Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6835 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/03/2021, (ud. 24/11/2020, dep. 11/03/2021), n.6835

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9716/2016 R.G. proposto da:

DIDASCA – The First Italian Cyber Schools for Lifelong Learning,

C.G., C.M., C.S. e G.G.,

rappresentati e difesi dagli Avv.ti Giuseppe Romualdi e Cristina

Della Valle, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma via

Merulana n. 234, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via

dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 4432/42/15, depositata in data 15 ottobre 2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24 novembre 2020

dai Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Giacalone Giovanni, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Udito l’Avv. dello Stato Gianna Galluzzo per l’Agenzia delle entrate,

che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate, a seguito di verifica fiscale, emetteva nei confronti dell’associazione DIDASCA – The First Italian Cyber Schools for Lifelong Learning (di seguito DIDASCA) avviso di accertamento ai fini Iva, Irpef ed Irap per l’anno 2008 per l’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali e l’omessa fatturazione di operazioni imponibili, irrogando le conseguenti sanzioni.

L’Ufficio, in particolare, contestava all’associazione, in concreto retta dai soli componenti del consiglio direttivo, la cui composizione era rimasta invariata nel tempo, la sostanziale natura commerciale dell’attività svolta, la mancanza di vita associativa e la carente democraticità della gestione.

Riqualificava l’ente, pertanto, come società di fatto, soggetta alle regole ordinarie d’imposizione e registrazione, ed emetteva altresì avvisi di accertamento per trasparenza nei confronti di C.G., C.M., C.S. e G.G., quali soci della sdf.

Le impugnazioni dei contribuenti, che contestavano la fondatezza della pretesa, avendo effettuato esclusivamente attività istituzionale rivolta ai soci, e la riqualificazione dell’ente quale società di fatto, attesa la formale iscrizione a registro delle persone giuridiche presso la Prefettura di Sondrio, erano, previa riunione dei ricorsi, rigettate dalla CTP di Sondrio. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.

DIDASCA, C.G., C.M., C.S. e G.G. propongono ricorso per cassazione con sette motivi, poi illustrato con memoria.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 148 tuir, comma 8, del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 6, lett. e), dell’art. 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55. per aver la CTR ritenuto gravi, precise e concordanti le presunzioni assunte dall’Ufficio, senza tenere conto delle contestazioni della contribuente, nè considerare l’illegittimità dell’operato dell’Ufficio che si era avvalso di presunzioni a catena, in violazione del divieto di doppia presunzione.

Nell’articolazione del motivo la contribuente rileva, con ampio richiamo alle deduzioni di merito, che dalle stesse circostanze considerate dall’Ufficio, era derivabile altra, e diversa, ricostruzione dei fatti, avendo operato DIDASCA per realizzare il fine statutario della “diffusione della conoscenza informatica” che “ha comportato un utilizzo sostanzioso delle risorse interne”.

Sottolinea, inoltre, l’erroneo assunto dell’Ufficio, che, da un lato, ha ritenuto che l’associazione mascherasse una società di fatto tra i componenti del Consiglio direttivo e il socio fondatore, senza, tuttavia, contestare lo Statuto dell’associazione e, dall’altro, non ha tenuto conto che l’attività svolta a favore dei soci e finalizzata al raggiungimento degli scopi sociali doveva ritenersi, anche a fronte della percezione di corrispettivi specifici, decommercializzata ai sensi dell’art. 148 tuir.

Rileva, infine, l’arbitrarietà della ricostruzione reddituale per l’irrilevanza sia della mancata concreta partecipazione dei soci alla vita associativa in quanto assicurata, in via generale, dallo statuto sociale, sia dell’assenza di cambiamenti del “gruppo dirigente”, la cui composizione era conseguenza dell’essere “i soggetti più carismatici tra i fondatori”, sia quanto alla determinazione delle somme a loro erogate, non solo inferiori a quanto sostenuto dall’Ufficio e, anche, “ai compensi dell’area dirigenziale”, ma pure giustificati in relazione alle prestazioni svolte.

