Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6798 del 19/03/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 19/03/2018, (ud. 15/11/2017, dep.19/03/2018),  n. 6798

Fatto

Con ricorso al Tribunale di Cagliari del 16.2.2008 C.S., già dipendente della società MECCANICA COSTRUZIONI spa, inquadrato come saldatore e manutentore meccanico ed assegnato al cementificio della società ITALCEMENTI spa – presso cui la società datrice di lavoro svolgeva in appalto il servizio di manutenzione degli impianti e dei macchinari – impugnava il licenziamento intimatogli in data 8 marzo 2007 per inidoneità fisica sopravvenuta, determinata da malattie (broncopneumopatia, dermatite da contatto, angioneurosi alle mani) che non ne consentivano la esposizione alle polveri presenti sul luogo di lavoro.

Il giudice del Lavoro, con sentenza del 7 giugno 2013- 201.1.2014, accoglieva la domanda.

La Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza del 22 aprile 2014-16 giugno 2015 (nr. 267/2015), su appello della MANUTENZIONE MONTAGGI srl, nelle more subentrata per scissione alla MECCANICA COSTRUZIONI spa, riformava la sentenza di primo grado unicamente in punto di decorrenza del risarcimento del danno.

La Corte territoriale osservava che la circostanza che la inidoneità fosse stata dichiarata dal medico aziendale a seguito di una iniziativa del lavoratore era irrilevante rispetto all’oggetto del giudizio, vertente sulla utilizzabilità del dipendente nella azienda e sulla non eccessiva onerosità delle eventuali modifiche a tale scopo della organizzazione aziendale.

I consulenti tecnici avevano affermato la idoneità del C. ad eseguire le mansioni affidategli se svolte nell’ambiente dell’officina, che era distante dalla cementeria circa 200 metri. L’officina poteva essere preservata dalle polveri – una volta effettuata la bonifica iniziale suggerita dagli ausiliari – anche senza ricorrere alla assunzione di un ulteriore addetto a tempo pieno; del resto si trattava di una misura di prevenzione necessaria per tutti i lavoratori addetti all’officina.

L’ulteriore misura preventiva suggerita dal ctu, consistente nello spolveramento delle parti meccaniche provenienti dallo stabilimento di produzione e nel ricovero di esse in una parte dedicata, non era eccessivamente gravosa e non richiedeva interventi strutturali, perchè l’officina era già divisa in ambienti diversi.

Nell’ambito dell’officina il lavoratore avrebbe potuto essere adibito anche alla saldatura, in quanto, secondo il documento di valutazione dei rischi, ogni postazione era dotata di cappa di aspirazione e gli addetti erano forniti di idonei dispositivi di protezione.

I testi avevano riferito che gli operai specializzati operavano prevalentemente nello stabilimento di produzione e si recavano in officina solo per il tempo necessario a lavorare sui pezzi; tuttavia i testi S.G. (tornitore) e CO.AD. (caposquadra) avevano affermato che all’epoca del licenziamento alcuni operai erano addetti prevalentemente

Atti all’officina (lo stesso S., P.E., un suo tante ed alcuni saldatori). L’insieme dei lavori di officina pertanto, come già ritenuto dal Tribunale, era tale da occupare il C. a tempo pieno, a condizione di fargli prendere il posto degli altri operai che lavoravano in quel luogo. Tali lavori potevano essere svolti dal C., che, al pari dei colleghi, era un operaio polivalente.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società MANUTENZIONE MONTAGGI srl, articolato in quattro motivi; ha resistito con controricorso C.S..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2087 c.c., in combinato disposto con gli artt. 32 e 41 Cost.

Ha esposto che a seguito della segnalazione del lavoratore, che aveva presentato il certificato del proprio medico curante, essa aveva obbligo di attivarsi a tutela della sua salute ex art. 2087 c.c..

Ha lamentato che la Corte d’appello aveva omesso di considerare la patologia delle vie respiratorie attestata dal medico curante (broncopneumopatia cronica ostruttiva) in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.; l’art. 116 c.p.c., in particolare, imponeva di tenere conto delle prove legali, quale era il certificato del medico curante.

