Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6839 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/03/2021, (ud. 17/09/2020, dep. 11/03/2021), n.6839

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17726 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Società A. s.n.c., in persona del legale rappresentante,

A.L. e A.D., nella qualità di soci, rappresentati e

difesi dall’Avv. Paolo Alessandro Vinzia per procura speciale a

margine del ricorso, elettivamente domiciliati in Roma, via Lucrezio

Caro, n. 62, presso lo studio dell’Avv. Sabina Ciccotti;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 10/49/2013, depositata in data 17

gennaio 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 17

settembre 2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata nonchè dagli atti difensivi delle parti si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società A. s.n.c. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2005, aveva ripreso a tassazione maggiori redditi ai fini Iva e Irap e irrogate le conseguenti sanzioni, un atto di contestazione delle sanzioni, nonchè successivi avvisi di accertamento alle socie A.L. e A.D., a titolo di maggiore Irpef, conseguente alla imputazione alle medesime per trasparenza del maggior reddito non dichiarato; in particolare, la ripresa era stata basata su di una verifica fiscale dalla quale era emerso che la società aveva detenuto in giacenza prodotti alcolici il cui approvvigionamento non era stato comprovato da alcun documento fiscale, con conseguente inattendibilità della contabilità della società e ricostruzione del reddito di impresà ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1; avverso i suddetti atti impositivi la società e le socie avevano proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Lodi; avverso la sentenza del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale ha parzialmente accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’applicazione degli studi di settore da parte dell’Agenzia delle entrate, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), determinava l’inversione dell’onere della prova, con la conseguenza che il contribuente aveva l’onere di fornire gli elementi giustificativi dello scostamento dei suoi ricavi da quelli presuntivamente applicabili; i contribuenti avevano provato, mediante un campione rappresentativo, che il coefficiente medio di ricarico era pari a 1,092; tale coefficiente si avvicinava a quello minimo (di 1,91) previsto dallo studio di settore; il suddetto coefficiente minimo (maggiore di circa il 10 per cento di quello non esaustivo prodotto dalla società) doveva essere considerato maggiormente aderente alla reale situazione della società contribuente; di conseguenza, i maggiori ricavi non dichiarati relativi all’anno oggetto di verifica dovevano essere stimati nell’importo di Euro 140.000,00;

la società A. s.n.c. e le socie A.L. e A.D. hanno quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi di censura (illustrato con successiva memoria) cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale dello Stato Dott. De Augustinis Umberto, ha depositato le proprie osservazioni scritte con le quali ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso principale, in subordine il rigetto, e il rigetto di quello incidentale.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Sulla eccezione di giudicato.

In primo luogo, va disattesa l’eccezione di giudicato proposta dalla controricorrente basata sulla considerazione che A.D. e A.L. avrebbero limitato l’impugnativa esclusivamente in tale loro qualità, sicchè avrebbero proposto ricorso unicamente con riferimento agli atti a carico della società, non anche nei confronti degli avvisi di accertamento per maggiore Irpef emessi a loro carico;

in realtà, proprio la evidenziazione in ricorso della qualità di sode della società mostra l’interesse delle stesse a far venire meno la legittimità degli atti da cui è derivata, secondo il principio della imputazione per trasparenza ai soci dei redditi della società di persone, anche nei confronti dei successivi atti impositivi conseguentemente emessi nei loro confronti;

Sui motivi di ricorso principale.

Con il primo motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “violazione dell’art. 360 c.p.c., 5)”, per non avere esaminato questioni di fatto e di diritto prospettate in sede di controdeduzioni in appello, in particolare: 1) la nullità dell’atto impositivo per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in quanto: a) la ricostruzione compiuta dalla Guardia di Finanza, basata su di un ritenuto furto di beni e successivamente ceduti presso l’esercizio commerciale, era del tutto inconsistente; b) la suddetta ricostruzione era comunque basata su di un errore metodologico, sicchè erano venuti meno i gravi, precisi e concordanti indizi che sono alla base dell’accertamento analitico – induttivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d); 2) l’accertamento era fondato erroneamente sulla violazione del D.P.R. n. 570 del 1996; 3) l’accertamento era fondato su errori di calcolo e la successiva modifica del dato degli acquisti e delle vendite compiuta dalla controricorrente in sede di appello aveva determinato la necessaria modifica del dato delle rimanenze finali; 4) l’accertamento era illegittimo attesa l’errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d); 5) l’accertamento non era fondato in quanto non era stato ammesso lo scomputo di Euro 155.876,00 a titolo di costi afferenti ai maggiori ricavi accertati;

