Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6771 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. I, 01/03/2022, (ud. 24/11/2021, dep. 01/03/2022), n.6771

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12287/2016 R.G. proposto da:

D.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Michele Busetti,

con domicilio eletto in Roma, via Sallustiana, n. 26, presso lo

studio dell’Avv. Andrea Nervi;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.A.S. (OMISSIS) E DELLA SOCIA

ILLIMITATAMENTE RESPONSABILE G.P., in persona del curatore

p.t. Dott. M.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Silvia

Morini, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria

civile della Corte di cassazione;

– controricorrente –

e

V.S., e C.A.;

– intimate –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova n. 24/16,

depositata l’11 aprile 2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 novembre

2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 1 ottobre 2015, il Tribunale di Genova estese ad D.A., in qualità di socio accomandante della (OMISSIS) S.a.s. (OMISSIS), la dichiarazione di fallimento della società, pronunciata con sentenza del 4 gennaio 2013, n. 123/13.

2. Il reclamo proposto dal D. è stato rigettato dalla Corte d’appello di Genova con sentenza dell’11 aprile 2016.

A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso l’intervenuta scadenza del termine annuale di cui al R.D. 16 aprile 1942, n. 267, art. 147 ritenendo applicabile anche al socio accomandante il principio secondo cui la decorrenza del predetto termine non va ancorata alla dichiarazione di fallimento della società, ma, conformemente al principio di certezza delle situazioni giuridiche, alla data in cui lo scioglimento del rapporto sociale viene portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei.

Ha confermato inoltre l’applicabilità dell’art. 2320 c.c., osservando che la responsabilità illimitata del socio accomandante che si sia ingerito nella gestione della società in assenza di una procura speciale ed al di fuori di un rapporto di subordinazione diretto con il socio accomandatario prescinde dalla intensità e dalla continuità della sua indebita ingerenza, e può quindi derivare anche da condotte isolate o di non eccezionale rilievo.

Tanto premesso, la Corte ha ritenuto rilevante l’avvenuto acquisto da parte del reclamante di un’autovettura per conto della società, precisando che l’accomandante risponde illimitatamente anche nel caso in cui, senza ingerirsi in alcun modo nell’amministrazione, abbia concluso affari in mancanza di una procura speciale, e ritenendo quindi ininfluente la scarsa attinenza dell’atto con l’amministrazione della società. Ha aggiunto che per procura speciale deve intendersi un atto scritto ostensibile ai terzi, rilevando comunque che nella specie non era stata fornita neppure la prova di una procura conferita verbalmente. Rilevato inoltre che dalle dichiarazioni rese dal D. in sede penale e dalle deposizioni dei dipendenti era emersa l’assunzione da parte dell’accomandante di autonome decisioni in ordine alla scelta dei campionari, ha qualificato la stessa come atto di gestione, escludendone la natura meramente esecutiva, in virtù della considerazione che nell’ambito della gestione di un esercizio commerciale tale scelta costituisce un momento fondamentale della strategia commerciale. Quanto infine all’avvenuto conferimento al reclamante di una procura generale ad operare sul conto corrente intestato alla società, premesso che tale atto non costituisce violazione del divieto d’immistione, ove ad esso non abbia fatto seguito l’effettivo esercizio dei relativi poteri da parte dell’accomandante, ha rilevato che nella specie risultava provato l’avvenuto compimento di operazioni bancarie da parte del D..

3. Avverso la predetta sentenza il D. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi. Il curatore del fallimento ha resistito con controricorso. Le altre intimate non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2272 c.c., n. 2 o 4, artt. 2288,2293,2308,2315,2320 e 2323 c.c. e della L.Fall., artt. 10 e 147, censurando la sentenza impugnata per aver escluso che il termine previsto da quest’ultima disposizione decorresse dalla data della dichiarazione di fallimento della società, senza tenere conto dell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche sottesa alla relativa previsione, la quale impone di ricollegare il dies a quo ad un evento che offra sufficienti garanzie di conoscenza da parte dei terzi. Premesso che l’estensione del fallimento alla socia accomandataria ne aveva determinato l’esclusione dalla società, con il conseguente scioglimento di quest’ultima, sostiene che, anche a voler escludere l’applicabilità dell’art. 2323, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 2272 o l’art. 2308, con la conseguenza che il termine per la dichiarazione di fallimento del socio accomandante avrebbe dovuto essere considerato ormai scaduto.

