Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6774 del 07/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 6774 Anno 2016
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: BRONZINI GIUSEPPE

SENTENZA
sul ricorso 13611-2013 proposto da:
MERLO OSVALDO C.F. MRLSLD66L08L049P, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA QUINTINO SELLA 41, presso lo
studio dell’avvocato MARGHERITA VALENTINI,
rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMILIANO DEL
VECCHIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2016
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contro

AUCHAN S.P.A., in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LUCA DI

Data pubblicazione: 07/04/2016

PAOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO
SAVERIO FRASCA, giusta delega in atti;

controricorrente

avverso la sentenza n. 432/2012 della CORTE D’APPELLO
DI LECCE SEZ.DIST. DI TARANTO, depositata il

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/01/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE
BRONZINI;
udito l’Avvocato DI PAOLO LUCA per delega verbale
Avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

19/11/2012 R.G.N. 630/2011;

R.G. n. 13611/2013
Udienza 21.1.2016, causa n. 4

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

fedeltà e diligenza e buona fede anche con riferimento all’art. 212 CCNL perché assente dal

lavoro per le lesioni riportate in un incidente stradale e pendente lo stato di infortunio
prorogato più volte si sarebbe recato nonostante la malattie denunciate e documentate, presso
l’Agenzia assicurativa da lui gestita; inoltre si sarebbe recato in macchina a fare la spesa. La
protratta assenza dal lavoro secondo l’Auchan spa è non era giustificata da fatti impeditivi, in
tutto o in parte, della prestazione e comunque il comportamento tenuto aveva pregiudicato il
recupero più rapido possibile della capacità lavorativa per cui veniva comminata la sanzione del
licenziamento. Il Merlo impugnava il recesso ma il Giudice del lavoro di Taranto rigettava la
domanda. La Corte di appello di Lecce rigettava l’appello del Merlo con sentenza del
19.11.2012. La Corte territoriale osservava che il lavoratore, in stato di infortunio più volte
prorogato, aveva sostenuto che i postumi dell’infortunio fossero incompatibili con le mansioni
effettuate che comportavano stazione eretta e il trasporto di carichi pesanti come computer e
televisioni, ma che in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione la

prova,

testimoniale aveva accertato che le mansioni svolte presso la datrice di lavoro erano non
dissimile: da quelle svolte nell’agenzia assicurativa. Era* stato dato maggior rilievo alle
dichiarazioni rese dai testi indotti dall’Auchan perché presenti sul luogo della prestazione
durante l’intero orario di lavoro. La circostanza per cui l’appellante si fosse recato dallo zio (
nello stabile in cui si trovava l’agenzia) solo per riposarsi, dando istruzioni alle segretarie
seduto in poltrona, era in sé inverosimile e comunque smentita dalla segretaria che nulla
aveva riferito sul punto e che aveva, anzi, confermato che il Merlo giungeva in agenzia alle 9
del mattino per fare ritorno a casa nell’ora di pranzo per poi rientrare nel primo pomeriggio e
trattenersi sino a sera. I certificati medici prodotti peraltro attestavano solo il prolungamento
dell’infortunio ma nulla indicavano circa lo stato di sofferenza. La Corte territoriale concludeva
nel senso che l’avere lavorato durante lo stato d’infortunio costituiva violazione del dovere di
fedeltà e dei principi di correttezza e buona fede. La prestazione era in realtà eseguibile e il
lavoratore aveva l’onere di mettere a disposizione le proprie energie lavorative eventualmente
con l’esclusione dei lavori più gravosi.
Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso il Merlo con sei motivi; resiste
controporta.con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c.