Sussisteva altresì violazione dell’art. 2087 c.c. giacchè il giudice dell’appello non aveva considerato la natura ingravescente della patologia e la sua incompatibilità con il luogo di lavoro, in violazione degli artt. 32 e 41 Cost.

Il rischio era determinato dalle polveri di cemento, presenti in tutta l’area del cementificio; la presenza delle cappe di aspirazione presso le posizioni di saldatura non assumeva rilevanza poichè le cappe erano un fattore di protezione adeguato per soli fumi di saldatura e non per le polveri da cemento e sempre che i lavoratori non avessero, come il C., patologie in atto.

Lo stesso ctu suggeriva la assegnazione all’officina solo in termini di possibilità, prevedendo un nuovo esame dopo un periodo di osservazione.

Il motivo è inammissibile.

Esso impropriamente evoca la violazione di norme e di principi di diritto laddove nella sostanza contesta l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito circa la compatibilità delle condizioni di salute del C. con l’ambiente lavorativo del reparto-officina.

La violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è denunziabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 solo in caso di violazione delle regole di formazione della prova ovvero quando il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c. (una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale). Sotto questo profilo è erronea la qualificazione nel motivo di ricorso del certificato del medico curante come prova legale, trattandosi di documento liberamente valutabile nei contenuti.

Nè ricorre il vizio di violazione delle norme, anche di rango costituzionale, poste a presidio della salute del lavoratore: dal preliminare accertamento in fatto della compatibilità tra l’ambiente di lavoro dell’officina e le condizioni di salute del lavoratore discende la conformità della decisione agli obblighi di protezione a carico del datore di lavoro.

Il suddetto accertamento di fatto è impugnabile davanti a questa Corte unicamente con la deduzione di un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. Nella fattispecie di causa, tuttavia, la deducibilità in sede di legittimità del vizio di motivazione è preclusa dal disposto dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, (applicabile ratione temporis), per la conformità nei due gradi di merito dell’accertamento di compatibilità tra l’ambiente di lavoro e le condizioni di salute del lavoratore.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 1453,1455 e 1464 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 anche in combinato disposto con l’art. 41 Cost.

Ha dedotto il contrasto della sentenza con l’art. 41 Cost., nella parte in cui richiedeva al datore di lavoro lo stravolgimento irragionevole della propria struttura organizzativa e produttiva ed il sacrificio degli interessi di tutti gli altri dipendenti, poichè, come accertato dal ctu, le condizioni di lavoro all’interno dei reparti di produzione erano maggiormente a rischio.

La sentenza imponeva all’imprenditore di rivedere totalmente la propria organizzazione, spostando di reparto una o più unità di personale (e sicuramente il P.) ed impiegandone altre per la pulizia della officina, in via esclusiva. La Corte di merito aveva imposto al datore di lavoro la bonifica quotidiana dell’officina senza neppure quantificare il tempo e le risorse occorrenti, con penalizzante spreco di energie lavorative.

Inoltre era pacifico, come riportato dallo stesso ctu, che i manutentori nei periodi di fermo dell’impianto erano chiamati ad intervenire nei reparti produttivi; in tali periodi il C., che non poteva svolgere attività all’interno dell’impianto,sarebbe rimasto inattivo.

Lo stesso riconoscimento in sentenza del fatto che il C. era un operaio polivalente rendeva impossibile la sua assegnazione esclusiva alla officina.

La sentenza si poneva, dunque, in contrasto con gli artt. 1453 e 1464 c.c. nonchè con la L. n. 604 del 1966, art. 3 non ammettendo il recesso in un caso in cui il datore di lavoro non aveva interesse oggettivamente apprezzabile alla esecuzione parziale della prestazione.

Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

E’ inammissibile nella parte in cui la ricorrente contesta, denunziando impropriamente la violazione di norme di diritto, l’accertamento del giudice del merito (si vedano le pagine della sentenza dalla nr. 4,in fine alla nr. 6, in principio):

– sul fatto che la pulizia dell’officina dalla polvere, se effettuata con regolarità, richiedeva un tempo limitato e non un addetto a tempo pieno;

– sul fatto che il lavoro svolto in officina avrebbe impiegato il C. a tempo pieno e nello svolgimento delle mansioni ordinariamente assegnategli;

– sul fatto che la attività tanto del C. che degli altri colleghi di lavoro non sarebbe cambiata nei contenuti, essendo tutti operai polivalenti (addetti alla manutenzione dei macchinari e degli impianti dello stabilimento ITALCEMENTI) e che si trattava unicamente di assegnare il C. ad altro luogo fisico, l’officina, distante dalla cementeria, nell’ambito dell’unico stabilimento, circa duecento metri.

La ricognizione dei suddetti fatti storici compiuta in sentenza è denunziabile in sede di legittimità nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione e non già sotto il profilo della violazione di norme di diritto.

Maggiore approfondimento merita la censura di violazione dell’art. 41 Cost. e degli artt. 1453, 1455 e 1464 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 3 laddove contesta la indebita ingerenza della Corte di merito sulla libertà dell’imprenditore di organizzare la propria impresa.

Il motivo, che in tali limiti afferisce alla interpretazione di norme di diritto, è infondato, per quanto di seguito argomentato.

Punto di partenza è la considerazione che, per quanto pacifico in causa, la inidoneità del lavoratore derivava da una situazione di infermità di lunga durata (broncopneumopatia cronica e dermatite da contatto) e tale da ostacolare la piena ed effettiva partecipazione del lavoratore alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (tanto da determinarne il licenziamento).

Tale circostanza di fatto pone la fattispecie di causa nel campo di applicazione della direttiva nr. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione (nel prosieguo: la direttiva), sussistendo tanto il presupposto oggettivo della attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, “comprese le condizioni di licenziamento” (art. 3 della direttiva) che il fattore soggettivo dell’ “handicap”, protetto dall’art. 1 della direttiva.

Riguardo a tale fattore soggettivo va precisato che la nozione di “handicap” ai sensi della direttiva non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea sicchè può parlarsi di una nozione europea di disabilità.

La Corte di Giustizia sin dalla sentenza 11 luglio 2006, in causa C13/05, Chacon Navas – nella quale vi è una prima enunciazione della condizione di “handicap” ai fini della applicazione della direttiva – ha riservato a se stessa il compito definitorio, osservando che:

“dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto comunitario quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto comunitario che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto nell’intera Comunità di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi” (sentenza cit., punto 40).

La definizione di “handicap” è stata ulteriormente argomentata, nelle pronunzie rese dalla Corte di Giustizia in epoca successiva, in considerazione della avvenuta ratifica da parte della Unione Europea (con decisione 2010/48) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 2006, il cui art. 1, comma 2 determina la platea delle persone disabili (“Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri”).

La Corte di Lussemburgo è ormai consolidata nell’intendere la nozione di “handicap” ai sensi della direttiva nel senso di:

“una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42).

Quanto al carattere “duraturo” di una limitazione, il giudice europeo ha precisato che l’importanza accordata dal legislatore dell’Unione alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell’handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo (sentenza Chacon Navas, già citata, punto 45; sentenza Mo. Da., da ultimo citata, punto 54).

Può dunque convenirsi sul rilievo, da cui si sono prese le mosse, della inerenza della fattispecie di causa all’ambito disciplinato dalla direttiva.

Viene allora in questione l’art. 5 della direttiva, a tenore del quale: “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato…”.

Con la ulteriore precisazione che la espressione “disabili” utilizzata nell’art. 5 della direttiva deve essere interpretata nel senso che essa comprende tutte le persone affette da un “handicap”, secondo la definizione rilevante nell’ambito della direttiva (Corte di Giustizia, sentenza Mo. Da., più volte citata, punto 43).

Il giudice europeo si è altresì espresso circa i contenuti dell’art. 5 della direttiva, tanto nella citata sentenza HK DANMARK, ai punti 49-59 che nella sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, Commissione europea/Repubblica Italiana, nella quale ultima si legge, in sintesi, che:

“Dal testo dell’art. 5 della direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, risulta che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. Tali provvedimenti, come ha giudicato la Corte al punto 64 della citata sentenza HK Danmark, possono anche consistere in una riduzione dell’orario di lavoro” (sent. Commissione/Italia,punto 60).

