Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6830 del 24/03/2014


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 6830 Anno 2014
Presidente: LUCCIOLI MARIA GABRIELLA
Relatore: MERCOLINO GUIDO

irrituale

SENTENZA
sul ricorso proposto da
COFATHEC SERVIZI S.P.A., in persona del direttore generale p.t. Mario Screnci, in virtù di procura speciale per notaio Mario Negro del 14 febbraio 2008, rep.
n. 154707, MAXCOM PETROLI S.P.A., in persona del presidente p.t. Giancarlo
Jacorossi, e FINTERMICA DI GIAN PIERO PALMIERI & CO. S.A.S., in persona del socio accomandatario Gian Piero Palmieri, elettivamente domiciliate in
Roma, al corso Vittorio Emanuele 11 n. 142, presso l’avv. DAMIANO FORTI, dal
quale, unitamente al prof avv. ANTONIO BRIGUGLIO, sono rappresentate e difese in virtù di procura speciale in calce al ricorso
RICORRINTI

contro
COMUNE DI ORVIETO, in persona del Sindaco p.t., elettivamente domiciliato
in Roma, alla via A. Kirker n. 14, presso l’avv. ALESSANDRO D’IPPOLITO, dal

189G’
NRG 2333-09 Cofathee Serviti Spa, Maxeorn Petroli Spa e hotel -mieti Sas-Com Orvieto – Pag.

Data pubblicazione: 24/03/2014

quale, unitamente all’avv. FRANCESCO ROMOLI, è rappresentato e difeso in
virtù di procura speciale a margine del controricorso
coNTRoRicoRRENTF

E RICORRENTE INCIDENTAI

febbraio 2008.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10 dicembre
2013 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;
uditi i difensori delle parti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Lucio CAPASSO, il quale ha concluso per l’accoglimento del primo motivo
del ricorso principale, restando assorbiti gli altri motivi, ed il rigetto del ricorso
incidentale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – Con atto del 27 luglio 1990, il Comune di Orvieto affidò all’Artesia
S.p.a. (successivamente incorporata dalla Daniele Jacorossi S.p.a.) la gestione del
costituendo Museo Emilio Greco e del Pozzo di San Patrizio, per la durata di
quindici anni, riconoscendo alla predetta società il diritto di far proprie le somme
incassate attraverso la vendita dei biglietti d’ingresso, contro il versamento dell’importo annuo indicizzato di Lire 400.000.000, da corrispondersi in due rate semestrali posticipate, e del 10% degli incassi.
La convenzione fu poi modificata con atto del 30 aprile 1991, il quale prevedeva, tra l’altro, che le relative controversie sarebbero state definite mediante un
procedimento libero ed irrituale affidato ad un collegio di arbitri, i quali avrebbero
deciso secondo equità e come amichevoli compositori.
2. — Insorta tra i contraenti una controversia in ordine al pagamento del ca-

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avverso la sentenza della Corte di Appello di Perugia n. 75/08, pubblicata il 29

none pattuito, il collegio arbitrale costituito per la risoluzione della stessa, con lodo del 15 novembre 1999, rigettò la domanda di risoluzione per inadempimento
proposta dal Comune e dichiarò risolte entrambe le convenzioni per la comune

