Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6825 del 11/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 11/03/2021, (ud. 17/02/2021, dep. 11/03/2021), n.6825

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32196-2018 proposto da:

M.M.T., domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato

ANTONIO FUSCA’ giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MO.LE., M.S.D., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA GIULIO CESARE 2, presso lo studio

dell’avvocato GIUSEPPE GRILLO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARIA TERESA ORTONA giusta procura in calce

al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 660/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 09/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/02/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

M.M.T. e Mu.Ma.Io. convenivano in giudizio M.S. e Mo.Le., deducendo che in comune avevano posseduto da oltre venti anni due unità immobiliari, meglio descritte in citazione, di proprietà dei convenuti, sostenendo tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, concludendo quindi per l’accertamento dell’avvenuta usucapione.

Si costituivano i convenuti che invece chiedevano il rigetto della domanda, assumendo che il fabbricato era stato edificato su di un terreno da loro acquistato, che era stato concesso in godimento alla madre dei germani M., che lo aveva abitato unitamente alle attrici, dovendosi quindi escludere che le stesse avessero mai posseduto i beni in maniera utile ad usucapire, in assenza anche di un atto di interversione del possesso.

Chiedevano in via riconvenzionale la condanna al rilascio dei beni oggetti di causa.

Il Tribunale di Vibo Valentia con sentenza n. 453 dell’8 giugno 2013 accoglieva la domanda di usucapione, ma la Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 660 del 9 aprile 2018, in riforma della decisione di prime cure, ha rigettato la domanda attorea, condannando l’attrice M.M.T., subentrata quale erede anche all’altra originaria parte attrice, al rilascio dei beni oggetto di causa in favore dei convenuti.

I giudici di appello rilevavano che, atteso lo stretto rapporto di parentela esistente tra le parti, doveva escludersi che vi fosse stato un possesso utile ad usucapire.

L’occupazione del bene era avvenuta per una permissio concessa dal convenuto in favore delle sorelle, non essendo peraltro stata offerta la prova dell’interversio possessionis, occorrendo quindi presumere che il permanere nel godimento del bene, sebbene per un periodo molto lungo, fosse avvenuto a titolo di detenzione. A seguito del rigetto della domanda di usucapione, la Corte distrettuale riteneva anche fondata la domanda riconvenzionale non avendo l’attrice titolo alcuno per permanere nel godimento del bene.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso M.M.T..

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso, in relazione al mancato accoglimento della domanda di usucapione, si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 1158 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con l’illegittimità della sentenza per motivazione irriducibilmente contraddittoria, perplessa o apparente.

Sostiene la ricorrente che l’affermazione circa la mancata dimostrazione del possesso sia apodittica e contraddittoria non essendo stato esaminato il dato di fatto costituito dal fatto che le attrici si erano sempre ritenute posseditrici dell’immobile, come peraltro si ricavava anche dalla deposizione della teste R.A..

Il motivo è inammissibile.

Per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c.p.c., è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Nel caso di specie il giudice di appello ha fondato il proprio convincimento assumendo a pag. 5 che dall’esame delle prove espletate non fosse stato dimostrato che le attrici avessero ranimus possidendi, sul presupposto che il godimento del bene fosse stato loro concesso per tolleranza da parte del convenuto, fratello delle attrici, che risultava anche proprietario formale dei beni oggetto di causa.

La censura proposta, priva peraltro del carattere di specificità di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, limitandosi a riportare solo una delle deposizioni rese in primo grado, e peraltro per stralci, senza permettere quindi di poter verificare l’effettivo tenore delle altre prove raccolte, assume apoditticamente che non sarebbe stata offerta la prova della concessione del godimento del bene per ragioni di tolleranza ovvero di solidarietà familiare, risolvendosi quindi, a fronte dell’affermazione del giudice di appello secondo cui la relazione del bene era iniziata per effetto di una permissio fraterna, nella sollecitazione non consentita ad una rivalutazione delle emergenze probatorie, ovvero ad una diversa ricostruzione dei fatti di causa, compito questo riservato al giudice di merito.

Nè infine può assumersi la ricorrenza di una violazione di legge, per avere escluso l’esistenza di un possesso, pur a fronte di un godimento protrattosi a far data dal 1983, atteso che si è anche di recente ribadito che (Cass. n. 11277/2015) in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacchè nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (conf. Cass. n. 4327/2008; Cass. n. 9661/2006, la quale ribadisce che la valutazione sul punto è un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito).

Deve pertanto escludersi la ricorrenza della dedotta violazione delle norme in tema di tolleranza e di usucapione, in quanto la sentenza impugnata, lungi dal compiere un’indebita inversione dell’onere della prova, ha piuttosto ritenuto raggiunta la prova della tolleranza, considerando i rapporti personali tra le parti, addivenendo quindi alla conclusione in ricorso avversata, sulla scorta di una valutazione degli elementi istruttori a sua disposizione, escludendo invece che fosse stata offerta la prova dell’interversio possessionis, attesa la non univocità in tal senso della condotta tenuta nel corso degli anni dalle occupanti (in senso conforme si veda da ultimo Cass. n. 26688/2020, non massimata).

Il secondo motivo di ricorso, quanto all’accoglimento della domanda riconvenzionale di rilascio dei beni, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 948 c.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e l’illegittimità della sentenza per motivazione irriducibilmente contraddittoria, perplessa, incomprensibile e/o apparente.

Lamenta l’attrice che i convenuti non avevano mai chiesto di accertare il loro diritto di proprietà, sicchè l’accoglimento della domanda di rilascio è avvenuto in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Inoltre, non si comprendono le ragioni in base alle quali tale domanda è stata accolta, non avendo i convenuti dimostrato l’effettiva proprietà del bene, posto che la domanda volta ad ottenere il rilascio di un bene asseritamente detenuto da altri sine titulo va ricondotta all’azione di rivendica con la necessità della prova rigorosa quanto alla titolarità del bene.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Trascura la difesa della ricorrente che per effetto della stessa domanda principale di usucapione, oggetto del giudizio era l’accertamento della proprietà del bene oggetto di causa, e che quindi la resistenza alla domanda attorea con la proposizione della domanda riconvenzionale di rilascio implicava quanto meno in via implicita una richiesta di accertamento della effettiva proprietà in capo ai controricorrenti.

Deve pertanto escludersi la violazione dell’art. 112 c.p.c., mentre quanto alla necessità di ottemperare alla previsione di cui all’art. 948 c.c., va richiamato il costante orientamento di questa Corte secondo cui (Cass. n. 8215/2016) l’onere probatorio richiesto per l’azione di rivendica dall’art. 948 c.c., si attenua nel caso in cui la controparte spieghi una contrapposta domanda di usucapione invocando un possesso iniziato successivamente al perfezionarsi dell’acquisto ad opera dell’attore in rivendica ovvero non contesti la stessa appartenenza originaria del bene alla controparte.

Nel caso di specie, le stesse attrici hanno riconosciuto che il bene oggetto di causa apparteneva ab origine ai convenuti, nei confronti dei quali avevano appunto spiegato domanda di usucapione, con la conseguenza che, una volta risoltasi negativamente per le attrici la controversia relativa all’usucapione, era la stessa linea difensiva delle attrici ad implicare un riconoscimento della proprietà del bene in capo ai convenuti, ed a giustificare quindi sul piano probatorio l’accoglimento della riconvenzionale.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, l’art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2021

 

 

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