Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 685 del 15/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 685 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: BANDINI GIANFRANCO

SENTENZA

sul ricorso 22319-2010 proposto da:
SPOGNETTA ADELMO C.F. SPGDLM46H21D124F, domiciliato in
ROMA, VIA Eni DEI BANCHI VECCHI 58, presso lo studio
dell’avvocato FRATTALI CLEMENTI MASSIMO, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato
$.

CERCHIARA MAURIZIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
3145

contro

REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCANTONIO
COLONNA 27, presso lo studio dell’avvocato COLLACCIANI

Data pubblicazione: 15/01/2014

.

ANNA MARIA, che la rappresenta e difende giusta delega
in atti;
– controri corrente –

avverso la sentenza n. 8025/2008 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 13/10/2009 r.g.n. 10562/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza

del

06/11/2013

dal

Consigliere

Dott.

GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato CERCHIARA MAURIZIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza dell’11.11.2008-13.10.2009, la Corte d’Appello di

confronti della Regione Lazio, avverso la pronuncia di prime cure,
che aveva disatteso la sua domanda diretta ad ottenere
l’inquadramento come dirigente, in applicazione dell’art. 22, comma
8, legge Regione Lazio n. 25/96, sin dal suo passaggio alla Regione,
avvenuto al momento della soppressione del Consorzio di Bonifica
Montana del Velino, di cui era stato dipendente come impiegato di
concetto con funzioni direttive (VII fascia funzionale).
A sostegno del decisum la Corte territoriale, per ciò che ancora qui
rileva, osservò quanto segue:
– in difetto di un principio generale di parità di trattamento, doveva
ritenersi che il legislatore regionale avesse inteso sanare situazioni
più risalenti nel tempo, avendo fatto riferimento ad immissioni di
personale già in forza presso la Regione Lazio da più tempo rispetto
all’appellante e con situazioni di inquadramento disomogenee
rispetto a quella posseduta in origine; tale oggettiva situazione
portava ad escludere ogni profilo di illegittimità della legge in
questione, sia per l’evidente ragionevolezza della scelta legislativa,
sia per le concrete diversità di situazioni lavorative tra dipendenti
immessi da consorzi diversi, in tempi diversi, e con momenti di
immissione nei ruoli regionali differenti da quello dell’appellante;

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Roma ha rigettato il gravame proposto da Spognetta Adelmo, nei

– le stesse ragioni escludenti una diseguaglianza sostanziale
portavano a superare anche il paventato profilo di discriminazione,

e consapevole attività di irragionevole trattamento differenziato, non
ravvisabile nel caso di specie;
– in ordine alla sentenza del TAR Lazio n. 3101/2008, che aveva
annullato i provvedimenti della Regione Lazio di nomina di dirigenti
senza concorso, doveva ritenersi che la stessa non aveva alcun
legame con la richiesta di reinquadramento per applicazione del
principio di perequazione, da attuarsi peraltro in applicazione di una
legge che si assumeva illegittima; la sentenza suddetta avrebbe
potuto, al più, essere interpretata in senso sfavorevole a nomine
dirigenziali estranee a procedure concorsuali e, quindi, anche a
nomine come quella invocata dall’appellante.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, Spognetta
Adelmo ha proposto ricorso per cassazione fondato su cinque motivi.
L’intimata Regione Lazio ha resistito con controricorso, deducendo
altresì l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse e, in via
pregiudiziale, la carenza di giurisdizione del giudice ordinario.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione
dell’art. 37 cpc, secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato,
anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve
tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole

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che avrebbe dovuto essere accompagnato dalla prova di un’effettiva

durata del processo, della progressiva forte assimilazione delle
questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi

statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e
tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una
valida decisione nel merito in tempi ragionevoli; all’esito della nuova
interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne
l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che:
1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche
dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cpc (non oltre la
prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata
decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di
merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3)
le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione
soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o
implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di
legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di
giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato
esplicito o implicito; in particolare, il giudicato implicito sulla
giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa
nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano
statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel
caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo
all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della