del fallimento del tentativo di concordarne la modifica; accertò l’obbligo della Jacorossi di riconsegnare i beni e quello del Comune di rimborsare le spese effettuate per miglioramenti ed addizioni; liquidò in Lire 3.500.000.000 il danno riconosciuto alla Jacorossi da un precedente lodo del 7 marzo 1995 per il mancato svolgimento di attività di promozione da parte del Comune, dichiarando l’obbligo della società di versare a quest’ultimo la quota parte del canone che era stata autorizzata a trattenere dal citato lodo, nonché l’intero canone dovuto dal mese di giugno
1997; riconobbe infine al Comune di Orvieto il diritto al pagamento del residuo
dovuto all’esito della compensazione tra i rispettivi crediti, oltre agl’interessi.
3. — Il Comune propose impugnazione dinanzi al Tribunale di Orvieto, che
con sentenza del 3 luglio 2003 rigettò la domanda di accertamento della nullità del
lodo, nella parte in cui aveva riconosciuto alla Jacorossi il diritto al rimborso delle
spese per miglioramenti ed addizioni, e condannò la Cofathec S.p.a. (succeduta
alla società convenuta a seguito di fusione per incorporazione) all’immediato rilascio del complesso museale, ordinando al custode di consegnare il ricavato della
gestione; accolse infine la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta,
condannando il Comune al rimborso delle spese dalla stessa sostenute per miglioramenti ed addizioni, liquidate in Euro 576.687,58.
4. — L’impugnazione proposta dal Comune è stata parzialmente accolta dalla
Corte d’Appello di Perugia, che con sentenza del 29 febbraio 2008 ha rigettato
l’appello incidentale proposto dalla Cofathec, dichiarando la nullità del lodo arbi-

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volontà delle parti di non darvi esecuzione nel loro contenuto originario, a causa

trale, nella parte concernente il rimborso delle spese per miglioramenti ed addizioni, e confermando nel resto la sentenza impugnata.
Ha premesso al riguardo che con il lodo del 7 marzo 1995 era stato accertato

nale ed il conseguente diritto della Jacorossi al risarcimento del danno, nonché il
diritto della società di sospendere l’esecuzione della controprestazione, ai sensi
dell’art. 1460 cod. civ., trattenendo la metà dell’importo posto a suo carico dalla
convenzione e versando al Comune l’altra metà, la quale rappresentava il corrispettivo della gestione dei monumenti. A seguito di tale decisione era insorta tra le
parti la controversia risolta dal lodo impugnato, nella quale la Jacorossi aveva
chiesto l’accertamento del perdurante inadempimento del Comune e del proprio
diritto di trattenere la metà delle somme dovute per il periodo successivo, nonché
la liquidazione del danno per l’inadempimento, mentre il Comune aveva chiesto la
risoluzione delle convenzioni per inadempimento, la restituzione dei beni ed il risarcimento del danno, nonché la dichiarazione dell’obbligo della società di corrispondere per intero le somme dovute e, in subordine, la dichiarazione della compensazione tra il risarcimento del danno dovuto alla Jacorossi e l’importo dalla
stessa trattenuto.
Ciò posto, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ha rilevato che la
società convenuta non aveva proposto una domanda di risoluzione per inadempimento del Comune, ma si era limitata ad opporsi alla domanda di risoluzione da
quest’ultimo avanzata, senza formulare alcuna richiesta in via subordinata, ha pertanto ritenuto che nessun quesito fosse stato proposto in ordine alle spese per miglioramenti ed addizioni, escludendo in particolare, sulla base di un esame complessivo dei quesiti, che, come affermato dalla sentenza impugnata, la relativa

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l’inadempimento da parte del Comune dell’obbligo di svolgere attività promozio-

domanda fosse desumibile per implicito dalla volontà delle parti di investire gli
arbitri delle sorti dell’intero rapporto, dalla complessità della situazione o dall’attribuzione agli arbitri del potere di giudicare secondo equità, in quanto l’equità ri-

