Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 68 del 04/01/2018

Cassazione civile, sez. II, 04/01/2018, (ud. 17/10/2017, dep.04/01/2018),  n. 68

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con ricorso del 30 dicembre 2004 l’avv. L.P., premesso di non essere stato retribuito per la prestazione professionale resa in favore di La.Ni. e Lu.Vi. in una controversia civile, chiedeva la condanna dei convenuti al pagamento dei compensi dovuti pari a 31.667,48 Euro.

I convenuti, nel costituirsi, opponevano di aver già corrisposto al legale il proprio compenso mediante assegni bancari, che venivano prodotti in fotocopia, e contestavano talune voci richieste, in quanto non dovute.

Con ordinanza dell’11 ottobre 2005, il giudice monocratico del Tribunale di Bari accoglieva parzialmente la domanda, riconoscendo al L. il compenso di 13.625,12 Euro, oltre ad Iva, cpa ed interessi.

Sull’appello proposto da Lu.Vi. e La.Ni., la Corte d’Appello di Bari, con ordinanza del 10 febbraio 2009, rilevava che l’appello era ammissibile considerata la natura sostanziale di sentenza dell’ordinanza impugnata, e, ritenuta la necessità di ulteriore istruzione della causa, ordinava la produzione in originale degli assegni ed ammetteva interrogatorio formale dell’avv. L..

All’esito degli incombenti istruttori, La Corte territoriale deferiva all’avv. L. giuramento suppletorio, che il legale prestava, negando di aver percepito i compensi professionali dovuti e di aver incassato gli assegni. Con la sentenza n.1533/2013 la Corte d’Appello di Bari dichiarava la nullità della sentenza di primo grado, ex art. 50 quater c.p.c., in quanto la causa, attribuita alla cognizione del collegio, era stata trattata dal giudice monocratico.

Decidendo la causa nel merito, confermava la determinazione del compenso secondo quanto stabilito del primo giudice, ritenendo l’applicabilità alla fattispecie in esame dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012.

Su tali somme riconosceva i soli interessi legali, con esclusione della rivalutazione monetaria, trattandosi di credito di valuta.

Rigettava la domanda di risarcimento dei danni da responsabilità aggravata, in quanto, in forza del deferito giuramento suppletorio, risultava che gli assunti degli appellanti non erano del tutto destituiti di fondamento.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso l’avv. L. con dodici motivi.

I signori Lu. e La. hanno resistito con controricorso.

Il ricorrente ha altresì depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve preliminarmente disattendersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366, n. 3) codice di rito, atteso che esso contiene l’esposizione chiara ed esauriente dei fatti di causa, dalla quale risultano le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte, in modo sintetico ma esauriente, nonchè lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni essenziali (Cass. 19767/2015) e tutti gli elementi necessari a desumere le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito (Cass. 14784/2015).

Vanno del pari disattese le eccezioni di inammissibilità del controricorso, per mancata allegazioni di difese idonee a contrastare i motivi di ricorso, trattandosi di valutazione che attiene al merito delle difese dei resistenti. Deve infine respingersi l’eccezione di tardività del controricorso, genericamente sollevata nella memoria ex art. 378 c.p.c., dal ricorrente, atteso che a fronte del perfezionamento della notifica del ricorso in data 2 gennaio 2014 il controricorso risulta consegnato per la notifica il 7 febbraio 2014, e quindi tempestivamente.

Il primo motivo (sub A) denuncia la violazione della L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30, dell’art. 111 Cost., e la contraddittorietà della motivazione per avere la Corte ritenuto la propria competenza, nonostante la natura di “ordinanza” del provvedimento del Tribunale di Bari impugnato.

Il secondo motivo (sub B) denuncia violazione dell’art. 345,166,167 e 183 c.p.c., deducendo che i signori Lu. e La. nel corso del giudizio di primo grado non avevano mai dedotto la violazione degli artt. 50 bis e 50 quater codice di rito, con conseguente violazione del divieto di ius novorum in appello.

I motivi che precedono, che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono inammissibili poichè non colgono la ratio della pronuncia impugnata.

Il giudice di appello, in conformità al consolidato indirizzo di questa Corte, ha infatti ritenuto che la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 e ss., (“ratione temporis” vigenti), non fosse applicabile nel caso di specie in quanto la controversia riguardava non soltanto la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche i presupposti stessi del diritto al compenso e la sussistenza di cause estintive o limitative della pretesa azionata.