1.1. La complessa censura è inammissibile.

1.2. Va premesso che la CTR ha espressamente fatto proprie le conclusioni e motivazioni della sentenza di primo grado, cui ha inteso “pienamente uniformarsi”, esprimendo anche, a tal fine, autonome e circostanziate ragioni.

In relazione a ciò, i contribuenti, pur non avendo riprodotto in termini unitari ed estesi la sentenza di primo grado (che, tuttavia, è stata riprodotta dalla controricorrente), da ritenersi, per il richiamo operato per relationem, parte integrante della motivazione d’appello, hanno congruamente censurato anche le statuizioni richiamate.

1.3. La censura, peraltro, pur dedotta come violazione di legge, investe, in realtà, la motivazione della CTR, valutata, da un lato, carente e insufficiente e, dall’altro, censurata per l’interpretazione che il giudice ha operato sul complesso degli elementi in giudizio.

1.4. Dall’articolata ricostruzione in fatto, operata dal giudice di primo grado e condivisa dalla CTR, infatti, emerge, in primo luogo, l’attività e il ruolo della DIDASCA in ordine alle operazioni di fornitura dei prodotti e servizi da parte dell’AICA (Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico) e la successiva cessione ai soci da parte dei Centri accreditati, secondo la quale i prodotti e servizi forniti da AICA sono ceduti ai soci di DIDASCA dai Centri accreditati per un prezzo finale la cui determinazione è operata dal Comitato direttivo di DIDASCA.

In altri termini, il corrispettivo è ripartito tra tre soggetti: l’AICA riceve un importo (costo medio per candidato sulla base del “costo medio su base nazionale”) che, in realtà, è il costo della prestazione; il Centro accreditato riscuote l’intero corrispettivo e trattiene la quota che gli compete per la copertura delle spese di gestione e istituzionali; la differenza spetta a DIDASCA. Da ciò la conseguenza che l’ente ha ricoperto e svolto un ruolo di intermediazione tra l’AICA, fornitrice dei beni e servizi, e l’effettivo (Centro accreditato) soggetto erogatore degli stessi verso gli utenti finali, ricevendo per tale compito una parte del corrispettivo della vendita.

Accanto alle caratteristiche delle operazioni in questione, poi, la CTR – in uno con gli elementi costituiti dalla immutabilità dei componenti del Comitato direttivo, al sostanziale svuotamento della clausola di democraticità (per essere le deliberazioni assunte sempre in seconda convocazione con il voto esclusivo dei soli componenti del citato comitato direttivo) – ha considerato che risultava “macroscopica la sproporzione tra i ricavi derivanti dall’attività commerciale (per il 2008 un importo di Euro 1.539.176,00) e le entrate correlate alla gestione caratteristica (per il 2008 i proventi da tesseramento erano determinati in Euro 60.678,00)” e che ai soci “risultano erogati nel corso del 2008 complessivi Euro 222.075,00 a titolo di compensi senza che sia noto il criterio di determinazione e la relativa base contrattuale” e al socio fondatore ” C.S. risultano versati Euro 72.000,00 a titolo di diritti d’autore (deliberati dal consiglio direttivo su espressa richiesta dell’interessato) senza che di tale titolo vi sia alcuna dimostrazione, atteso che oltretutto tali diritti avrebbero dovuto competere all’associazione stessa per la quale il Carugo ha prestato la sua opera intellettuale”.

Da tale complesso di elementi di fatto, che il giudice d’appello ha valutato, in coerenza con i principi che regolano il ragionamento presuntivo, prima apprezzandoli singolarmente e poi con una sintesi globale e unitaria, la CTR ha concluso che DIDASCA ha operato come un soggetto imprenditoriale a tutti gli effetti e non come ente non commerciale e che le erogazioni a favore dei soci dovevano essere (“per dimensione e modalità di determinazione”) assimilati ad una distribuzione di utili.