anche ai fini dell’individuazione di tali questioni, che è rimessa esclusivamente alla volontà delle parti.
5. — Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Cofathec, per quattro motivi, congiuntamente alla Maxcom Petroli S.p.a., cessionaria
del credito della ricorrente, ed alla Fintermica di Gian Piero Palmieri & Co. S.a.s.,
ulteriore cessionaria del medesimo credito. Il Comune di Orvieto ha resistito con
controricorso, proponendo ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo. Le ricorrenti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. — Con il primo motivo d’impugnazione, le ricorrenti deducono la nullità
della sentenza impugnata e del relativo procedimento, per contrasto con il giudicato esterno successivamente formatosi tra le parti in ordine alla piena validità ed
efficacia del lodo impugnato. Sostengono infatti che quest’ultimo ha costituito oggetto di un altro giudizio, promosso dalla Fintermica per la sua esecuzione, e conclusosi con sentenza del 7 dicembre 2002, n. 268/02, con cui il Tribunale di Orvieto ha rigettato la domanda riconvenzionale del Comune volta ad ottenere la dichiarazione di nullità del lodo; tale decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Perugia con sentenza del 13 maggio 2005, n. 153/05, divenuta definitiva a
seguito del rigetto del ricorso per cassazione, disposto da questa Corte con sentenza del 27 ottobre 2008, n. 25770. Per effetto di tale pronuncia, deve ritenersi travolta la dichiarazione di nullità parziale del lodo risultante dalla sentenza impu-

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leva soltanto come criterio di soluzione delle questioni sottoposte agli arbitri, non

gnata, non assumendo alcun rilievo la parziale diversità dei motivi d’invalidità fatti valere nel predetto giudizio, in quanto, avendo lo stesso ad oggetto l’adempimento di un atto avente natura contrattuale, la cui validità rappresentava un ele-

dipendentemente da una richiesta di parte, con la conseguenza che il giudicato
formatosi al riguardo copre tutti i possibili vizi del lodo.
1.1. — Non merita consenso, in proposito, l’obiezione sollevata dalla difesa
del Comune, secondo cui l’operatività del giudicato sarebbe preclusa dalla tardività della relativa eccezione, alla cui improponibilità nel giudizio di cassazione si
sarebbe potuto ovviare soltanto mediante la riunione dei due giudizi, mai sollecitata dalle ricorrenti nelle precedenti fasi processuali. L’avvenuta formazione del
giudicato in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, che abbia
impedito alla parte di farlo valere nel giudizio di merito, non è di per sé sufficiente
a rendere improponibile la relativa eccezione in sede di legittimità, indipendentemente dalla precedente formulazione di un’istanza di riunione dei giudizi. Questa
Corte ha da tempo affermato che nel giudizio di cassazione il giudicato esterno è
rilevabile anche d’ufficio, al pari del giudicato interno, e può quindi essere fatto
valere non solo quando emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito,
ma anche quando si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza
impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in
quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando
quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in
un giudizio di mero fatto; il suo accertamento non costituisce pertanto patrimonio
esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastan-

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mento costitutivo della domanda, il giudice avrebbe potuto rilevarne la nullità in-

ti, conformemente al principio del ne bis in dein, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della

zionali del giusto processo e della ragionevole durata, non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 cod. proc. civ., il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che potevano essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato, i quali, comprovando la sopravvenuta formazione di una regula iuris cui il giudice ha il dovere di conformarsi, attengono ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione, e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti
l’ammissibilità del ricorso (cfr. Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass.,
Sez. 1, 23 dicembre 2010, n. 26041; Cass., Sez. lav., 4 ottobre 2007, n. 20779).
1.2. — L’ammissibilità dell’eccezione di giudicato, accompagnata dalla rituale produzione delle sentenze indicate nel ricorso, non consente tuttavia di attribuire alle predette pronunce l’efficacia invocata dalla ricorrente, non essendo ravvisabili, nella specie, i presupposti necessari per l’operatività della preclusione, e segnatamente l’identità tra la domanda proposta nel precedente giudizio e quella in
esame. La causa decisa dalla sentenza n. 25770/08 riguardava infatti il pagamento
delle somme dovute in esecuzione del lodo irrituale, nella parte recante la condanna del Comune al risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento dell’obbligo di svolgere attività promozionale, ed alla medesima parte si riferiva in via esclusiva la domanda riconvenzionale di annullamento proposta dal Comune, essendo stata dichiarata inammissibile, in quanto sollevata soltanto in sede di legittimità, la questione relativa alla nullità della clausola compromissoria (e quindi