1.1. Il motivo è infondato.

In tema di fallimento di società con soci illimitatamente responsabili, questa Corte ha già avuto modo di affermare che la L.Fall., art. 147, comma 2, nella parte in cui esclude la possibilità di dichiarare il fallimento dei soci “decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale”, si riferisce esclusivamente allo scioglimento del rapporto nei confronti del singolo socio, e non anche allo scioglimento della società, il quale non è preso in considerazione né dalla L.Fall., art. 147 né dalla L.Fall., art. 10, che ancora la decorrenza del termine per la dichiarazione di fallimento della società alla cancellazione dal registro delle imprese, sempre che non si dimostri che l’attività è proseguita. La dichiarazione di fallimento, pur determinando lo scioglimento della società, non comporta d’altronde l’estinzione della stessa, che consegue soltanto alla sua cancellazione, né alcuna alterazione del vincolo sociale e dell’organizzazione sociale, che resta in funzione, sia pure con le limitazioni derivanti dall’intervenuto spossessamento. Quanto poi all’invocata certezza delle situazioni giuridiche, è stato precisato che l’automatismo della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile, in caso di fallimento della società, posta anche in relazione con la possibilità di accertare la qualità di socio e l’intervenuta dichiarazione di fallimento della società attraverso il registro delle imprese, costituisce un’adeguata garanzia per i terzi, escludendo quindi la necessità di assoggettare la dichiarazione di fallimento del socio al termine di cui all’art. 10 cit., nell’ipotesi in cui intervenga in epoca successiva a quella della società (cfr. Cass., Sez. I, 7/12/2012, n. 22263).

La dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile resta dunque assoggettata esclusivamente al termine previsto dall’art. 147 cit., comma 2 decorrente dall’iscrizione nel registro delle imprese di una vicenda, personale o societaria, che abbia determinato il venir meno della responsabilità illimitata, e tale disciplina trova applicazione anche al fallimento in estensione del socio accomandante di una società in accomandita semplice che, in quanto ingeritosi nella gestione, sia tenuto a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali: è stato infatti osservato che l’accomandante che abbia violato il divieto di cui all’art. 2320 c.c. si trova in una posizione equiparabile a quella dell’accomandatario occulto, sicché, proprio in virtù del principio di certezza delle situazioni giuridiche, il termine per la dichiarazione di fallimento non decorre né dalla data del recesso, né da quella della dichiarazione di fallimento della società, ma unicamente dal giorno in cui lo scioglimento del rapporto sociale con il socio sia portato a conoscenza dei creditori con idonee forme di pubblicità (cfr. Cass., Sez. I, 28/02/2017, n. 5069; 6/11/2014, n. 23651; Cass., Sez. VI, 25/11/2015, n. 24112). Nessun rilievo può assumere, a tal fine, la circostanza che la dichiarazione di fallimento della società si estenda automaticamente al socio accomandatario, la cui esclusione di diritto dalla società, ai sensi dell’art. 2288 c.c., in quanto volta a preservare la società in bonis dagli effetti dell’insolvenza personale del socio, non opera nell’ipotesi in cui il fallimento di quest’ultimo costituisca effetto di quello della società, in forma della responsabilità del primo per le obbligazioni della seconda (cfr. Cass., Sez. I, 1/07/2008, n. 17953; 20/05/1975, n. 1991).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2320 c.c. e della L.Fall., art. 1, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto irrilevante, ai fini della responsabilità illimitata del socio accomandante, l’intensità e la continuità dell’ingerenza nella gestione. Premesso che la responsabilità illimitata dell’accomandante risponde all’esigenza di tutelare la posizione dell’accomandatario nella gerarchia societaria e l’interesse generale alla rispondenza dell’organizzazione sociale al tipo prescelto, sulla quale i terzi fanno affidamento, sostiene che ai fini della stessa è necessario che l’ingerenza nella gestione abbia superato una soglia minima, tale da esporre a rischio i predetti valori, non apparendo ragionevole far dipendere l’estensione del fallimento da atti connotati da assoluta sporadicità e privi di conseguenze economiche per la società. Ciò posto, afferma che nella specie l’acquisto dell’autovettura per conto della società non aveva alcuna attinenza con la direzione e l’amministrazione della stessa, né può avere ingenerato nei terzi un affidamento in ordine alla titolarità del potere di rappresentanza della società oppure a un condizionamento da lui esercitato nei confronti della socia accomandataria, essendo stato effettuato in virtù di una procura speciale rilasciata da quest’ultima o comunque con il suo consenso. Aggiunge che dall’istruttoria espletata non era emerso alcun elemento idoneo a dimostrare la sua partecipazione alla scelta dei campionari, in epoca successiva alla costituzione della società, trattandosi al più di un concorso occasionale, riconducibile ad un’attività di consulenza, e quindi incompatibile con il carattere necessariamente sistematico degli atti d’ingerenza nella gestione. Precisato inoltre di aver sempre contestato di aver effettuato operazioni bancarie sul conto corrente intestato alla società, afferma l’insufficienza della documentazione prodotta ai fini della relativa prova, evidenziando comunque la portata irrisoria dei movimenti attestati. Sostiene infine che la sentenza impugnata non ha tenuto conto delle risultanze della prova testimoniale assunta, da cui era emerso che a seguito della costituzione della società ogni aspetto della vita della stessa era stato gestito esclusivamente dalla socia accomandataria o dalle dipendenti.

