Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6786 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 01/03/2022, (ud. 10/02/2022, dep. 01/03/2022), n.6786

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 3842/2015 R.G. proposto da:

Dopla spa, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Moschetti e dall’avv.

Francesco d’Ayala Valva, con domicilio eletto in Roma, viale Parioli

n. 43, presso lo studio di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 983/18/14, depositata il 16 giugno 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 febbraio 2022

dal presidente Enrico Manzon;

uditi gli Avv. Giovanni Moschetti e Beatrice Fiduccia;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Roberto Mucci, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso n. 22/1/12 che aveva accolto il ricorso proposto da Dopla spa contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2006.

La CTR osservava in particolare che, essendosi ristretto l’ambito devolutivo del gravame alla sola IVA, avendo l’agenzia fiscale appellante dato atto di aver annullato in autotutela l’atto impositivo impugnato in relazione alle II.DD, affermava la fondatezza della pretesa erariale in relazione a detta imposta, derivando tale convincimento dalla confessione stragiudiziale endoprocedimentale del legale rappresentante della società contribuente circa la consapevolezza della natura fittizia del soggetto emittente le fatture oggetto di contestazione (Unica sas), che peraltro dagli ulteriori elementi addotti dall’Ente impositore risultava essere un “evasore totale” (assenza di contabilità ed omissione delle dichiarazioni fiscali; omessi versamenti) del tutto privo di struttura operativa ed anche irreperibile.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo sette motivi, poi illustrati con una memoria.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione del diritto di difesa ed in particolare per violazione dell’art. 6 CEDU, degli artt. 47 e 48, Carta dei diritti fondamentali dell’UE, dell’art. 24 Cost., comma 2, dell’art. 111 Cost., poiché la CTR ha basato la propria decisione su di una dichiarazione resa in sede di istruttoria amministrativa dal suo legale rappresentante.

Anzitutto dev’essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del mezzo sollevata dall’avvocatura erariale, in quanto questione non proposta con il ricorso introduttivo della lite né in grado di appello, ma soltanto con il ricorso per cassazione e quindi del tutto nuova.

Va rilevato infatti che la società contribuente con i motivi di impugnazione giudiziale dell’atto impositivo in oggetto ha, univocamente, contestato la circostanza, affermata dall’agenzia fiscale, della sua consapevolezza della natura fraudolenta delle operazioni, attive e passive, intrattenute con Unica sas.

Dunque l’argomentazione giuridica spesa con il primo motivo del ricorso per cassazione non è nient’altro che lo sviluppo di tale originaria difesa, che non consiste nell’allegazione di un – nuovo -fatto impeditivo/estintivo e quindi non può essere considerata un’eccezione in senso stretto, bensì appunto solo una mera difesa in diritto, sicché ben può essere valutata da questa Corte secondo il principio jura novit curia.

Ciò posto, la censura è tuttavia infondata.

Nel caso di specie è pacificamente accaduto che in sede di accesso ispettivo dell’agenzia fiscale presso la sede della società contribuente, il legale rappresentante della medesima, L.C., abbia sostanzialmente ammesso di essere consapevole che Unica sas era una c.d. cartiera, dichiarando che la sua interposizione serviva “solo per la fatturazione”.

Lamenta la ricorrente che al Levada, prima di rendere le proprie dichiarazioni, non è stato dato avviso che poteva rifiutarsi di rispondere alle domande fattegli, trattandosi di una facoltà e non di un obbligo, e che perciò aveva il diritto al silenzio; afferma che tale comportamento amministrativo ha violato il diritto dell’Unione ed il diritto costituzionale italiano, con la conseguenza della nullità (derivata) della sentenza impugnata, appunto perché basata, anche, ma essenzialmente, sulla valorizzazione processuale delle dichiarazioni stesse.

In primo luogo, sul piano del diritto unionale/convenzionale, si deve osservare che la giurisprudenza, anche recente, della Corte di giustizia dell’Unione Europea e della Corte EDU non si pone nel senso patrocinato dalla ricorrente.

Dette Corti infatti si sono pronunciate in casi pacificamente rientranti nel diritto delle sanzioni penali ed equiparate oppure allorché al “silenzio” è direttamente correlata una sanzione, ma sempre quando destinatario del trattamento sanzionatorio è lo stesso titolare del diritto al silenzio e non altro soggetto di diritto.