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decisione. Tale garanzia di stabilità, collegata all’attuazione dei principi costitu-

dell’intero lodo), in ragione della sua attinenza ad una controversia devoluta alla
giurisdizione amministrativa. Il giudizio in atto ha invece ad oggetto la validità
del lodo irrituale nella parte concernente il rimborso delle spese sostenute dalla

sure proposte in questa sede, e nel suo ambito non è mai stata prospettata, neppure
in primo grado, l’invalidità della pronuncia emessa dagli arbitri in ordine all’inadempimento dell’obbligo di svolgere attività promozionale. Nonostante la comunanza dei soggetti (peraltro soltanto parziale, in quanto la Maxcom Petroli non ha
preso parte al precedente giudizio), deve pertanto escludersi l’identità tra le due
controversie, caratterizzate da oggetti diversi e fondate su titoli che, pur riferendosi formalmente ad un unico atto, restano distinti sotto il profilo sostanziale, avendo riguardo a capi diversi della decisione arbitrale, la cui autonomia consente di
escludere l’applicabilità del principio, invocato dalla difesa delle ricorrenti, secondo cui il giudicato formatosi in ordine al rigetto della domanda di annullamento,
coprendo il dedotto ed il deducibile, impedisce di far valere in altra sede l’invalidità del lodo sotto profili diversi da quelli dedotti nel precedente giudizio. L’autorità
del giudicato sostanziale opera infatti soltanto entro i rigorosi limiti rappresentati
dagli elementi costitutivi dell’azione, e presuppone quindi che la causa precedente
e quella in atto abbiano in comune, oltre ai soggetti, anche il pelimm e la causa
pelendi, restando irrilevante, a tal fine, l’eventuale identità delle questioni giuridiche o di fatto da esaminare per pervenire alla decisione (cfr. ex plurimis, Cass.,
Sez. I, 27 gennaio 2006, n. 1760; Cass., Sez. III, 19 luglio 2005, n. 15222; Cass.,
Sez. 11, 27 agosto 2002, n. 12564).
2. — Con il secondo motivo, le ricorrenti denunciano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1453 e 1458 cod. civ., censurando la sentenza impugna-

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Jacorossi per miglioramenti ed addizioni, che costituisce l’unico oggetto delle cen-

ta nella parte in cui ha escluso che la domanda di risoluzione delle convenzioni e
restituzione dei beni proposta dal Comune autorizzasse gli arbitri a pronunciarsi
anche in ordine al rimborso delle spese sostenute dalla Cofat,411 per addizioni e

già per inadempimento di una delle parti, ma per la comune volontà delle stesse di
sciogliere il vincolo obbligatorio, imponeva agli arbitri di regolamentarne tutte le
conseguenze, indipendentemente da un’esplicita richiesta, determinandosi altrimenti un ingiustificato arricchimento di una delle parti.
2.1. — Il motivo è infondato.
La retroattività degli effetti della risoluzione, prevista dall’art. 1458 cod. civ.,
pur comportando a carico delle parti l’obbligo di restituire le prestazioni ricevute
in adempimento del contratto risolto, non autorizza di per sé il giudice ad emettere
i relativi provvedimenti in assenza di un’apposita istanza, non solo nel caso in cui
la risoluzione trovi fondamento nell’accertato inadempimento di una delle parti
(cfr. ex pluritnis, Cass., Sez. III, 29 gennaio 2013, n. 2075; Cass., Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2439; Cass., Sez. Il, 12 marzo 2001, n. 3608), ma nemmeno nel caso in cui, come nella specie, essa tragga origine dalla constatata cessazione dell’interesse di entrambe all’attuazione del programma negoziale, non venendo meno,
neppure in tale ipotesi, la disponibilità dei predetti effetti, che rappresenta la ragione per cui deve ritenersi rimessa all’autonomia delle parti la richiesta di restituzione delle prestazioni rimaste prive di causa a seguito dello scioglimento del rapporto.
3. — Con il terzo motivo, le ricorrenti lamentano, in via subordinata, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., osservando che, nell’escludere l’avvenuta proposizione della domanda di rimborso delle spese per addi-