Al sig. Merlo Orlando, dipendente della Auchan spa veniva contestata i violazione dei doveri di

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il motivo appare infondato. Circa la prima doglianza emerge dalla sentenza impugnata che in
relazione all’assenza dal lavoro del Merlo sono state richieste ben 5 proroghe; rientrava quindi
nel potere del datore di lavoro esaminare la effettiva gravità del comportamento tenuto dal
dipendente nel corso dell’intera assenza dal lavoro e valutare se si trattasse di una episodica
attività nonostante lo stato di infortunio o meno, anche in ordine al rispetto dei principi di
correttezza e buona fede. La Corte territoriale ha espressamente menzionato la necessità di
accertare la continuatività della condotta del lavoratore e pertanto la motivazione appare
corretta trattandosi effettivamente di una condotta contestata (ed accertata) come
continuativa e non episodica. Circa l’altra doglianza (che non emerge dalla sentenza
impugnata) a stare a quanto si deduce nello stesso motivo l’ultimo episodio è del 3.11 mentre
la contestazione è stata inviata il 14.12: non si ravvisa un’ abnorme dilazione dei tempi posto
che era necessario comunque vagliare almeno tre elementi: gli episodi di attività svolta in
costanza di infortunio, le certificazioni di infortunio ed ancora la compatibilità tra l’attività
svolta presso l’Agenzia e quella presso il datore di lavoro. Il motivo parte dall’erroneo
presupposto che, avendo il datore di lavoro accertato il primo elemento, dovesse
necessariamente arrivare ad una immediata contestazione, il che è da escludere essendo
prima necessario vagliare anche gli ulteriori due elementi prima ricordati per concludere circa
l’esistenza di un fatto disciplinarmente rilevante, posto che il lavoratore ha sempre giustificato
le assenze con documentazione medica. Del resto il breve intervallo temporale prima ricordato
non poteva di certo far ritenere al Merlo che il datore di lavoro avesse abdicato al potere
disciplinare in relazione ai fatti di cui è causa, né certamente ha potuto metterlo in difficoltà nel
giustificare la condotta tenuta.
Con il secondo motivo si allega la violazione dell’art. 132 c.p.c. comma secondo e quarto ex
art. 360 c.p.c., nonché la nullità della sentenza in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. La
sentenza offre una motivazione apparente in quanto non esamina dit nel merito le deposizioni
rese dai testi considerati meno attendibili di quelli indotti da parte del datore di lavoro; inoltre .ffr
«sa assolutamente carente la motivazione circa la mancata ammissione della prova in ordine al
periodo di tempo trascorso dal Merlo nell’abitazione dello zio.
Il motivo appare inammissibile in quanto pone questioni concernenti pretesi vizi e carenze
motivazionali della sentenza impugnata oggi non proponibili più ai sensi del novellato n. 5
dell’art. 360 c.pc. applicabile ratione temporis. Questa Corte ha già a sezioni unite affermato
che “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno
2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio
specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se
esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel
rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n.
4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il
“dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto
sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando
che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un
fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300/70; dell’art.
219 CCNL, degli artt. 2697 e 2119 c.c. e 416 primo comma c.p.c., nonché l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio. La Corte non aveva considerato che la società era a
conoscenza dei movimenti del lavoratore nei primi giorni contestati e quindi avrebbe dovuto da
subito contestare i comportamenti tenuti proprio nei giorni in cui erano intervenute le
proroghe. Inoltre il tempo trascorso tra l’ultimo episodio del 3.11.2007 e l’attivazione del
potere disciplinare con la comunicazione inviata il 14.12.2007 era eccessivo ed il punto non era
stato esaminato.