il motivo è inammissibile;

osserva il Collegio come al caso di specie, relativo all’impugnazione di una sentenza pubblicata dopo la data dell’11 settembre 2012, trovi applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del 2012), ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;

secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014);

dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, l’odierna doglianza dei ricorrenti deve ritenersi inammissibile, siccome diretta a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo alla questione di fondo della inattendibilità della documentazione contabile da cui è derivato l’accertamento analitico induttivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d);

ciò precisato, va peraltro, in primo luogo, osservato che la censura di omessa pronuncia di ragioni di doglianza prospettate dalla parte avrebbe dovuto essere proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), che attiene, più propriamente, al vizio di nullità della sentenza per non avere pronunciato su questioni proposte dalle parti e per le quali le stesse avevano interesse alla conseguenza affermazione in diritto;

d’altro lato, va osservato che il giudice del gravame ha ritenuto che nella fattispecie era stata corretta l’applicazione della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), dunque l’esistenza di gravi incongruenze nelle giacenze contabili, e tale affermazione ha trovato conforto, nel percorso motivazionale della pronuncia, nel prospetto riportato nella medesima sentenza, nel quale si è dato atto, tenuto conto delle fatture di acquisto e di vendita depositate dai ricorrenti, delle giacenze iniziali, degli acquisti operati, delle vendite e delle successive rimanenze finali, ed è su tali dati, non smentiti dai ricorrenti, che si è, in sostanza, fondata la considerazione della non attendibilità dei dati contabili, essendo risultati differenze negative che hanno supportato la valutazione finale della corretta applicazione della previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d);

del resto, sono gli stessi ricorrenti (vd. ricorso, pag. 82) che riconoscono che l’ufficio, in sede di appello, aveva provveduto a “recepire integralmente i dati di acquisti e vendite indicati dalla parte nel ricorso e nelle successive memorie”, in tal modo riconoscendo la correttezza del prospetto sul quale il giudice del gravame ha fondato la valutazione della corretta applicazione del metodo di indagine analitico-induttiva;

inoltre, le questioni della nullità dell’atto impositivo per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, per mancanza dei presupposti di fatto e di diritto, o della ritenuta sussistenza di un errore metodologico attuato in sede di verifica, ovvero del non corretto richiamo al D.P.R. n. 570 del 1996, art. 1, nonchè della errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), perdono di forza incidente sulla valutazione fattuale compiuta dal giudice del gravame, atteso che l’avviso di accertamento trovava fondamento sulla ritenuta inattendibilità delle scritture contabili della società e, sotto tale profilo, quel che ha assunto rilevanza, ai fini della decisione del giudice del gravame, è stata proprio la riscontrata considerazione delle gravi incongruenze nelle giacenze di magazzino anche tenuto conto della documentazione prodotta dai ricorrenti;

il profilo di censura, inoltre, della sussistenza di errori di calcolo dedotti e delle conseguenze che dagli stessi ne derivano, con conseguente modifica del dato delle rimanenze finali, risulta meramente affermato senza alcuna specifica e concreta contestazione della non correttezza dei dati, riportati in sentenza, sulla base dei quali il giudice ha compiuto la valutazione complessiva della irregolarità delle scritture contabili e della sussistenza di redditi non dichiarati;