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miglioramenti. Affermano infatti che l’avvenuta pronuncia della risoluzione non

zioni e miglioramenti, la Corte di merito non ha tenuto conto che dagli atti processuali emergeva la volontà delle parti di rimettere agli arbitri la definizione di tutte
le questioni derivanti dalla risoluzione delle convenzioni.

la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 113 e 114 cod. proc. civ., sostenendo che erroneamente la Corte di merito ha escluso che l’attribuzione del potere
di decidere secondo equità legittimasse gli arbitri a regolamentare tutte le conseguenze della risoluzione contrattuale, anche in assenza di un’apposita domanda: il
giudice che decide secondo equità ha infatti il potere di derogare alle norme di diritto non solo ai fini della qualificazione giuridica dei fatti, ma anche ai fini della
deduzione delle conseguenze derivanti dall’applicazione di tali norme.
5. — Le predette censure, da trattarsi congiuntamente in quanto aventi ad oggetto la comune problematica inerente al superamento dei limiti della domanda,
sono inammissibili.
Le ricorrenti insistono infatti nella riconducibilità della domanda di rimborso
delle spese per addizioni e miglioramenti all’ambito delle questioni rimesse alla
decisione degli arbitri, evidenziandone la deducibilità dagli atti del procedimento
arbitrale e configurando, in alternativa, la relativa pronuncia come una manifestazione del potere di decidere la controversia secondo equità, conferito agli arbitri
dalla clausola compromissoria. In tal modo, indipendentemente dalle norme riportate in rubrica, la cui indicazione non è vincolante per questa Corte, esse censurano
sostanzialmente l’individuazione dell’oggetto dell’incarico conferito agli arbitri,
così come risultante dalla sentenza impugnata, limitandosi però a ribadire la propria interpretazione della domanda e della clausola compromissoria, in contrasto
con quella fornita dalla Corte di merito, ed omettendo di specificare i criteri inter-

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4. — Con il quarto motivo, le ricorrenti deducono, sempre in via subordinata,

pretativi da quest’ultima eventualmente violati o le lacune o le contraddizioni del-

l’iter logico-giuridico da essa seguito per giungere alla decisione.
Si osserva al riguardo che il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnazione

proprio fondamento nella clausola compromissoria contenuta in un contratto stipulato anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ed al
quale, ai sensi dell’art. 2711 di tale decreto, non si applica l’art. 808-ter cod. proc.
civ., introdotto dal medesimo provvedimento legislativo, che prevede, tra le cause
di annullabilità del lodo, la pronuncia su conclusioni esorbitanti dai limiti della
convenzione di arbitrato e l’inosservanza del principio del contraddittorio da parte
degli arbitri. Trovano pertanto applicazione, nella specie, i principi elaborati dalla
giurisprudenza di legittimità in epoca anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n.
40, secondo cui la natura negoziale dell’arbitrato irrituale, quale strumento di risoluzione delle controversie imperniato sull’affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole riconducibile alla volontà delle parti, si traduce nell’impugnabilità del lodo soltanto per i vizi che possono inficiare ogni manifestazione di volontà negoziale, e quindi per errore, dolo, violenza o incapacità
delle parti che hanno conferito l’incarico o degli arbitri stessi. In particolare, l’errore rilevante è esclusivamente quello che attiene alla formazione della volontà degli
arbitri, ravvisabile ogni qualvolta essi abbiano avuto una falsa rappresentazione
della realtà, per non aver preso visione degli elementi della controversia o per averne supposti altri inesistenti, ovvero per aver dato come contestati fatti pacifici
o viceversa, mentre è preclusa ogni impugnativa per errori di diritto, sia in ordine
alla valutazione delle prove che in riferimento all’idoneità della decisione adottata
a comporre la controversia (cfr. Cass., Sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22374; 15 set-