Escluso dunque che la giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di giustizia dell’Unione Europea riguardi direttamente la materia dell’imposizione tributaria in senso stretto (vedi rispettivamente, tra le molte, Ferrazzini c. Italia e Orkem, SGL Carbon), pur ammesso che secondo tali giurisprudenze l’art. 6 CEDU, l’art. 6 TUE, gli artt. 47-48, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, trovano applicazione oltre che nei procedimenti penali anche in quelli amministrativi interni degli Stati aderenti/membri, qualora in quest’ultimi siano applicabili “sanzioni punitive” qualificate secondo i c.d. (OMISSIS) (leading case, Corte EDU Jussila c. Finlandia), tuttavia è chiaro che le Corti sovranazionali hanno delimitato l’area delle garanzie del giusto processo, del quale il diritto al silenzio è nucleo fondamentale (quale “norma internazionale generalmente riconosciuta”: Corte EDU, John Murray c. Regno Unito ed altre), alla “costrizione” derivante dalla sanzionabilità diretta del rifiuto di rispondere ossia al caso in cui il diritto interno degli stati aderenti/membri preveda una sanzione (punitiva) nei confronti del titolare del diritto di tacere.

Ciò è particolarmente chiaro nelle più recenti pronunce di dette Corti ed in particolare in Corte EDU, Chambaz c. Svizzera ed in Corte giust. UE, DB c. Consob, pacifico che in entrambe si trattava di sanzioni direttamente irrogate alla persona fisica autrice della violazione interna.

Orbene, nel caso in esame si controverte dell’imponibile fiscale della Dopla spa e di sanzioni direttamente applicate alla medesima, quindi non al Levada, preteso titolare del diritto al silenzio; pertanto dette norme e giurisprudenze unionali/convenzionali non risultano pertinenti ed applicabili.

D’altro canto recentemente questa Corte si è espressa -in un caso che deve ritenersi analogo- nel senso che l’assenza di “consenso informato” (nella specie, della necessità di autorizzazione del PM per l’apertura coattiva) non è causa di vizio invalidante dell’atto impositivo, qualora in sede di istruttoria amministrativa siasi aperta – non coattivamente – una borsa contenente documenti contabili, poi utilizzati contro il contribuente (cfr. Sez. U, 3182/2022).

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per vizio motivazionale radicale (motivazione apparente ovvero manifestamente illogica), in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 61, art. 36, comma 2, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), dell’art. 118 disp. att. c.p.c., articolando la critica in distinti punti riguardanti: il rigetto del suo appello incidentale; l’affermazione della natura meramente fittizia del soggetto asseritamente interposto nelle operazioni IVA in contesto; l’eccezione di invalidità dell’atto impositivo impugnato per vizio motivazionale; la fittizietà del soggetto interposto; la correlazione tra mancanza di contabilità del soggetto interposto e l’affermazione della sua fittizietà; la valutazione del decreto di archiviazione del parallelo processo penale nei confronti del suo legale rappresentante in relazione alla falsità delle fatture oggetto di contestazione amministrativa.

La censura è infondata.

Va ribadito che “La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526 – 01).

Condividendosi e dando seguito a tale, consolidato, arresto giurisprudenziale, risulta evidente che la, pur sintetica, motivazione della sentenza impugnata non rientra nei paradigmi invalidanti indicati nell’arresto medesimo.

Il giudice tributario di appello infatti ha chiaramente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di dover validare le pretese creditorie erariali, sì come basate sulla fittizietà di Unica sas, valorizzando particolarmente le dichiarazioni rese da L.C. in combinazione valutativa degli elementi addotti dall’agenzia fiscale a sostegno della natura di “cartiera” di detta società.

Vi è poi ulteriormente da ribadire che:

– “La differenza fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione” (Cass. n. 25714 del 04/12/2014, Rv. 633682 – 01), da ciò derivando l’erroneità del mezzo prescelto in ordine alla mancata argomentazione della CTR veneta in ordine al motivo di appello incidentale riguardante l’eccezione di nullià dell’avviso di accertamento impugnato per incompetenza della DRE dell’Agenzia delle entrate alle indagini, trattandosi al più di un’omessa pronuncia e non di un vizio motivazionale;

– in ogni caso “Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 – 01) e “Alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (Cass. n. 2313 del 01/02/2010; ex pluribus conf. Cass. n. 16171 del 28/06/2017; Cass. n. 9693 del 19/04/2018).