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dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità

sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni
altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa)

rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la
trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito (cfr, ex

plurimis, Cass., SU, n. 24883/2008).
Nel caso all’esame si è formato il giudicato implicito sulla
giurisdizione del giudice ordinario, essendo stata la causa decisa nel
merito, senza che, per quanto dedotto, fosse stato svolto specifico
motivo di gravame in ordine alla giurisdizione; l’eccezione di difetto di
giurisdizione sollevata in questa sede dalla controricorrente è
pertanto inammissibile.
2. Con i primi due motivi, svolti congiuntamente, il ricorrente,
denunciando violazione di legge, si duole che la Corte territoriale non
abbia riconosciuto che il principio di parità contrattuale e quello della
perequazione, inteso come inquadramento con diritti maturati nel
precedente disciolto ente di provenienza, sono fondamentali nella
materia del pubblico impiego; non era pertanto condivisibile la
ritenuta legittimità dell’avvenuta perequazione di tutti i dipendenti con
l’esclusione di quelli provenienti da enti disciolti, non essendo
neppure ravvisabili i parametri in base ai quali era stata ritenuta la
ragionevolezza di tale scelta legislativa; la scelta operata dalla
Regione non poteva ricomprendersi nella discrezionalità gestionale,
apparendo per contro arbitraria; la Corte territoriale avrebbe dovuto

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ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non

quindi disporre la nullità dell’atto discriminatorio con il quale si era
negata la perequazione e adottare una pronuncia di ripristino della

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione,
deducendo che la Corte territoriale non aveva spiegato perché la
situazione degli altri dipendenti perequati non fosse comparabile con
quella di esso ricorrente.
Con il quarto motivo il ricorrente solleva eccezione di
incostituzionalità dell’art. 22, comma 8, legge Regione Lazio n.
25/96, qualora lo stesso dovesse essere interpretato nel senso di
non ricomprendere esso ricorrente, per violazione dell’art. 3 della
Costituzione.
Con il quinto motivo il ricorrente svolge domanda di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia CE ex art. 234 del Trattato UE,
affinché venga accertato, sulla base dei principi, delle norme e delle
pronunce comunitarie in materia di lavoro nella pubblica
amministrazione, se risulti o meno contrario al diritto comunitario e,
in particolare all’art. 13 del Trattato, il fatto che non gli sia stata
accordata la perequazione, attribuita invece agli altri dipendenti della
Regione Lazio, ad eccezione di quelli provenienti da enti disciolti e
se la mancata attribuzione della perequazione comporti la violazione
del principio del mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di
trasferimento di imprese, considerato che esso ricorrente aveva
maturato il diritto alla perequazione prima del trasferimento.

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parità.

3. Giova ricordare le principali vicende legislative e giudiziarie che
contraddistinguono la controversia all’esame.

ruolo e con rapporto di lavoro a tempo indeterminato che prestava la
propria opera, alla data di entrata in vigore della legge, nei soppressi
consorzi di bonifica montana, venisse trasferito alla comunità
montana competente per territorio o, a domanda dello stesso, alla
Regione, ad altri enti regionali e sub-regionali; il rapporto lavorativo
del personale trasferito ed ogni obbligazione derivante dal cessato
rapporto di lavoro con il consorzio soppresso sarebbero continuati
con l’ente di destinazione attraverso adeguate norme regolamentari
dell’ente stesso, che avrebbero salvaguardato la qualifica
professionale e il trattamento normativo ed economico preesistente.
Con la legge Regione Lazio n. 23/96 (poi abrogata, unitamente ad
altre, dall’art. 43 legge Regione Lazio n. 6/02, “fermi restando i diritti

già maturati previsti dalle leggi medesime”),

venne disciplinato

l’inquadramento nel ruolo del personale degli uffici regionali dei
dipendenti di ruolo e con rapporto di lavoro a tempo indeterminato in
servizio presso i soppressi consorzi di bonifica montana alla data di
entrata in vigore della legge regionale n. 4/84, che avevano prodotto
istanza di trasferimento alla Regione Lazio ai sensi dell’art. 15 della
stessa legge regionale e che erano stati successivamente messi a
disposizione della Regione Lazio; l’inquadramento venne effettuato
sulla base di un’apposita tabella (in particolare alla

VII fascia

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L’art. 15 legge Regione Lazio n. 4/84 dispose che il personale di

sarebbe corrisposta I’VIII qualifica) e la posizione economica di
inquadramento venne determinata sulla base dello stipendio in

gennaio 1990.
La pressoché coeva legge Regione Lazio n. 25/96 (Norme sulla
dirigenza e sull’organizzazione regionale), previde, all’art. 22, comma
8, che

“Al fine di superare le situazioni di sperequazione

determinatesi nei confronti del personale non destinatario delle leggi
regionali 15-1988, 73-1988, 36-1989, 8-1990, 38-1994 e 39-1994 ed
inquadrato presso la Regione Lazio ai sensi delle leggi regionali 20 e
21-1973, 41-1975, 65-1976, 57-1979, 64-1979, 43-1980, 13-1983,
50-1983 e dell’art. 6 della legge regionale 31-1990 si provvederà con
successivo provvedimento, in armonia con i principi di cui all’articolo
1, comma 3, e articolo 8, lettera b), del Decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29”.