1.5. La doglianza, pertanto, si limita a contestare la rilevanza e consistenza dei singoli elementi apprezzati dal giudice, sottolineando possibili interpretazioni alternative delle medesime circostanze ovvero l’asserito omesso apprezzamento di altri elementi (peraltro dedotti in carenza di autosufficienza) e, quindi, pone una censura non proponibile neppure alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo anteriore alla modifica operata con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modif. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, e, dunque, a maggior ragione, in relazione al testo della norma oggi vigente, ratione temporis applicabile.

1.6. Pari considerazione ha, poi, la lamentata inosservanza del D.Lgs. n. 460 del 1997, art. 10, comma 6, lett. e).

In punto di diritto, occorre sottolineare che la norma invocata fonda una presunzione di distribuzione indiretta per una serie di casi; la lett. e), in particolare, prevede la corresponsione ai dipendenti di compensi superiori del 20% a quelli previsti dai contratti collettivi.

Il superamento di tale soglia comporta in sè, dunque, l’esclusione del regime di favore. L’eventuale mancato superamento, tuttavia, non prova il contrario, nè può essere invocato per ritenere congrua e corretta automaticamente l’erogazione dei compensi ove – con valutazione di fatto da parte del giudice di merito, come effettuato nel caso di specie – dal complesso degli elementi emerga che l’ente svolga in concreto una attività commerciale e la corresponsione delle somme percette sia sproporzionata e sostanzialmente ingiustificata sì da assorbire la gran parte dei proventi, distogliendoli dai fini istituzionali e rivelando, per contro, l’effettiva finalità lucrativa dell’ente, orientata all’utile (nella specie, dei soci fondatori componenti del comitato direttivo).

2. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, violazione degli artt. 148 e 149 tuir, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 4, per aver la CTR: ritenuto che DIDASCA svolgesse attività commerciale in misura prevalente a quella istituzionale, senza considerare il regime di decommercializzazione previsto dall’art. 148 tuir; posto a confronto i ricavi con le entrate associative, in violazione dei criteri previsti dall’art. 149 tuir; non considerato i rilievi della contribuente, intesi ad evidenziare che le prestazioni erano sempre rese da DIDASCA e rientravano tra gli scopi sociali.

2.1. Il motivo è inammissibile.

2.2. Pure tale doglianza mira, invero, a contestare la sufficienza e completezza della motivazione.

E’ dirimente, peraltro, che il motivo, nel riferirsi agli artt. 148 e 149 tuir, ai relativi requisiti e al regime di decommercializzazione ivi previsto, non coglie la ratio della decisione.

2.3. In via generale, infatti, l’art. 73 tuir (già art. 87), comma 1, lett. c, contempla tra i soggetti passivi gli enti non societari che suddivide in due categorie: enti commerciali e non commerciali, distinguendoli in base ad un aspetto sostanziale, ossia il tipo di attività principale svolta e la sua natura commerciale o meno.

E’ quindi centrale, per l’individuazione della disciplina applicabile, la qualificazione della “commercialità” dell’attività svolta, per la quale va fatto riferimento all’art. 55 tuir, che prevede:

“1. Sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate all’art. 32, comma 2, lett. b) e c), che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa.

2. Sono inoltre considerati redditi d’impresa:

a) i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.;

b) …omissis…

c) …omissis…

3. Le disposizioni in materia di imposte sui redditi che fanno riferimento alle attività commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate nel presente articolo.”

Ne deriva che se l’ente, alla luce dei criteri previsti dall’art. 55 cit., svolge in via principale o esclusiva un’attività di tipo commerciale, si applicano gli artt. 81 e ss. tuir, mentre, diversamente, trovano applicazione gli artt. 143-150 tuir.

Ove l’attività principale (o prevalente) sia qualificabile come non commerciale trova applicazione l’articolato regime di favore previsto dall’art. 143 e ss. tuir (già art. 108) e in particolare:

a) La decommercializzazione prevista dall’art. 143 tuir, comma 1, (art. 108) per la generalità degli enti non commerciali.

Per tale disposizione non si considerano attività commerciali “le prestazioni di servizi non rientranti nell’art. 2195 c.c. rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”.