Tale statuizione è conforma a diritto.

Il procedimento ordinario è il solo previsto e consentito per la definizione di tali questioni, sicchè, in questo caso, l’intero giudizio deve concludersi con un provvedimento che, seppur adottato in forma di ordinanza, ha valore di sentenza, impugnabile unicamente con l’appello (Cass. 1666/12; 21554/2014).

Da ciò discende altresì la nullità del provvedimento impugnato, in quanto reso in forma monocratica piuttosto che in forma collegiale, come correttamente affermato dal Tribunale nell’impugnata sentenza.

Nessuna preclusione risulta peraltro essersi determinata in ordine al rilievo di tale nullità, trattandosi di nullità assoluta e rilevabile d’ufficio, che non si sottrae, peraltro, al principio della conversione delle cause di nullità in motivi di impugnazione, onde soltanto la mancata denuncia di tale nullità in sede di gravame comporta l’impossibilità di un suo rilievo e la sua sanatoria (Cass. 17834/2013).

Il terzo motivo (sub C) denuncia anzitutto la violazione e falsa applicazione della L. n. 794 del 1942, art. 28, e dell’art. 216 c.p.c., deducendosi la irritualità delle censure sollevate dalle controparti nel giudizio in camera di consiglio di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, aventi ad oggetto il versamento di acconti ed altre eccezioni il cui ambito esulerebbe dal presente giudizio.

Si denuncia inoltre, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sull’esame delle risultanze documentali, avuto riguardo agli assegni bancari prodotti in giudizio dalle controparti.

Entrambe le censure in cui si articola il motivo sono inammissibili.

Avuto riguardo alla prima censura essa non coglie la ratio della pronuncia impugnata, che, come già evidenziato, ha affermato, in conformità al consolidato indirizzo di questa Corte, che in conseguenza dell’allargamento del thema decidendum derivante dalle contestazioni dei convenuti si sarebbe dovuto disporre il mutamento del rito, da quello speciale a quello ordinario di cognizione con competenza collegiale, come disposto nel giudizio di appello.

Del pari inammissibile, per carenza di decisività, la seconda censura, in quanto neppure essa coglie la ratio della sentenza impugnata.

La Corte territoriale, infatti, ha fondato la propria pronuncia non già sulle risultanze degli assegni, stante l’impossibilità di acquisire gli originali in a causa del periodo trascorso, ma sul giuramento suppletorio, in cui l’odierno ricorrente aveva negato di aver percepito compensi e di aver incassato gli assegni.

Sotto altro profilo, la censura è inammissibile in quanto lamenta una insufficiente o contraddittoria motivazione, per non avere la Corte territoriale valutato in modo adeguato le risultanze istruttorie, vizio non più censurabile alla luce del nuovo disposto del n.5) comma 1 dell’art. 360 codice di rito, (Cass. Ss. Uu. n.8053/2014), applicabile ratione temporis.

Con il quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, la contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia e l’omessa o carente motivazione in ordine alle risultanze documentali ex art. 360 c.p.c., n. 5).

Il ricorrente deduce che nel caso di specie la domanda di pagamento degli onorari era fondata su una parcella su cui erano riportate le voci mai analiticamente contestate dal cliente, onde il giudice non avrebbe potuto discostarsene: secondo la prospettazione del ricorrente, essendo decorso il termine di tre mesi dall’invio della propria parcella ai propri clienti le relative risultanze erano divenute incontestabili e davano diritto al riconoscimento della rivalutazione monetaria.

Pure tale motivo è inammissibile per diversi profili.

Innanzitutto la censura non attinge la ratio della pronuncia, che ha affermato l’applicabilità del D.M. n. 140 del 2012, al caso di specie.

Tale statuizione della sentenza impugnata che, si ripete, non viene specificamente censurata nel motivo, supera la questione relativa alla contestazione delle singole voci della parcella che peraltro, in violazione del canone di autosufficienza, non viene riportata nel corpo del ricorso, ed al riconoscimento della rivalutazione monetaria.

La disciplina del D.M. n. 140 del 2012, ed i parametri di liquidazione ivi previsti, sono infatti incompatibili con il criterio della mancata contestazione delle voci indicate nella parcella, invocato dal ricorrente.