In base a tali principi, deve ritenersi che su detta eccezione ed in ordine a quella relativa alla motivazione/prova dell’avviso di accertamento il giudice tributario di appello, essendone del tutto consapevole (v. la parte narrativa della sentenza impugnata), si sia implicitamente pronunciato per il rigetto delle medesime, le quali risultano peraltro infondate, rispettivamente, secondo gli ulteriori principi di diritto che “In tema di accertamenti tributari, il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, conv. in L. n. 2 del 2009, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33289 del 21/12/2018, Rv. 652121 – 01) e che “Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass., n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).

Ed ancora che “Nel contenzioso tributario, la sentenza penale irrevocabile intervenuta per reati attinenti ai medesimi fatti su cui si fonda l’accertamento degli uffici finanziari rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva” (Cass. n. 2938 del 13/02/2015); che “In materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4 e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (Cass. n. 8129 del 23/05/2012).

Dunque, fuori da ogni vincolo, il giudice tributario di appello ha liberamente valutato, sia pure per implicito, ma essendone pienamente consapevole (v. parte narrativa della sentenza impugnata) quale “elemento probatorio” l’archiviazione penale de qua, evidentemente ritenendo di dover valorizzare con prevalenza le risultanze probatorie emergenti dal processo tributario, pacifico che tale giudizio di merito non può essere oggetto di “revisione” in questa sede di legittimità, secondo altro consolidato principio di diritto che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, poiché la CTR ha affermato la natura fittizia di Unica sas sulla base di presunzioni prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza.

La censura è inammissibile.

Deriva dall’ultimo arresto giurisprudenziale citato che il mezzo in esame è del tutto al di fuori del perimetro del giudizio di legittimità ed in particolare del parametro dell’error in judicando in jure, dovendosi altresì ribadire che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015) e che “In tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass., n. 6035 del 13/03/2018, Rv. 648414 – 01).

Con il quarto, quinto, sesto e settimo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta, in diverse declinazioni rapportate alla violazione/falsa applicazione di distinte disposizioni legislative (D.P.R. n. 633 del 1972, rispettivamente, art. 8, comma 1, lett. c) e comma 2, art. 2697 c.c.D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. b), art. 1, art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19) e del principio di neutralità dell’IVA, la contestata ed affermata detrazione di tale imposta in relazione alle operazioni passive (fatture ricevute da Unica sas) e l’applicazione dell’imposta in relazione a quelle attive (fattive emesse nei confronti di Unica sas), oggetto delle riprese di cui all’avviso di accertamento impugnato.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono infondate.

Va ribadito che:

– “In tema d’I.V.A., l’Amministrazione finanziaria, che contesti la cd. “frode carosello”, deve provare, anche a mezzo di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, gli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di “cartiera”, l’inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’I.V.A.) e la connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell’irregolarità delle operazioni, mentre spetta al contribuente, che ha portato in detrazione l’I.V.A, la prova contraria di aver concluso realmente l’operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni, non essendo a tal fine sufficiente la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti” (Cass. n. 17818 del 09/09/2016, Rv. 640767 – 01);

– “In tema di I.V.A., il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, comma 7, ai sensi del quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta stessa è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura, va interpretato nel senso che il corrispondente tributo viene considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione “isolata” da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, senza che possa operare, per tale fatto, il meccanismo di compensazione, tra I.V.A. “a valle” ed I.V.A. “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. cit., art. 19 e ciò anche in considerazione della rilevanza penale della condotta consistente nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 1565 del 27/01/2014, Rv. 629515 – 01);

– “In tema d’IVA, è precluso al cessionario dei beni il diritto alla detrazione nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo, nonostante i beni siano entrati effettivamente nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, poiché l’indicazione mendace di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione effettivamente realizzata tra altri soggetti” (Cass., n. 20060 del 07/10/2015, Rv. 636663 – 01);

– “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass., n. 9851 del 20/04/2018).

Dal complesso di tali arresti giurisprudenziali risulta evidente che nel caso di specie non può essere detratta l’IVA sulle operazioni passive in contestazione registrate da Dopla, avendo il giudice tributario di appello accertato in fatto sia che il soggetto emittente era una cartiera sia che la società contribuente utilizzatrice ne era consapevole.

Quanto alle operazioni attive in contestazione (cessione di beni), in primo luogo non può accedersi alla tesi della società contribuente di cui al quarto motivo che invoca l’applicabilità del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. c) e comma 2, poiché, stante la natura fittizia di Unica, essendo quindi le dichiarazioni d’intenti dalla medesima rilasciate ideologicamente false, non possono costituire titolo per applicare l’esenzione IVA in questione.