Occorre sottolineare, sul punto, che vengono in rilievo attività ulteriori, secondarie od aggiuntive, eventualmente accessorie, che, in presenza delle condizioni previste dalla norma, sono svolte da un ente non commerciale, per cui, proprio per tale fondamentale ragione, sono sottratte a tassazione.

b) La disciplina generale prevista dall’art. 148 tuir, commi 1 e 2, (art. 111) per quel sottoinsieme degli enti non commerciali rappresentato da associazioni.

In particolare, non concorrono a formare il reddito complessivo “l’attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali” e le somme versate dagli associati o partecipanti, a titolo di quote o contributi associativi; sono invece commerciali, ed hanno rilievo fiscale (salvo il 143, comma 1), “le cessioni di beni e le prestazioni di servizi agli associati o partecipanti verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”.

La previsione considera “l’attività interna”, ossia quella volta verso gli associati, ferma la generale caratteristica di “non commercialità” dell’ente/associazione.

c) La decommercializzazione specifica per alcune particolari categorie di associazioni ex art. 148 tuir, comma 3, (art. 111), salve le integrazioni e condizioni previste dai commi successivi.

In quest’ultima ipotesi, riferita ad un sottoinsieme delle associazioni-enti non commerciali, non concorrono a formare il reddito complessivo – con attrazione nella non imponibilità di attività che in via generale (ex art. 55 tuir) sarebbero altrimenti considerate commerciali – “le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti…”.

L’intera articolata disciplina, dunque, presuppone, per la sua applicabilità, sempre e comunque che l’ente sia qualificabile come “non commerciale”.

2.4. Orbene, la CTR, con la sentenza impugnata, non ha ritenuto inapplicabile la franchigia fiscale per non aver apprezzato se i servizi rientrassero o meno tra gli scopi dell’associazione, ma, in termini più incisivi, come evidenziato, ha radicalmente escluso, con valutazione articolata – sul ruolo dei soci componenti il comitato direttivo e del socio fondatore, sull’importanza economica dell’attività svolta e sulla dissimulata ripartizione degli utili attraverso l’erogazione dei compensi -, che l’associazione fosse riconducibile ad un ente non commerciale e, dunque, fosse applicabile, nella sua generalità, il regime di esenzione, concludendo, per contro, che essa dovesse essere ricondotta all’esercizio di una attività imprenditoriale, svolta, in via di fatto, con forme societarie e soggetta, in quanto tale, all’ordinario regime di imposizione.

2.5. Di nessun pregio è poi l’asserita irrituale comparazione tra ricavi e proventi da tesseramento operata dalla CTR e che, anzi, dall’avviso di accertamento (dai ricorrenti riprodotto in termini invero solo parziali, ma in via integrale dal controricorrente) emergeva una perdita di esercizio di circa Euro 13 mila, compensata dai proventi associativi, atteso che tale esito derivava proprio dalla erogazione dei compensi ai soci (e dei cd. diritti d’autore al socio fondatore) che coprivano l’intero utile derivante dall’attività economica.

3. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.P.R. n. 361 dei 2000, art. 6, per aver la CTR ritenuto erroneamente irrilevante il riconoscimento della personalità giuridica da parte di DIDASCA, affermando – in adesione alla motivazione del giudice di primo grado – la disapplicabilità del provvedimento amministrativo di riconoscimento ove non conforme alla legge.

3.1. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40, per aver la CTR sussunto la fattispecie nella previsione di cui al comma 2, anzichè del primo riqualificando l’associazione come società di fatto nonostante che essa non si fosse mai palesata diversamente innanzi ai terzi e non ricorressero i presupposti (fondo comune, alea, proposito di conseguire utili, affectio societatis) per ritenere la sussistenza di una società di fatto.

Deduce specificamente l’estraneità all’asserita società del sig. C.S., mero associato ed autore delle pagine web del sito dell’associazione.

3.2. I motivi, da esaminare unitariamente per connessione logica, sono inammissibili.

3.3. Va rilevato, in primo luogo, che nè la CTP, nè la CTR hanno disapplicato l’atto di riconoscimento della personalità giuridica a favore di DIDASCA.