In particolare, il richiamato considerando nr. 20 della direttiva procede ad un elenco non tassativo dei provvedimenti appropriati, che possono essere di ordine fisico, organizzativo e/o formativo (sentenza HK DANMARK citata, punto 49).

– Il diritto interno: il licenziamento del disabile ai sensi della direttiva.

Fissati nella trattazione che precede i tratti salienti della disciplina della direttiva, per quanto rileva in causa, sul piano del diritto interno è noto che il nostro Stato ometteva di dare esecuzione alla disposizione del citato art. 5, per quanto accertato dalla Corte di Giustizia, all’esito del ricorso della Commissione Europea, con la sentenza 4 luglio 2013, Commissione/Repubblica Italiana, da ultimo richiamata.

Ivi la Corte, esaminata la complessiva normativa interna a tutela dell’handicap – (L. 5 febbraio 1992, n. 104, L. 8 novembre 1991, n. 381, L. 23 marzo 1999, n. 68, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81)- dichiarava la Repubblica Italiana inadempiente al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’art. 5 della direttiva, non avendo imposto l’obbligo di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, in relazione a tutti i datori di lavoro ed ai diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro (” per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione”, come dispone l’art. 5 della direttiva).

E’ altresì noto che il legislatore ha sanato l’inadempimento con il D.L. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, inserendo nel testo D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, recante attuazione della direttiva, all’art. 3, un comma 3 bis del seguente tenore:

“Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.

La fattispecie di causa si colloca in epoca anteriore alla suddetta norma di recepimento.

Ciò, tuttavia, non priva di rilevanza l’art. 5 della direttiva, venendo in questione, piuttosto, l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione.

Se è vero che, con riferimento a una controversia tra privati, la Corte di Giustizia ha dichiarato in maniera costante che una direttiva non può di per sè creare obblighi a carico di un privato e non può, quindi, essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti (quandanche incondizionata e sufficientemente precisa), essa ha parimenti dichiarato a più riprese, a partire dalla sentenza 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann (punto 26), che l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima s’impone a tutte le autorità, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali; nell’applicare il diritto interno i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti, dunque, a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto ed ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo per quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, comma 3 TFUE (per tutte: sentenza 05/10/2004, Pfeiffer e a., da C-397/01 a C-403/01, punto 110- 111; 19/01/2010, Kliclikdeveci, C-555/07, punti 47- 48; 19/04/2016, Dansk Industri, C-441/14, punti 29-33).

Questa Corte di legittimità aveva già affermato, in relazione a fattispecie sottratte ratione temporis alla applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3 bis, che non viola l’art. 41 Cost. il giudice che dichiari illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore alle mansioni assegnate allorchè il datore di lavoro non abbia previamente accertato la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse e di pari livello attraverso i necessari adattamenti organizzativi, senza pregiudizio per gli altri lavoratori ed evitando alterazioni dell’organigramma aziendale (Cass. civ. sez. lav. 13 ottobre 2009 nr. 21710; 10 marzo 2015 nr. 4757).

Nei richiamati precedenti neppure vengono in discussione i contenuti e gli obiettivi della direttiva: il principio di diritto della previa necessità di verificare la possibilità di adattamenti organizzativi ai fini della legittimità del licenziamento per inidoneità fisica è ricavato esclusivamente dal bilanciamento tra i valori dell’ordinamento interno, dotati di pari rilievo costituzionale (art. 41 Cost., in comparazione con gli artt. 4,35 e 36 Cost.).

Le pronunzie di questo giudice di legittimità attestano dunque la praticabilità di una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi della direttiva, interpretazione che quando la inidoneità derivi da una condizione di handicap, nella nozione di cui alla direttiva, appare imposta dall’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale.