Si osserva, in ogni caso, avuto riguardo alla chiesta rivalutazione monetaria, che, anche con riferimento alle tariffe forensi pregresse al D.M. n. 140 del 2012, questa Corte ha più volte evidenziato che, pur a fronte della mancata contestazione della parcella nei tre mesi successivi, la successiva controversia con cui si contesti la pretesa del legale, comporta l’inapplicabilità della disposizione e la riconduzione del caso alla fattispecie di cui all’art. 1224 c.c., con la conseguenza che la corresponsione degli interessi moratori consegue solo all’accertamento del credito mediante provvedimento giurisdizionale, onde solo dalla data di questo (e non da quello di invio della parcella) decorrono gli interessi (Cass. 2431/2011).

Va infine affermata l’inammissibilità della censura di omessa o contradittoria motivazione, non più censurabile, alla luce del nuovo disposto dell’art. 360 codice di rito, comma 1, n. 5), (Cass. Ss. Uu. n.8053/2014), applicabile ratione temporis.

Il quinto motivo (sub E) denuncia violazione del principio costituzionale del giusto processo e l’inammissibilità ed infondatezza della domanda di trasformazione del rito speciale in procedimento ordinario L. n. 794 del 1942, ex artt. 28 e 28, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Pure tale motivo è infondato.

Come già evidenziato, la statuizione della Corte territoriale, che ha attribuito valore di sentenza alla pronuncia del primo giudice ed ha ritenuto, in virtù dell’ampliamento del thema decidendum, avente ad oggetto l’estinzione del credito professionale del professionista, la trasformazione del rito speciale in rito ordinario, è conforme al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui nei casi in cui il thema decidendum avesse esorbitato dalla mera determinazione della misura dei compensi la controversia non poteva più essere trattata nelle forme della procedura sommaria: la necessità delle verifiche, infatti, faceva venir meno le ragioni che giustificavano la deroga al principio del doppio grado di giudizio ed il procedimento doveva svolgersi secondo il rito ordinario (Cass. 13640/2010).

Da ciò, come già evidenziato, la conseguenza che qualora il giudice avesse provveduto nel merito di una controversia L. n. 794 del 1942, ex art. 28, estesa anche all’an, il provvedimento, benchè adottato in firma di ordinanza, aveva comunque valore di sentenza, sicchè era impugnabile solo con l’appello e non anche con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., poichè si trattava di questioni di merito, la cui cognizione non poteva essere sottratta al doppio grado di giurisdizione (Cass. 1666/2012; 21554/2014).

Il sesto motivo (F) denuncia violazione di norme di diritto e contraddittorietà della motivazione, per la mancata applicazione dello scaglione massimo della tariffa professionale forense previsto dal DM Giustizia 9.4.2004.

Pure tale motivo è inammissibile per difetto di decisività, atteso che, come già evidenziato, la Corte territoriale ha affermato l’applicabilità del D.M. n. 140 del 2012.

Il settimo motivo (G) denuncia la violazione degli artt. 221 e 214 c.p.c., deducendo che i documenti (gli assegni bancari) sui quali si fondava l’eccezione di estinzione sollevata dalle controparti erano privi di efficacia, atteso che, a fronte del disconoscimento e querela di falso proposti dal ricorrente, le controparti non avevano provveduto a presentare istanza di verificazione, con conseguente inutilizzabilità della relativa documentazione.

Pure tale motivo è inammissibile in quanto non attiene alla ratio della sentenza impugnata.

Il ricorrente deduce infatti l’infondatezza, nel merito, dell’eccezione di estinzione sollevata dalle controparti, in quanto fondata su documenti inutilizzabili, ma non investe il presupposto del mutamento del rito, costituito dall’ampliamento del thema decidendum, anche in relazione all’an della prestazione professionale, in conseguenza dell’eccezione di estinzione dei resistenti, da valutarsi, ai fini del mutamento suddetto, indipendentemente dalla sua fondatezza.

Pure l’ottavo motivo (H), con il quale si denuncia la violazione dell’art. 5 allegato al D.M. Giustizia 9 aprile 2004, è inammissibile poichè non coglie la ratio della pronuncia impugnata, che ha affermato l’applicabilità del D.M. n. 140 del 2012, incompatibile con la disposizione invocata sia con riferimento alla voce “discussione orale” che alla “maggiorazione del 20% sugli onorari”, non più previste sulla base dei parametri liquidativi previsti dal D.M. n. 140 del 2012.