Giova comunque sottolineare, sul punto, che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 5, nello stabilire che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente” attribuisce in via generale al giudice tributario il potere di disapplicare gli atti amministrativi, su cui, dunque, statuisce in via incidentale (D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 2, comma 3), da cui la correttezza – in diritto – dell’affermazione della sentenza impugnata.

3.4. Il giudice di merito, peraltro, si è limitato, in termini lineari, a valutare in concreto – come su esposto – la concreta attività dell’ente (che svolgeva una attività imprenditoriale) e dei componenti del comitato direttivo (che, di comune accordo ed attraverso il conferimento dei servizi lavorativi da loro svolti all’interno dell’associazione, hanno dato direttive e disposizioni sulla gestione dell’ente, organizzando l’attività economica e fissando, tra l’altro, l’ammontare dei corrispettivi per le prestazioni fornite agli utenti finali, con conseguente determinazione del margine di guadagno assicurato all’ente, ossia dell’utile d’impresa poi ripartito tra di loro), concludendo, con accertamento in fatto, che DIDASCA ha operato come una società di persone.

Ed invero per aversi una società di fatto – le cui nozione non è esplicitata nel codice civile – è sufficiente l’esistenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solo verbale, nonchè la ricognizione dei criteri di cui all’art. 2247 c.c., ossia – come accertato dai giudici di merito – l’intenzionale esercizio in comune tra i soci di un’attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o servizi “atteso che la disciplina tributaria (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, comma 3, lett. b, e art. 6, comma 3) non richiede, per la tassazione del reddito di una società di fatto, altro requisito se non la ravvisabilità nel suo oggetto dell’esercizio di un’attività commerciale, e che la costituzione di una società è ammessa anche per l’esercizio occasionale di attività economiche” (v. Cass. n. 2200 del 31/01/2014; Cass. n. 15538 del 06/11/2002).

Orbene, da tali elementi il giudice di merito, con indagine in fatto insuscettibile di riesame in sede di legittimità, ha ritenuto provato che l’attività economica sopra descritta costituiva il vero oggetto dell’associazione non riconosciuta e che lo scopo associativo era la ripartizione degli utili tra gli associati.

Non diverso è l’esito della doglianza riferita alla posizione del socio fondatore C.S., pure specificamente esaminata dalla CTR, che – come rilevato – lo ha individuato come destinatario di somme parimenti riconducibili alla indiretta distribuzione di utili.

Privo di rilievo, infine, è il richiamo al precedente di questa Corte n. 1717/2006, che, anzi, conferma le conclusioni raggiunte. In quel caso, difatti, la Corte si è limitato a dichiarare inammissibile il ricorso (dell’Agenzia delle entrate) che, in termini paralleli ed opposti a questo giudizio, contestava (inammissibilmente) l’accertamento della CTR che, in quel caso, riteneva non provata la qualificazione dell’associazione non riconosciuta come società di fatto.

3.5. Ne deriva che il terzo motivo neppure coglie la ratio della sentenza, mentre il quarto attinge, nuovamente, la sufficienza e adeguatezza della motivazione, sicchè sono inammissibili.

4. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 60, come modificato dal D.L. n. 1 del 2012, art. 93, conv. nella L. n. 27 del 2012, nonchè della sentenza della Corte di Giustizia 7 novembre 2013, nelle cause riunite C-249 e C-250/12 per aver la CTR negato, in violazione del principio di neutralità lo scorporo dai ricavi dell’Iva in essa contenuta, dovendosi considerare l’importo riscosso dal cliente finale comprensivo dell’Iva.

Rileva, inoltre, che, non essendo i cessionari soggetti passivi Iva ma utenti finali, non trova applicazione il citato art. 60.

4.1. Il motivo è infondato, ancorchè la motivazione debba essere integrata ex art. 384 c.p.c..

4.2. Va premesso che la contribuente non ha scientemente applicato l’Iva alle prestazioni in giudizio, avendo operato sul presupposto, erroneo, di non essere soggetta al relativo regime, sicchè il corrispettivo ricevuto non includeva, ab origine, l’imposta.