2.1. Il motivo è infondato.

In tema di società in accomandita semplice, questa Corte ha infatti affermato costantemente che, ai fini della configurabilità dell’ingerenza nella gestione sociale, che ai sensi dell’art. 2320 c.c. giustifica la responsabilità illimitata del socio accomandante per le obbligazioni sociali, è necessario che l’accomandante contravvenga al divieto di trattare o concludere affari in nome della società o di compiere atti aventi influenza decisiva o almeno rilevante sull’amministrazione della stessa (cfr. Cass., Sez. VI, 23/02/2018, n. 4498; Cass., Sez. lav., 31/05/2016, n. 11250). Tale principio non si pone affatto in contrasto con quello richiamato dalla sentenza impugnata, ed anch’esso desunto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai predetti fini, non assumono alcun rilievo l’intensità e la continuità dell’indebita ingerenza, essendo la responsabilità illimitata riconducibile anche a condotte isolate o comunque di non eccezionale rilievo (cfr. Cass., Sez. I, 6/11/2014, n. 23651; 6/06/2000, n. 7554). E’ stato infatti chiarito che, per poter attribuire ad un atto un’influenza decisiva o almeno rilevante sull’amministrazione della società, è necessario che esso non riguardi il mero profilo esecutivo, ma il momento genetico in cui si manifesta la scelta d’impresa, cioè che si tratti di un atto di gestione e non di mero ordine (cfr. Cass., Sez. I, 25/07/1996, n. 6725; 14/01/1987, n. 172; 26/06/1979, n. 3563): ciò significa che i connotati di decisività e rilevanza necessari ai fini della configurabilità dell’indebita ingerenza non dipendono tanto dalla durata nel tempo dell’attività complessivamente posta in essere dall’accomandante o dalla reiterazione e dalla frequenza degli atti da lui compiuti, quanto dall’ascrivibilità degli stessi all’ambito delle scelte spettanti al titolare dell’impresa, in cui si concreta la direzione della società, ed in particolare dalla loro attinenza ai rapporti obbligatori con i terzi estranei alla società, restando conseguentemente esclusi gli aspetti di carattere esecutivo inerenti all’adempimento delle obbligazioni che da quei rapporti derivano (cfr. Cass., Sez. I, 6/06/2000, n. 7554).

A tali principi si è puntualmente attenuta la Corte d’appello, la quale, nel ricollegare la responsabilità illimitata del ricorrente all’attività da lui svolta per conto della società, ha preso distintamente in esame, conformemente al disposto dell’art. 2320 c.c., gli affari conclusi in nome della stessa e gli atti di gestione da lui compiuti, ponendo correttamente in risalto per i primi il mancato conferimento di una procura speciale e per i secondi la portata tutto altro che secondaria ai fini della determinazione della strategia commerciale della società. Tale apprezzamento, configurabile come un giudizio di fatto e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non risulta validamente censurato dal ricorrente, il quale, nell’insistere sul carattere occasionale dell’ingerenza e sulla scarsa incidenza della stessa sull’amministrazione della società, evidenzia da un lato un profilo estraneo alla fattispecie legale, sollecitando dall’altro una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cit. ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547).