Tale disposizione, dunque, non contemplava il personale inquadrato
presso la Regione Lazio ai sensi della ricordata legge Regione Lazio
n. 23/96.
Con regolamento regionale n. 2/01 (poi abrogato dall’art. 559 del
regolamento regionale n. 1/02), la Regione Lazio stabilì le modalità
attraverso le quali il personale destinatario dell’articolo 22, comma 8,
della legge regionale 1 luglio 1996, n. 25, in servizio alla data di
pubblicazione del regolamento stesso, poteva richiedere la revisione
del proprio inquadramento, prevedendo che, ai fini del nuovo

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godimento al 31 dicembre 1993 ai sensi del CCNL in vigore dal 10

inquadramento, sarebbe stata presa in considerazione la posizione
giuridica posseduta, alla data del 31 gennaio 1981, presso la

ovvero presso l’Ente di provenienza.
Tale regolamento, tuttavia, è stato dichiarato illegittimo dal Tar Lazio,
con sentenza depositata in data 11 aprile 2008, n. 3108, i cui effetti
esecutivi sono stati confermati, in sede cautelare, dal Consiglio di
Stato.
Quindi la Regione Lazio, ha emanato la legge regionale n. 14/09,
con la quale, all’art. 1, comma 1, ha previsto che “(…) è fatta salva la
qualifica o categoria già attribuita al personale alla data di entrata in
vigore della presente legge per effetto dell’applicazione dell’articolo
22, comma 8, della legge regionale 10 luglio 1996, n. 25 (…) e
successive modifiche, purché lo stesso abbia svolto le funzioni o
mansioni corrispondenti alla predetta qualifica o categoria, conferite
con atto formale ed effettivamente esercitate per almeno un triennio”.
La suddetta legge Regione Lazio n. 14/09 è stata tuttavia dichiarata
incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n. 195/2010,
con riferimento al principio del concorso pubblico, di cui all’art. 97
della Costituzione, sul rilievo che il riconoscimento ad un vasto
numero di dipendenti regionali (ivi compresi molti dirigenti)
dell’accesso ad un livello superiore di inquadramento, acquisito in
base ad un procedimento di “perequazione” esclusivamente ad essi
riservato, rappresentava una non consentita deroga al principio del

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Regione Lazio ai sensi della legge regionale 24 marzo 1980, n. 18,

concorso pubblico, in quanto era da escludere che ragioni
giustificative della deroga al predetto principio del concorso pubblico

dipendenti beneficiari della deroga o, comunque, ad esigenze
strumentali dell’amministrazione, connesse alla gestione del
personale.
Quindi, riassumendo:
– la legge Regione Lazio n. 23/96 non comprendeva, fra i soggetti
destinatari della previsione di cui all’art. 22, comma 8, il personale,
fra cui l’odierno ricorrente, inquadrato presso la Regione Lazio ai
sensi della legge Regione Lazio n. 23/96;
– conseguentemente non lo prevedeva neppure il regolamento
regionale n. 2/01, che stabiliva le modalità per richiedere la revisione
dell’inquadramento;
– la legge Regione Lazio n. 23/96 è stata successivamente
abrogata e così pure il regolamento regionale n. 2/01;
– quest’ultimo è stato peraltro dichiarato illegittimo con sentenza
del TAR Lazio n. 3108/2008;
– la successiva legge Regione Lazio n. 14/09, che, nei termini
suindicati, aveva inteso far salva la qualifica o categoria già attribuita
al personale per effetto dell’applicazione dell’articolo 22, comma 8,
della legge regionale n. 25/96 e successive modifiche, è stata
dichiarata incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale n.
195/2010.

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potessero essere ricollegate ad un particolare interesse degli stessi

4. Deve allora convenirsi che è del tutto venuto meno il substrato
legislativo e regolamentare sulla base del quale il ricorrente pretende

contemplante tale invocata perequazione, denuncia di contrarietà
alla Costituzione e all’ordinamento comunitario.
Ne discende che, quand’anche le censure sviluppate in ricorso
potessero ritenersi astrattamente fondate, non di meno alcun
risultato utile potrebbe derivarne al ricorrente, non sussistendo più il
contesto normativo a cui ancorare l’invocata perequazione; e, al
contempo, il venir meno della normativa censurata e dei suoi effetti
rende privi di oggetto i richiesti scrutini di legittimità costituzionale e
di conformità alla legislazione comunitaria.
5. Stante tale carenza di interesse, il ricorso va dunque dichiarato
inammissibile.
La peculiarità delle questioni trattate e la rilevata incidenza, ai fini del
decidere, dei provvedimenti giurisdizionali intervenuti, consiglia la
compensazione delle spese.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma il 6 novembre 2013.

di ottenere la perequazione e che, al contempo, proprio perché non

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