Ciò precisato, deve essere rilevato che l’invocata sentenza della Corte di Giustizia (sentenza 7 novembre 2013, nelle cause riunite C249/12 e 250/12, Corina-Hrisi Tulica, p. 37 e 43) ha cura di precisare che il prezzo pattuito deve ritenersi già comprensivo dell’Iva solo “nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’Iva riscossa dall’amministrazione tributaria”, facoltà che, invece, nel nostro ordinamento è riconosciuta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, u.c., che prevede:

“Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”

4.3. Si tratta di disposizione applicabile nella fattispecie in giudizio, riguardando la norma gli accertamenti divenuti definitivi a far data della sua entrata in vigore (ossia dal 24 gennaio 2012), condizione che qui, in evidenza, ricorre, trattandosi di accertamento oggetto di impugnazione.

4.4. Va poi escluso che la norma imponga che il cessionario dei beni o il committente dei servizi debba essere soggetto passivo Iva, limitandosi la disposizione, quando ricorra tale qualità, a riconoscere, in deroga ai criteri generali, il diritto alla detrazione anche ad un tale soggetto qualora il cedente abbia validamente esercitato il diritto alla rivalsa, mentre, ove non ricorrano tallì condizioni, il cessionario (o il committente) resterà definitivamente gravato della relativa pretesa.

Le possibili difficoltà – inerenti alla molteplicità dei soggetti – al concreto esercizio del diritto di rivalsa attengono, poi, a profili in fatto e non a limitazioni in diritto.

5. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione della Dir. n. 77/388/CEE, artt. 17 e ss., e del combinato disposto di cui alla Dir. n. 2006/112/CE, art. 168, lett. a), e art. 178, lett. a), per aver la CTR negato la detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti documentati.

5.1. Il motivo è inammissibile per novità della questione di cui non v’è traccia nella sentenza; nè la relativa censura risulta riprodotta in ricorso, neppure essendo stato indicato dove e quando essa sia stata sottoposta al giudice di merito (ex multis v. Cass. n. 8206 del 22/04/2016).

La doglianza, peraltro, difetta di autosufficienza anche sotto il profilo del merito, avendo la ricorrente omesso di specificare e riprodurre la documentazione relativa ai dedotti acquisti.

6. Il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, per aver escluso la CTR l’inapplicabilità delle sanzioni nonostante l’ente avesse, in buona fede, ritenuto di operare come ente non commerciale, non potendosi considerare equivalente la condotta “di chi ha seguito una determinata normativa” e quella “di chi ha violato le prescrizioni con l’intento di evadere il fisco”. Deduce, inoltre, la sussistenza di una situazione di obbiettiva incertezza normativa.

6.1. Il motivo, al di là della genericità e indeterminatezza dello stesso, è infondato.

6.2. Secondo il consolidato orientamento della Corte, infatti, “in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, a cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. E’ comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza” (v. da ultimo Cass. n. 2139 del 30/01/2020).

Orbene, da un lato la contribuente non ha provato – come era suo onere – di aver tenuto una condotta diligente, mentre, dall’altro, la CTR ha escluso, alla stregua delle complessive risultanze del giudizio, che il contribuente sia incorso in errori inevitabili, non sussistendo “obbiettive condizioni di incertezza normativa… il quadro normativo appare chiaro e sedimentato” e “la stessa buona fede del contribuente… appare contraddetta dalle modalità con cui le attività di DIDASCA sono state realizzate nel corso del tempo”.

7. Va disattesa, infine, la richiesta di applicazione del D.Lgs. n. 158 del 2015, quale ius superveniens per le sanzioni, attesa l’assoluta genericità dell’istanza, neppure essendo precisato in quale misura le sanzioni siano state irrogate, nè essendo stati riprodotti i relativi atti, nè, infine, essendo state dedotte le ragioni per cui la nuova disciplina dovrebbe ritenersi più favorevole (v. da ultimo Cass. n. 19286 del 16/09/2020).

8. Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese sono liquidate, come in dispositivo, per soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna ii ricorrenti al pagamento delle spese processuali a favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessive Euro 10.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

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