente affermati da questa Corte, e ribaditi a partire da Cass. S.U. n. 6072/2013, alla quale pur fanno richiamo i giudici di merito.

Con tale sentenza, chiamata a risolvere la questione relativa alla sorte dei rapporti facenti capo alla società in caso di estinzione conseguente alla cancellazione dal registro delle società, in una controversia che verteva proprio in tema di diritto all’equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001, le Sezioni Unite hanno affermato che la società che, parte in un giudizio di durata irragionevole, volontariamente si cancelli dal registro delle imprese, senza aver agito per l’accertamento e la liquidazione del diritto all’equo indennizzo, tacitamente rinuncia al diritto medesimo, sicchè i soci non succedono alla società estinta nella titolarità del credito indennitario.

A tale sentenza hanno mostrato di conformarsi anche numerosi precedenti di questa Corte, che sebbene non riferiti specificamente al credito indennitario oggetto di causa, hanno confermato che l’estinzione di una società di persone conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese determina un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale sono trasferiti ai soci esclusivamente le obbligazioni ancora inadempiute ed i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione, con esclusione, invece, delle mere pretese, ancorchè azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell’accertamento giudiziale non concluso, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente, quindi, di ritenere che la società vi abbia implicitamente rinunciato, con la conseguenza che gli ex soci non hanno la legittimazione a farli valere in giudizio (Cass. n. 23269/2016; Cass. n. 19302/2018; Cass. n. 15782/2016 che estende il principio anche al caso di cancellazione intervenuta allorquando risultava già proposto il giudizio risarcitorio da parte della società poi estinta escludendo la successione dei soci).

Considerato che nella fattispecie, per ammissione degli stessi ricorrenti, la cancellazione della società è avvenuta in epoca anteriore alla stessa presentazione del ricorso di cui alla L. n. 89 del 2001, il principio del quale ha fatto applicazione il giudice di merito, che impone di ritenere rinunciata da parte della società con la cancellazione anche il relativo credito indennitario risulta corrispondente a quello applicato in sede di legittimità e le scarne considerazioni dei ricorrenti, incidentalmente contenute nel corpo del primo motivo, non denotano l’esistenza di elementi che possano portare a mutare la giurisprudenza di questa Corte, il che determina l’inammissibilità della censura ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1.

Il rigetto dell’impugnazione concernente una delle due rationes decidendi, come detto ognuna autonomamente in grado di supportare la correttezza della decisione impugnata, implica l’inammissibilità dei motivi nella parte in cui investono l’altra ratio, relativa all’intervenuta estinzione del giudizio presupposto, in quanto va richiamato il costante orientamernto di questa Corte secondo cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (Cass. n. 12372/2006; Cass. n. 2108/2012; Cass. n. 11493/2018).

Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.

Ancorchè il ricorso sia stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, e sia dichiarato inammissibile, non sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, trattandosi di procedimento esente dal versamento del detto contributo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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