Con il terzo motivo si allega l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Si censura la
sentenza impugnata per “la denunciata discrasia di versione fornite dai citati testi.
Il motivo appare inammissibile in quanto non coerente con la nuova formulazione dell’art. 360
n. 5 c.p.c. anche alla luce delle delucidazioni offerte da questa Corte già ricordate (Cass. n.
8053/2014) che si condivide totalmente ed a cui si intende dare continuità : non è più possibile
far valere l’insufficiente o contraddittoria motivazione ma solo il mancato esame di un fatto
decisivo. Nel caso in esame il fatto di cui si discute e cioè le mansioni concretamente svolte dal
Merlo è stato valutato e non rileva “l’omesso esame di elementi istruttori qualora il fatto
storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, come affermato nella già
citata decisione.
Con il quarto motivo si allega la violazione e falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c.
degli artt. 2697 c.c. e 115 comma primo c.p.c. Non era stato dato modo attraverso una CTU di
dimostrare che l’attività svolta non era dannosa per la guarigione.
Il motivo appare infondato avendo la Corte di appello accertato che evidentemente il Merlo era
in condizioni di svolgere la normale attività lavorativa posto che ne aveva svolto un’altra in
orari di uffici di carattere omogeneo ( ed altre attività faticose come il trasporto sino a cinque
borse di spesa) e quindi era suo onere comunicare la propria disponibilità a riprendere al
lavoro almeno nelle attività meno impegnative sul piano fisico, il che non era avvenuto in
violazione dei principi di correttezza e buona fede. Si tratta di un’autonoma ratio decidendi che
non viene impugnata nel motivo che si limita a contestare che la condotta del Merlo abbia
potuto aggravare il processo di guarigione, punto che la Corte di appello da per scontato
affermando solo che tale valutazione va collocata ex ante e non post. In ogni caso
l’accoglimento del motivo non condurrebbe all’accoglimento del ricorso perché non si impugna,
come detto, che la mancata comunicazione al datore di lavoro di una situazione migliorata dal
punto di vista fisico (che consente la prestazione contrattuale) costituisca una violazione dei
principi di correttezza e buona fede.
Con il quinto motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 2110, 2104 comma
primo c.c., degli artt. 1175, 1375 c.c. e 115 comma primo. Lo stato di inabilità al lavoro era
attestato da certificati medici e comunque esisteva un accertamento del Giudice del lavoro che
aveva riconosciuto il diritto del Merlo all’indennizzo per danno biologico per l’infortunio di cui si
parlato che faceva stato riguardo la patologia e la sua entità.
Il motivo appare infondato. Circa la sentenza menzionata la stessa non è stata né prodotta né
riprodotta e non è stato neppure comprovato che sia passata in cosa giudicata. Non emerge
neppure dai motivo chiaramente quali siano gli accertamenti compiuti in quella sede. Circa
l’altra doglianza la Corte di appello sui punto ha già osservato che i certificati medici richiamati
dal ricorrente nulla comprovano in ordine alla gravità della malattia sofferta e in ordine al suo
decorso ma solo il prolungamento della prognosi, sicché non possono essere fatti valere per
dimostrare l’impossibilità di riprendere al lavoro, mentre la dinamica dei fatti aveva dimostrato
che un certo tipo di prestazione era possibile tant’è che il Merlo aveva svolto attività consimili
nell’Agenzia da lui gestita.

probatorie” ( Cass. SSUU n. 8053/2014 ). Nel caso in esame il” minimo costituzionale” non è
stato violato posto che la Corte di appello ha analiticamente spiegato perché appariva correltoiaug+
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preferire la versione resa da colleghi di lavoro del Merlo che erano a contatto con eilie;esti
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durante l’intero orario di lavoro rispetto a soggetti che erano solo clienti o frequentatori
saltuari dell’esercizio gestito dal latore di lavoro. La dedotta radicale carenza motivazionale
non sussiste neppure riguardo il secondo profilo avendo la Corte di appello spiegato le ragioni
per cui la prova dedotta non doveva essere ammessa in quanto su circostanze in sé
inverosimili e neppure confermate o accennate dalla segretaria dell’agenzia gestita dal Merlo;
la motivazione appare, invece, congrua e logicamente coerente ed ancorata a elementi
obiettivi.

Con l’ultimo motivo si allega la violazione dell’art. 112 c.p.c. Non era stata esaminata la
domanda di dichiarazione di nullità del recesso per sproporzione.
Il motivo appare inammissibile in quanto non si comprova che sia stato (dando per ammesso
che la questione sia stata ritualmente posta in primo grado, il che appare discutibile alla
stregua delle stesse allegazioni di parte ricorrente) articolato uno specifico motivo di
impugnazione che nel motivo non è indicato ( anzi si ammette che la questione sarebbe stata
adombrata ” nel corpo del ricorso”). Il tema della proporzionalità non è stato, quindi, introdotto
nel thema decidendum in appello per scelta del ricorrente e quindi la Corte di appello non
doveva di certo esaminarla.

La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente in via principale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso
principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

La Corte:
rigetta

il ricorso. Condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che

” nonché in euro 3.500,00 per compensi
si liquidano in euro 100,00 per igapettsr
nonché IVA e CPA oltre spese generali nella misura del 15%.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente iff—efe.
–priftelisefe, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso freirreiitieha, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo
13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21.1.2016

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.

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