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di un lodo irrituale pronunciato all’esito di un procedimento arbitrale avente il

tembre 2004, n. 18577; 18 settembre 2001, n. 11678). E’ in quest’ottica che può
assumere rilievo anche il rispetto del principio del contraddittorio, la cui inosservanza da parte degli arbitri, al pari degli altri vizi, può essere dedotta come motivo

nendo in considerazione non già come vizio del procedimento, ma come violazione del contratto di mandato (cfr. Cass., Sez. I, 10 agosto 2007, n. 17636; 7 marzo
2003, n. 3399; Cass., Sez. lav., 9 agosto 2004, 15353); negli stessi termini può essere denunciata la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il
pronunciato, il cui inquadramento in una prospettiva di carattere squisitamente
negoziale si traduce nell’esperibilità dei rimedi previsti dalla legge contro l’eccesso
dai limiti del mandato, ravvisabile ogni qualvolta gli arbitri non si siano attenuti
all’incarico ricevuto, avendo pronunciato al di fuori di quanto espressamente o
implicitamente loro devoluto (cfr. Cass., Sez. I, 21 maggio 1996, n. 4688). La verifica di tale violazione, implicando l’accertamento dell’estensione e dei limiti del
mandato conferito, attraverso la ricostruzione dell’effettiva volontà dei mandanti,
si risolve peraltro, analogamente a quanto accade in ogni altra ipotesi d’interpretazione della volontà negoziale, in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di
merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 19 aprile 2002, n. 5721; 27 aprile 1985, n. 2740; Cass.,
Sez. III, 13 aprile 1999, n. 3609). Agli stessi limiti soggiace quindi il sindacato di
questa Corte nell’ipotesi opposta, in cui, come nella specie, il ricorrente non faccia
valere l’esorbitanza del lodo dai limiti dell’incarico conferito, ma sostenga, in contrasto con la sentenza di merito, che l’oggetto della decisione corrisponde puntualmente a quello della controversia deferita agli arbitri, ponendosi anche in tal

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d’impugnazione del lodo esclusivamente in riferimento all’art. 1429 cod. civ., ve-

caso una questione d’interpretazione della volontà dei mandanti, non diversamente
dall’ipotesi in cui si affermi che gli arbitri hanno pronunciato uhra
6. — Con l’unico motivo del ricorso incidentale, il controricorrente deduce la

la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, nonostante il rigetto delle domande riconvenzionali e dell’appello incidentale proposti dalla Cofathec, il cui rifiuto di restituire i beni aveva reso necessaria un’onerosa procedura di sequestro giudiziario.
6.1. — La censura è inammissibile.
In tema di spese processuali, il sindacato di questa Corte è infatti limitato all’accertamento che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non
possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, mentre rientra nel
potere discrezionale del giudice di merito, tanto nel caso di soccombenza reciproca, quanto nel caso in cui concorrano altri giustificati motivi, la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite (cfr. Cass., Sez. V,
19 giugno 2013, n. 15317; 6 ottobre 2011, n. 20457; Cass., Sez. I, 16 marzo 2006,
n. 5828).
7. — 11 ricorso principale va pertanto rigettato, mentre il ricorso incidentale
va dichiarato inammissibile.
La prevalente soccombenza delle ricorrenti ne giustifica la condanna al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale,
e condanna la Cofathec Servizi S.p.a., la Maxcom Petroli S.p.a. e la Fintermica di
Gian Piero Palmieri & Co. S.a.s. in solido al pagamento delle spese processuali,

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violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., censurando

che si liquidano in complessivi Euro 10.200,00, ivi compresi Euro 10 000,00 per
compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2013, nella camera di consiglio della

Prima Sezione Civile

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