Del resto sin dalla sentenza CHACON NAVAS, sopra citata, la Corte di Giustizia ha affermato che “il divieto, in materia di licenziamento, della discriminazione fondata sull’handicap, sancito agli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, osta ad un licenziamento fondato su un handicap che, tenuto conto dell’obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli per i disabili, non è giustificato dal fatto che la persona di cui trattasi non sia competente, nè capace, nè disponibile a svolgere le funzioni essenziali del suo posto di lavoro” (punto 52).

Nella fattispecie di causa il giudice del merito ha correttamente interpretato il diritto interno e non è incorso in violazione delle prerogative imprenditoriali tutelate dall’art. 41 Cost. avendo dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato al C. per sopravvenuta inidoneità fisica in ragione del preliminare rilievo della possibilità per il datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore, persona disabile secondo la direttiva, di svolgere il lavoro.

Sotto un profilo di diritto il giudice del merito ha correttamente condotto tale valutazione sulla base del parametro degli oneri a carico del datore di lavoro e delle implicazioni sulle altre posizioni di lavoro.

Il giudizio espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni (nella specie, adattamenti organizzativi) è invece giudizio di fatto sindacabile da questa Corte nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione.

3. Con il terzo motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 1218 e 1227 c.c. anche in combinato disposto con l’art. 2087 c.c. e con gli artt. 32 e 41 Cost.

La censura afferisce alla statuizione di condanna al risarcimento del danno.

La ricorrente ha lamentato: la omessa considerazione, nel primo e nel secondo grado, della esistenza di patologie morbose già in atto e della prescrizione, sia del medico curante che del medico aziendale, di non esporre il lavoratore a polveri; l’omesso rilievo della circostanza che il lavoratore non aveva impugnato il giudizio del medico aziendale, contribuendo ad aggravare il danno; la mancata valutazione del fatto che i due ctu avevano prospettato la idoneità al lavoro del C. in termini di mera possibilità, suggerendo un periodo di osservazione all’esito della adozione delle cautele suggerite.

Ha dunque dedotto la non imputabilità dell’inadempimento e la sua insussistenza, non avendo i due CTU valutato come certa la idoneità del C. alla attività lavorativa.

Il motivo è inammissibile.

Esso, ancorchè formulato in termini di violazione di norme di diritto, censura l’accertamento di fatto, conforme nei due gradi di merito: della possibilità di utilizzare la prestazione di lavoro del C. senza pregiudizio per la sua salute; della imputabilità della condotta inadempiente al datore di lavoro. Trattasi di accertamenti denunziabili in questa sede nei limiti di ammissibilità del vizio di motivazione, nella specie non deducibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5.

4. Con il quarto motivo la società ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nr. 5 cod.proc.civ.- omesso esame circa plurimi fatti decisivi per il giudizio e motivazione apparente.

Con il motivo si lamenta che la affermazione in sentenza della possibilità di tenere l’officina al riparo dalle polveri senza eccessivi aggravi organizzativi sarebbe viziata dalla mancanza di dati obiettivi di riferimento e dalla mancata considerazione della presenza di un dipendente che già eseguiva anche le pulizie (il magazziniere) sicchè una bonifica più accurata dell’officina, per consentire al C. di accedervi, avrebbe richiesto una seconda unità di personale, onere non esigibile dal datore di lavoro.

Si assume ancora che anche la assegnazione all’ambiente dell’officina non avrebbe evitato la esposizione del C. alle polveri del cementificio e che non era stato quantificato, sulla base di accertamenti tecnici, l’impegno, in termini di ore di lavoro, necessario per eliminare le polveri dalle parti meccaniche da trasportare in officina.

Il motivo è inammissibile.

Trattasi ancora una volta della denunzia di vizi della sentenza relativi all’accertamento dei fatti storici (idoneità dell’ambiente di lavoro dell’officina e misura degli oneri necessari per renderlo accessibile al C.) laddove la deduzione in questa sede del vizio della motivazione è preclusa, in ragione della pronunzia conforme sul fatto nei due gradi di merito, dall’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese seguono la soccombenza.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17 (che ha aggiunto il comma 1 quater al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200 per esborsi ed Euro 4.500 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2018

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