Con il nono motivo (I) si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2002, artt. 2,3,4,5 e 6, delle disposizioni del D.M. 22 giugno 1982, e dell’art. 429 c.p.c., lamentando il mancato riconoscimento di interessi moratori e rivalutazione monetaria sul proprio compenso.

Pure tale motivo è inammissibile, in quanto fondato sul richiamo ad una normativa diversa da quella che il giudice di merito, con statuizione che non è stata impugnata, ha ritenuto applicabile al caso di specie.

In ogni caso, anche con riferimento alla normativa anteriore, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, se è vero che, in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e procuratore a carico del cliente, la disposizione comune alle tre tariffe forensi (civile, penale e stragiudiziale) contenuta nel D.M. 14 febbraio 1992, n. 238, prevede che gli interessi di mora decorrano dal terzo mese successivo all’invio della parcella, quando tuttavia insorge controversia tra l’avvocato ed il cliente circa il compenso per prestazioni professionali, il debitore non può essere ritenuto in mora prima della liquidazione del debito, che avviene con l’ordinanza che conclude il procedimento L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 28, (che è di particolare, sollecita definizione), sicchè è da quella data – e nei limiti di quanto liquidato dal giudice – e non da una data anteriore, che va riportata la decorrenza degli interessi (Cass. 2413/2011).

Il decimo (L) e dodicesimo motivo (N) denunciano la violazione, rispettivamente, dell’art. 91 c.p.c., e degli artt. 24 e 92 c.p.c., lamentando l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

I motivi che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono infondati.

Il giudice di appello, con motivazione logica ed adeguata, ha infatti ritenuto che il limitato riconoscimento del compenso del professionista a fronte dell’ammontare complessivo del credito richiesto, nonchè il rigetto, oltre che dell’appello principale degli odierni resistenti, anche dei motivi di appello incidentale del ricorrente, su tariffe applicabili, richiesta di rivalutazione monetaria, decorrenza degli interessi e maggiorazione del 20% sulle proprie competenze, comportasse reciproca soccombenza, e dunque giustificasse la pronuncia di compensazione delle spese di lite. Tale statuizione è conforme al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale delle spese processuali, sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate, che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero una parzialità dell’accoglimento meramente quantitativa, riguardante una domanda articolata in unico capo (Cass. 21684/2013).

L’undicesimo motivo (M) denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., per la mancata condanna delle controparti per responsabilità aggravata, ai sensi della norma suddetta.

Pure tale motivo è infondato.

Nel caso di specie, la soccombenza reciproca tra le parti alla luce del limitato riconoscimento del credito del professionista e la conseguente integrale compensazione delle spese di lite, nonchè l’accertamento del giudice di appello, secondo cui gli assunti degli appellanti ed odierni resistenti non erano del tutto peregrini, esclude la sussistenza di mala fede o colpa grave a carico dei medesimi, con la conseguenza che non sussistono i presupposti della responsabilità art. 96 c.p.c., nei loro confronti. Va da ultimo esaminata la richiesta di condanna del ricorrente ex art. 96 c.p.c., formulata nel controricorso dagli odierni resistenti.

Deve rilevarsi l’ammissibilità di detta istanza che, come questa Corte ha già affermato, può essere proposta anche nel giudizio di legittimità per il risarcimento dei danni causati dal ricorso per cassazione, purchè essa sia formulata nel controricorso, con una prospettazione della temerarietà della lite, riferita a tutti i motivi del ricorso e che deve valutarsi riguardo all’esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza (Cass. 21805/2012).

La domanda è peraltro infondata.

Non è infatti ravvisabile la temerarietà del ricorso, che, come già evidenziato, implica la mala fede e dunque la coscienza di operare slealmente, ovvero la grave mancanza di diligenza, situazioni che, pur a fronte dell’infondatezza del ricorso, non sussistono nel caso di specie.

E ciò sia avuto riguardo alle peculiarità delle questioni processuali trattate, attinenti alla natura sostanziale del provvedimento conclusivo del giudizio di primo grado ed al passaggio dal rito speciale a quello ordinario, sia considerato l’esito della controversia ed il complessivo tenore degli atti difensivi del ricorrente.

Il ricorrente va invece condannato alla refusione ai resistenti delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, applicabile ai procedimenti instaurati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, avvenuta il 30 gennaio 2013.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alla refusione ai resistenti delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro, di cui 200,00 Euro per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario per spese generali in misura del 15%, ed accessori di legge.

Dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2018

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