anche il profilo di censura della infondatezza dell’accertamento per non essere stato ammesso lo scomputo di Euro 155.876,00 a titolo di costi afferenti ai maggiori ricavi accertati risulta privo di specificità, in quanto, da un lato, gli stessi ricorrenti riferiscono che il suddetto valore era relativo a “ipotetici maggiori costi accertati” (vd. pag. 19) e a costi “non giustificati accertati dall’Agenzia delle entrate” (vd. pag. 21), d’altro lato, non risulta documentato dalla parte di avere sostenuto i suddetti costi, come invece era suo onere, atteso che, secondo questa Corte (Cass. civ., 9 giugno 2020, n. 10968) “Con riguardo all’accertamento analitico induttivo D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, anche in caso di accertamento analitico induttivo mediante applicazione dello studio di settore, incombe al contribuente l’onere di provare, col normale rigore, realtà, inerenza e certezza dei costi sopportati, non potendo, in effetti, il contribuente, beneficiare di alcun presuntivo abbattimento forfetario”, mentre è solo nel caso di accertamento induttivo puro che l’Amministrazione finanziaria, se da un lato può ricorrere a presunzioni cosiddette supersemplici, ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, d’altro lato deve comunque determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, poichè, altrimenti, sarebbe oggetto di imposizione il profitto lordo in luogo di quello netto, in violazione dell’art. 53 Cost., non potendo trovare applicazione l’art. 109 TUIR, che ammette in deduzione solo i costi risultanti dal conto economico (Cass. civ., n. 19191 del 2019);

con il secondo motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, per non avere fatto corretta applicazione dei principi in materia di presunzioni di cui agli all’art. 2729, c.c., e al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d);

in particolare, viene dedotto, in primo luogo, che le affermazioni contenute in sentenza, secondo cui l’applicazione dello studio di settore comporterebbe un inversione dell’onere della prova, che il coefficiente di ricarico determinato dal contribuente sarebbe “empirico e non esaustivo” e che il coefficiente di ricarico minimo dello studio di settore sarebbe maggiormente idoneo a rappresentare la situazione del contribuente, sarebbero in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui gli studi di settore costituiscono una mera presunzione semplice e che solo a seguito di contraddittorio gli studi di settore possono assumere le caratteristiche della gravità, precisione e concordanza sulle quali soltanto fondare un accertamento analitico-induttivo;

viene, inoltre, evidenziato che, nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria non aveva fatto alcuna applicazione degli studi di settore e che era stata la contribuente ad evocarli, peraltro con riferimento unicamente al dato percentuale, ma al solo fine di dimostrare la non correttezza del ricarico applicato;

il motivo è infondato;

lo stesso, invero, non coglie la ratio decidendi della pronuncia censurata;

va evidenziato, invero, che il presupposto su cui si è fondata la pretesa dell’amministrazione finanziaria è consistito nella verifica di differenze negative tra la merce iniziale in giacenza e quella successivamente venduta e in giacenza finale alla luce della documentazione prodotta dalla parte, ed è su questi dati, in particolare sulla mancanza di riscontro di fatture di acquisto relativamente a merci poi vendute o riscontrate in giacenza, che, come visto, il giudice del gravame ha fondato la ritenuta legittimità degli avvisi di accertamento e, quindi, la corretta applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d);

sotto tale profilo, correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che, alla luce delle suddette emergenze fattuali, sussisteva una inversione dell’onere della prova, posto che l’elemento presuntivo della inattendibilità della documentazione contabile, di cui il giudice del gravame dà atto nel riportato prospetto in sede di motivazione, comportava l’insorgere dell’onere processuale dei contribuenti di fornire gli elementi di prova idonei a contrastare la valenza probatoria presuntiva della suddetta riscontrata inattendibilità della documentazione;

il riferimento agli studi di settore, dunque, risulta compiuto in sede di accertamento al solo fine di determinare la percentuale di ricarico relativamente alla merce per la quale non era stato riscontrato l’avvenuto acquisto (vd. pag. 5, controricorso) e lo stesso attiene esclusivamente al profilo relativo alla questione della esatta determinazione del coefficiente medio di ricarico da applicare alla fattispecie e, sotto tale profilo, il giudice ha compiuto il proprio accertamento in fatto” non oggetto di specifica contestazione da parte dei ricorrenti, in ordine alla corretta misura di ricarico da applicare al caso di specie in relazione alla situazione della società, evidenziando che la prova contraria offerta dai ricorrenti non poteva dirsi esaustiva;

questo accertamento in fatto, che ha costituito il profilo centrale della decisione, non risulta in alcun modo oggetto di censura da parte dei ricorrenti mediante l’eventuale evidenziazione di fatti decisivi non esaminati, sicchè del tutto non aderenti alla pronuncia sono le ragioni di censura prospettate, non riscontrandosi alcuna violazione di legge;

Sui motivi di ricorso incidentale.