3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che la sentenza impugnata non ha tenuto conto delle risultanze della prova testimoniale assunta, da cui era emerso che a seguito della costituzione della società ogni aspetto della vita della stessa era stato gestito esclusivamente dal socio accomandatario e dalle commesse.

3.1. Il motivo è inammissibile, risolvendosi nella mera richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio acquisito agli atti, anch’essa estranea alle competenze di questa Corte, in quanto riservata al giudice di merito, cui spettano in via esclusiva l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, il controllo della loro attendibilità e concludenza e la scelta, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, osservando che, nel conferire rilievo all’avvenuta effettuazione di operazioni bancarie sul conto corrente della società, la sentenza impugnata ha preso in esame una questione mai sollevata da parte del fallimento.

4.1. Il motivo è infondato.

Come si evince dall’istanza di fallimento in estensione, parzialmente trascritta a corredo delle censure, tra i fatti idonei a comprovare l’indebita ingerenza nella gestione sociale il curatore aveva allegato l’attribuzione al ricorrente di una procura generale ad operare sul conto corrente intestato alla società: rispetto a tale allegazione, l’affermazione dell’effettivo compimento di operazioni bancarie da parte del ricorrente, in mancanza di una procura speciale per singoli affari, non comportava l’introduzione di un fatto nuovo, configurandosi piuttosto come rilevazione di una parziale diversità del fatto accertato rispetto a quello allegato, di per sé inidonea a determinare un mutamento del thema decidendum, dal momento che il fatto, così come diversamente accertato, risultava ugualmente idoneo a giustificare l’affermazione dell’avvenuto svolgimento di attività gestoria.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 112,115,183,184 e 189 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver omesso di esaminare le istanze istruttorie formulate da esso ricorrente, aventi ad oggetto l’esibizione della documentazione relativa al conto corrente della società e l’ammissione dell’interrogatorio formale della socia accomandataria e di ulteriori capitoli di prova.

5.1. Il motivo è infondato.

La stessa difesa del ricorrente riferisce infatti che l’istanza di esibizione, proposta in primo grado nei confronti dell’istituto di credito con cui la società fallita intratteneva il rapporto di conto corrente, era stata accolta dal Tribunale di Genova con provvedimento ritualmente notificato al terzo, il quale non aveva ottemperato all’ordine. Nessun provvedimento era dunque tenuta ad adottare la Corte d’appello, a fronte dell’avvenuta riproposizione dell’istanza in sede di reclamo, non essendo l’ordine di esibizione suscettibile di esecuzione coattiva, né per iniziativa del giudice né ad iniziativa della parte interessata, e non essendo nella specie possibile trarre alcun elemento di prova dal comportamento dell’istituto di credito, che non era parte del giudizio (cfr. Cass., Sez. III, 10/12/2003, n. 18833; Cass., Sez. lav., 6/12/1983, n. 7289).

Non può invece riconoscersi carattere decisivo ai fatti dedotti nei capitoli della prova testimoniale non ammessi in primo grado e riproposti in sede di reclamo, trattandosi di circostanze che, in quanto attinenti alla gestione dei rapporti tra la società fallita ed i rappresentanti di alcune ditte fornitrici, non consentono ad escludere l’indebita ingerenza del ricorrente nella gestione sociale, realizzatasi attraverso il compimento di altri atti, ritenuti provati dalla sentenza impugnata sulla base delle prove acquisite. Ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 2320 c.c., non è d’altronde necessario che l’ingerenza indebitamente spiegata dall’accomandante nell’amministrazione della società si sia tradotta nel totale esautoramento degli accomandatari, ben potendosi la stessa manifestare anche in termini di semplice concorso alle scelte imprenditoriali o attraverso il compimento di singoli atti di gestione, purché aventi i prescritti connotati di rilevanza e decisività.

Inammissibile risulta infine l’interrogatorio formale della socia accomandataria, non avendo la stessa assunto la veste di parte del giudizio, e non potendo d’altronde disporre dei diritti ai quali dovrebbe riferirsi la confessione che il mezzo istruttorio è volto a provocare (cfr. Cass., Sez. 20/01/1995, n. 629).

6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

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