In tal senso si intende dare seguito al principio di diritto secondo il quale “In tema d’IVA, la non imponibilità delle cessioni all’esportazione effettuate nei confronti di esportatori abituali, prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. c), non può essere subordinata alla sola formale specifica dichiarazione d’intento dell’esportatore ove questa sia ideologicamente falsa, occorrendo in tale ipotesi che il contribuente cedente dimostri l’assenza di un proprio coinvolgimento nell’attività fraudolenta, ossia di non essere stato a conoscenza dell’assenza delle condizioni legali per l’applicazione del regime di non imponibilità o di non essersene potuto rendere conto pur avendo adottato tutte le ragionevoli misure in suo potere” (Sez. 5, Sentenza n. 19896 del 05/10/2016, Rv. 641260 – 01).

Ne’ d’altro canto ha fondamento l’ulteriore, subordinata, allegazione defensionale di cui al quinto motivo che mira a far escludere l’imponibilità di dette operazioni attive ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. b), trattandosi di cessioni all’esportazione.

Va infatti ribadito che “In tema di recupero dell’IVA per cessioni al di fuori dei confini dell’Unione Europea, nelle esportazioni indirette di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. b), la prova dell’avvenuta uscita della merce dal territorio doganale dell’Unione deve essere fornita dal cedente mediante l’esemplare 3 DAU, munito di timbro e visto dell’ufficio doganale di uscita, se la dichiarazione di esportazione è effettuata sulla base del Documento Unico Amministrativo (DAU), ovvero esibendo la propria fattura di vendita, su cui siano riportati gli estremi della bolletta doganale ed il visto dell’ultima dogana in uscita dal territorio unionale, senza che sia sufficiente, in caso di transito da una pluralità di uffici, solo quello del primo ufficio” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33483 del 27/12/2018, Rv. 652125 – 01).

Dunque, chiaro che l’onere della prova dell’esportazione grava sul soggetto passivo che intende avvalersi della non imponibilità prevista dalla disposizione legislativa tributaria in questione, non risulta che Dopla abbia assolto tale onere e nemmeno che tale circostanza emerga con il grado di certezza necessario dagli accertamenti istruttori compiuti dall’agenzia fiscale né che sia stata accertata in fatto dal giudice tributario di appello.

Infatti, quanto al primo profilo, dalle parti del PVC basante l’atto impositivo impugnato citate dalla ricorrente, si desume soltanto che Unica sas era una società fittizia (cartiera) e che quindi non poteva essere reale esportatrice della merce in questione, essendo le – probabili – destinatarie reali società di diritto rumeno, in allora da considerarsi extra comunitarie.

Ma ciò non significa affatto che l’Ente impositore abbia così ammesso che la merce oggetto delle riprese fiscali sia stata effettivamente esportata in Romania e consegnata a tali società romene.

Quanto al secondo, la CTR veneta si è limitata ad accertare in fatto che Unica era una cartiera e che quindi le operazioni dalla stessa “filtrate” sia in entrata che in uscita dal territorio nazionale (e comunitario) erano fittizie, ma, né esplicitamente né implicitamente, la sentenza impugnata contiene alcun accertamento che le operazioni attive oggetto della specifica contestazione contenuta nell’avviso di accertamento impugnato siano state effettivamente realizzate con le società romene indicate nel PVC.

Quindi, nella fattispecie concreta, non resta che applicare, come ha fatto il giudice tributario di appello, il c.d. principio di cartolarità ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 21, comma 7, con l’unico temperamento, non sussistente nel caso in esame, dell’eliminazione del rischio di perdita di gettito.

In tal senso il Collegio condivide ed intende dare seguito al principio di diritto secondo il quale “In tema d’IVA, in caso di operazione inesistente, in difetto di rettifica o annullamento della fattura, sussiste l’obbligo di versamento dell’imposta per l’intero ammontare indicato in fattura, in quanto l’emissione del documento contabile determina l’insorgenza del rapporto impositivo, senza che ciò contrasti con il principio di neutralità dell’IVA, prevalendo la funzione ripristinatoria conseguente alla eliminazione del difetto di rettifica o annullamento della fattura, a meno che non sia stato eliminato in tempo utile qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale derivante dall’esercizio del diritto alla detrazione” (Sez. 5 – Ordinanza n. 28263 del 11/12/2020, Rv. 660036 – 01).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 10.000 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

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