Con il primo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 7 e 53, e dell’art. 112 c.p.c., per non avere pronunciato sulla legittimità della pretesa relativa all’atto di contestazione delle sanzioni irrogate per omessa autofatturazione da parte del concessionario che ha acquistato beni nell’esercizio dell’impresa senza emissione della fattura;

con il secondo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, per avere rigettato l’appello dell’Agenzia delle entrate in ordine alla legittimità della pretesa relativa allatto di contestazione delle sanzioni irrogate senza alcuna motivazione;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla medesima questione della legittimità della pretesa relativa all’atto di contestazione delle sanzioni irrogate, sono inammissibili per difetto di interesse;

si evince dalla sentenza che alla società era stato notificato anche l’atto di contestazione delle sanzioni n. T9RCOA200471 e dal controricorso (vd. pag. 9) si evince che lo stesso era stato emesso per omessa fatturazione da parte del cessionario che ha acquistato beni nell’esercizio di impresa, senza emissione della fattura – D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 1;

il suddetto atto, oggetto di ricorso,, unitamente agli avvisi di accertamento, era stato annullato dalla commissione tributaria provinciale;

si evince dalla sentenza che l’Agenzia delle entrate aveva chiesto l’annullamento della sentenza e la conferma della legittimità degli avvisi di accertamento, oltre interessi e sanzioni, e dal ricorso (vd. pag. 10) il suddetto atto di contestazione era stato citato tra gli atti per i quali era stata richiesta la pronuncia di legittimità;

ciò precisato, va quindi osservato che la pronuncia del giudice del gravame, nell’avere accertato la sussistenza di merci per le quali non era stata data prova di alcun acquisto, tanto da avere ritenuto sussistenti maggiori ricavi non dichiarati, nel determinare i suddetti maggiori ricavi ha, implicitamente, pronunciato sulla legittimità dell’atto di contestazione, seppure entro i limiti dei maggiori ricavi accertati;

sicchè, atteso il contenuto implicito della pronuncia sulla questione in esame, non sussiste l’interesse della controricorrente alla proposizione dei motivi di ricorso incidentali;

tuttavia, deve tenersi conto, come correttamente evidenziato dai ricorrenti principali nella memoria, che, in data successiva alla proposizione del ricorso in cassazione, il legislatore è intervenuto sul sistema sanzionatorio tributario con il D.Lgs. n. 156 del 2015, in particolare modificando il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, rimodulando la sanzione per infedele dichiarazione;

ed invero, in applicazione del principio del trattamento sanzionatorio più favorevole al contribuente, stabilito dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, comma 3, la sopravvenuta revisione del sistema sanzionatorio tributario introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, vigente dal 1 gennaio 2016, a norma del mededimo D.Lgs., art.32, come modificato dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 133, è applicabile retroattivamente alla condizione, ricorrente nel caso in esame, che il processo sia ancora in corso con la conseguente non definitività della parte sanzionatoria del provvedimento impugnato (vd, Cass. civ., 24 gennaio 2018, n. 1706);

la sentenza impugnata deve pertanto essere cassata nella parte relativa alla determinazione delle sanzioni con rinvio alla commissione tributaria regionale per le necessarie valutazioni di merito ai fini della determinazione delle sanzioni in conformità alla nuova cornice edittale prevista dalla normativa sopravvenuta;

Conclusioni.

in conclusione, il primo motivo di ricorso incidentale è inammissibile, infondato il secondo, i motivi di ricorso incidentali sono inammissibili, con conseguente rigetto del ricorso principale e di quello incidentale;

ai fini delle spese del presente giudizio, tenuto conto della soccombenza reciproca, le stesse sono interamente compensate;

la sentenza va comunque cassata nella parte relativa alla sanzione da applicare, e, ai fini dell’accertamento della sanzione più favorevole in caso di infedele dichiarazione, il giudizio è rinviato alla Commissione tributaria regionale della Lombardia;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando le spese di lite del presente giudizio;

in riferimento alla sopravvenuta disciplina sanzionatoria introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, cassa la sentenza impugnata in relazione alla determinazione delle sanzioni e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

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